mercoledì 28 settembre 2011

Epicurei da bar

~ BANALITÀ PREMIATE CON IL NOBEL
AL COSPETTO DELLA MORTE ~

Càpita di passare un giorno in ospedale a distrarre degli amici con qualche chiacchiera e, aggirandosi per quei giganteschi castelli del patire e della paura, provare ancora una volta la sensazione del limite, l’esperienza della dipendenza fisica, la nostalgia della vita piena. Intorno, la bruttezza dei corpi, che è un mistero doloroso lancinante. Sul calar della sera, in quel luogo sinistro dove si incrociano macchine fantasiose e sangue, tecnologia e rantoli, chimica dei farmaci e batticuore, si è raggiunti da una telefonata che annuncia la morte di un parente in un altro ospedale della città, ecco la tristezza che non si accontenta di consolazioni mediocri. Si legge allora su una copia abbandonata del «manifesto», quotidiano del materialismo senza drammi, una frase in neretto: «La morte? La morte non è nulla. Prima si esisteva e poi si smette di esistere, è tutto qui...». Tutto qui? Almeno il libertino sapeva che quello che conta su questa terra riguarda un simile, sostanzioso, passaggio: prima e poi, il godimento del mondo e le tenebre senza fine. Se il buio eterno vi sembra poco, recitate pure la parte degli epicurei moderni, ma «crepa!» sarà allora un grido augurale, come una «buonanotte». Farete pure la figura degli eroi ma viene il sospetto che forse lo spettacolo del creato non vi abbia mai commosso sul serio. Quello che ai primi filosofi dell’Occidente serviva come protezione da pensieri troppo tormentosi, adesso che da duemila anni è scoppiato lo scandalo cristiano di fronte alla morte, ed è squillato il buon annuncio della vita eterna, appare come un giochino verbale irritante rispetto al grave tema, un estremo arcaismo per dispetto, non più ingenuo, soltanto sciocco. Così la macroscopica stoltezza di tanti recenti premi Nobel della letteratura non si smentisce: anche il portoghese che lo vinse nel 1998 può pronunciare impunemente in un’intervista pubblicata postuma questa frase che ferisce le sofferenze più intime degli umani. E i giornali devoti dell’ovvietà la riportano come un evangelo nello stesso numero in cui trafficano con l’etica dei vescovi riguardo ai peccatori al governo: non sanno che le peggiori nequizie del mondo sono appena un riflesso dell’apparente trionfo della morte. «Tutto qui» riassume il laicismo tracotante, lo sberleffo dell’insolente di fronte a chi giace, la battuta per farsi bello con l’epicureismo da bar.

giovedì 22 settembre 2011

Una rossa aureola

~ LA MOSTRA VATICANA DI CARLO MATTIOLI ~

Qualche giorno fa in Vaticano si è inaugurata una mostra encomiabile, ed è raro ormai che ciò accada nello Stato più piccolo e più ricco di arte sulla terra. Si snoda negli spazi difficili del Braccio di Carlo Magno la retrospettiva dal titolo ossimorico, «Una luce d’ombra», del pittore Carlo Mattioli (1911-1994). Pittore che dipingeva davvero (e disegnava) anche sul finire del Novecento, periodo di eclisse per le arti visive; pittore miope che vedeva bene le cose vicine e non tentava di catturare l’invisibile, pittore dunque della migliore tradizione italica, quella che ha raffigurato il creato e ne ha celebrato la meraviglia. Basterebbe questo per spiegare perché la capitale della cultura cattolica gli rende un doveroso omaggio. C’è inoltre l’occasione del centenario della nascita che opportunamente si presterebbe per confronti e bilanci, il pretesto ufficiale però è un altro. Il legame tra l’artista modenese-parmense e la berniniana piazza San Pietro che lo celebra adesso urbi et orbi nasce dal ricordo di uno dei suoi Crocifissi dell’ultima fase, donato a papa Montini in un anniversario importante. Viene subito da sottolineare allora che quest’estate, in un’occasione simile, a Benedetto XVI è toccato in sorte ben altro regalo.

A luglio l’«Almanacco» fu a lungo incerto se affrontare la penosa esposizione di doni ‘artistici’ a Ratzinger intitolata pomposamente «Lo splendore della verità» (la maggior parte di coloro che erano stati invitati a mostrare i loro capricci estetici non credeva in alcuna verità): che colpo al cuore vedere in quella parodia dello showroom contemporaneo, già parodistico di suo, il segno del decadimento della cultura cattolica. La committenza unica al mondo – dal momento che per secoli i rappresentanti del Dio incarnato nell’umano chiedevano agli artisti di mettere in scena questo universo divino – sembrava avere abdicato definitivamente al proprio compito e si accontentava di scarti, annaspando tra i sottogeneri, alla ricerca di qualche stentato motivo spirituale se non spiritista, all’opposto della dottrina cristiana e della storia del bello. Roba per lo più da festival provinciale, nessun nome che conta nelle mode attuali, men che mai un gigante inattuale, nessun risalto neppure nei media che enfatizzano ogni sussulto di questo mondo. Perfino il dotto cardinale Ravasi non trovava di meglio nel discorso di apertura che citare Henry Miller, come un liceale pruriginoso d’altri tempi.

Invece, per ricordare Mattioli, anche Sua Eminenza è salito su di tono ed ha evocato Goethe, la sua teoria dei colori. Si stava parlando di uno dei ‘grandi’ del Novecento: dietro una parvenza di modestia e timidezza, c’era un elegante signore, alto e magro, che si misurava con secoli della nostra storia dell’arte, non per citazionismo intellettuale, per passione e per antico talento (apparteneva a una famiglia di decoratori), che riportava su povere tavole quella gloriosa pittura. «Si tenne lontano dalle beghe del tempo», ha detto con semplicità uno degli organizzatori della mostra, non scrisse manifesti, non polemizzò né teorizzò infatti, dipinse appunto in un’aulica provincia, e fu circondato da una corte di amici poeti e prosatori eleganti. Non gli imbonitori del contemporaneo, non i curators, i monatti delle merci, bensì Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Vittorio Sereni, Giorgio Soavi, Cesare Garboli, Oreste Macrì, Giovanni Testori, Carlo Bo, Roberto Longhi, Roberto Tassi…(negli anni Novanta anche James Hillman gli renderà omaggio, dedicandogli uno sguardo critico, The practice of Beauty, 1994). Quasi tutti i sodali sospendevano il tempo, ignoravano l’ansia dell’avanguardia, incrociavano la letteratura con la rappresentazione plastica (nella mostra vaticana, frammenti di quei discorsi scandiscono le sale, i temi dell’artista, i suoi ciclici capitoli). Anche alcuni pittori fecero parte dell’eletta schiera, a cominciare da Giorgio de Chirico, che Mattioli effigiò in una di quelle «introspezioni fulminee» (Garboli) che più che alle caricature fanno pensare ai sintetici ritratti di Gian Lorenzo Bernini. Da una parte, insomma, scorreva la vita piatta dei moderni – ritmata dai flussi e riflussi, dalle innovazioni e dalle ripetizioni, dalle ondulazioni del mercato – descritta perfettamente dal Guy Debord riportato sul n. 658 del «Covile» online quando dice «degli ignoranti mistificati che si credono istruiti, e dei morti che credono di votare», «tenuti nell’analfabetismo modernizzato e nelle superstizioni spettacolari», «nel consumo ostentato del nulla», «infelici spettatori [che fanno] incetta di surrogati»; dall’altra, lo splendore di una piccola capitale, residuo prezioso di altri mondi, quel che resta della tradizione, la provincia felice che ancora non ha sparso al vento l’eredità, che nasconde misteriose fragranze senza marca. Questa più o meno la vita al ‘Circolo di lettura e di conversazione’ di Parma, l’hortus conclusus dove l’arte vien su bene. E in luogo dei viaggi esotici ai Tropici, vacanze sulle grandi spiagge della Versilia, spiagge messe in scena senza mare (come annuncia il libro dell’Apocalisse), gite sul Po, paesaggi padani, paesaggi toscani, paesaggi dell’arte italiana. Screpolature, muri assolati, ocra, tanto ocra in tutte le sue tonalità, dal giallo al marrone passando per ogni gradazione di rosso sangue. E passioni familiari ben più attraenti dei cliché balthusiani delle fanciulle in fiore sempre uguali, sulla tela prendevano corpo infatti le trepidazioni e gli stupori di un nonno.

Ne riparleremo su questo «Almanacco» di Mattioli, ma fin d’ora, annunciando la mostra, consigliandola con calore (attenzione, dura poco, chiude il 13 novembre), vogliamo riassumere i motivi del perché di tanto infervoramento. Già prevediamo le perplessità di qualche lettore: un pittore che dipingeva eppure si mescolava ai linguaggi fratti del suo tempo. Forse non era neppure una scelta, piuttosto un’influenza, un contagio, lo Zeitgeist è un Leitmotiv che si infila anche negli eremi, che tenta anche gli spiriti più severi, che convince anzi proprio i più isolati: se vuoi comunicare con gli umani devi ricorrere a questo medium attuale, devi usare il loro linguaggio, le inflessioni quotidiane, «le parole della massaia al mercato» diceva Lutero per spiegare la sua traduzione biblica. Così si vedranno nei quadri di Mattioli tanti segni del tempo suo, comprese magari «le crepe e le ferite» di Burri o le spartizioni della tela di Rothko, o prima ancora le folgorazioni picassiane, e gli innumerevoli tic estetici dei Sessanta e dei Settanta, ma mentre tutta questa semiotica insensata (eccezion fatta per il Malagueño, s’intende) si compiaceva di essere fine a se stessa, nichilistico svuotamento dell’arte, Mattioli ricorreva di volta in volta agli spunti materici o astrattisti per dipingere, senza alcun collage, paesaggi della migliore tradizione, le terre e le acque, i colli, le pinete, i campi di lavande, la natura e la maniera; qualcuno lo farà risalire alle formelle romaniche che aveva fissate nella mente fin dall’infanzia modenese. Immagini dove il colore, elaborato con superba maestria, è ancora il fattore decisivo. Vi si ritrova «la gioia per l’occhio» di cui parlava Delacroix. «In niente romantico» (Tassi), sarà spesso inquieto, non triste come i pessimisti del contemporaneo, per cui l’uomo nuovo delle loro utopie si è già cambiato in incubo. Mattioli fu il Maestro dei Notturni, chiari, calmi, lunari.

E poi ci sono i crocefissi. Ecco l’altro punto: un’arte sacra è possibile anche per noi. Quando un tal Serrano, per ottenere una fama da starlette, immerge un crocifisso nell’urina e poi chiede venia, scrivendo recentemente al «Corriere della Sera» per argomentare le sue buone intenzioni, richiamandosi naturalmente allo scandalo cristiano, forse otterrà la comprensione dei preti più dialoganti, magari una committenza dei cappuccini di San Giovanni Rotondo, ma chi ha senso estetico e poca tolleranza replicherebbe volentieri a calci in bocca onde far cessare quel piagnucolio dei provocatori di mestiere, dei piccoli Erostati melliflui, dei bestemmiatori che vogliono anche il consenso clericale. In questo secolo si è appeso di tutto sulla croce, rivoluzionari e puttane, banditi e animali (sarebbe proprio il caso di crocifiggere per qualche ora, appena legati, gli pseudo-artisti in una originale performance); invece Mattioli provò a raffigurare la vittima divina su una tavola. Assi recuperate, crepate, talvolta con delle fenditure profonde, per dipingere a olio o a tempera il Cristo morto. La tradizione del Christus patiens accosta un novecentesco a Giunta Pisano, lo spasimo diviene moderno, meno canonico, stereotipato, più informale. Sempre accompagna questi crocifissi un’aureola rosso fuoco, o un sole, o una fiamma di vita.

Narrava Testori: «Sulla scena dell’arte italiana Mattioli ha avuto un’apparizione lenta: se n’è stato chiuso, per anni, quasi in disparte, ammiratissimo da pochi; poi la porta del suo studio s’aprì al vento della fama, e dentro vi si videro terrestri e insieme ‘nubiche’, solive e insieme lunari meraviglie». Si racconta che quando morì, negli ultimi scampoli del XX secolo, il popolo di Parma lo accompagnò al cimitero come si faceva per i grandi artisti di un tempo. Inimmaginabile il lutto collettivo per un installatore.

Un appunto va però fatto. Almeno nel giorno del vernissage, un frastuono musicale di ‘sottofondo’, costringeva a tapparsi le orecchie per vedere il pittore del silenzio.

martedì 20 settembre 2011

Il gusto di Porta Pia

~ PICCOLI ORRORI ESTETICI A 141 ANNI DALLA BRECCIA ~

C’era una volta, nel rione Colonna, la chiesa di San Silvestro in Capite, chiamata così, pare, perché conservava la reliquia della testa di san Giovanni Battista, quella che fu portata su un vassoio a Salomè e su cui pittori, scrittori e gente di spettacolo fantasticarono sempre. Accanto alla chiesa, sorgeva un monastero di suore con un bel chiostro. Dopo l’arrivo dei bersaglieri a Porta Pia, ennesimo segno delle piccole violenze inflitte dai 'piemontesi' alla Roma cristiana, i conquistatori trasformarono il convento in un grande palazzo delle poste secondo i più vieti canoni dei revivals rinascimentali e, passata la moda, restò la bruttura, proprio come accade per tutti quegli interventi all’insegna dell’effimero che infliggiamo all’antica metropoli. La piazza ottocentesca che si apriva di fronte al principale ufficio postale della città sembrava un piatto cortile condominiale, ma nel Novecento si caratterizzò come una stazione urbana di trasporti pubblici a cielo aperto, un luogo cruciale dove gli strilloni andavano ad annunciare cose che si spacciavano per apocalittiche e adesso ci apparirebbero insulse, come quasi tutto quel che si scrive sui giornali. Ed ecco che questa estate gli amministratori della città hanno deciso di investire denaro e interesse per un simile posto. Roma cade a pezzi, la crisi economica impazza, ma i dirigenti capitolini si occupano di Piazza San Silvestro. Sarà una operazione di restyling – si congettura – , un aggiustamento di questa nostrana Piccadilly, che come la piazza londinese gode di una felicissima posizione pur non avendo nulla di buono da mostrare, un centro nevralgico della rete dei trasporti, dove magari si vorranno enfatizzare le pensiline, renderle più old fashion con molta ghisa, aggiungere sedili, aprire (magari tra cento anni) un ingresso che colleghi alla metropolitana della vicina piazza di Spagna, ritoccare l’illuminazione, sottolineare il carattere di stazione nel centro della città… Oppure – si fantastica – vorranno scavare una super-stazione sotterranea per gli autobus extraurbani imitando New York che riesce a fare uscire i suoi pullman da Manhattan, e a lasciarsi alle spalle la metropoli in pochi minuti, percorrendo lunghissimi sottopassaggi. Macché, le autorità hanno deciso che piazza S. Silvestro è bella – e solo per questo andrebbero rimossi dal loro incarico – e va perciò liberata dai bus che vi sostano. L’unico servizio cui era adatto questo moderno quadrilatero adiacente al Corso e a Piazza di Spagna viene smantellato.

La Domus Area è intransitabile per mancanza di fondi, ma il comune sperpera i nostri soldi per San Silvestro, sconvolge il traffico nel centro storico, poi si accorge che sta venendo fuori qualcosa di molto più sgraziato di prima, e allora chiede consigli ai suoi luminari, ci si inventa strada facendo le più ridicole soluzioni, si parla così di un luogo per concerti en plein air. Vorrebbero aprire una cavea, ma ormai la pavimentazione è fatta e quindi i concertisti si dovranno accontentare di una superficie. E uno si chiede: ma perché non tenere i piccoli concerti a Villa Borghese, come era tradizione, come avviene nelle ville di mezza Europa, e anche degli Usa, senza palchi speciali e senza buttar denaro pubblico? Perché l’attuale missione dei sindaci e degli assessori municipali è di «portare la cultura» a chi se ne straimpipa. Proporre la musica in piazza in mezzo allo shopping, portare la cultura a domicilio, in borgata o ai Parioli, senza mai riflettere su quanto andava prescrivendo astutamente l’inventore della psicoanalisi: si deve pagare, e pagare profumatamente, i quarantacinque minuti sul lettino davanti al guru silente, altrimenti nessuno darà peso e credito a quelle strane chiacchiere. Perché mai allora la cosiddetta cultura deve essere distribuita come fosse acqua da bere, senza richiedere un minimo sforzo e interesse? Perché non incamminarsi nei viali del parco, a piedi naturalmente, magari portandosi da casa una seggiolina e uno spartito, come si vide in paesi anglosassoni, preparandosi spiritualmente, interrompendo il flusso quotidiano, per godere di un concerto campestre?

Scriviamo di questa autentica castroneria di Piazza San Silvestro nel giorno fatale del Venti settembre, centoquarantunesimo anniversario della conquista savoiarda di Roma. Nei precedenti duemila anni circa di Stato pontificio, equivoci estetici come quello raccontato forse non se ne ebbero. Sciaguratissime scelte si contarono certamente – i papi non sono infallibili in campo urbanistico – committenze che ferirono Bernini o Borromini, barbarie addirittura, interessi privatissimi dei principi romani, rivalità feroci tra cardinali, eccetera eccetera, però mai nella sua lunga storia Roma aveva visto il piccolo borghese al comando. Arrivò nel 1870 attraverso la breccia di Porta Pia, e i nuovi quartieri innalzati sull’Esquilino sono ancora là a testimoniare del misero sentire e della boria impiegatizia. Si costruirono a ridosso dei Fori imperiali boulevards in sedicesimo, edifici modestissimi con tanti fronzoli, eclettismi invidiati alle altre capitali europee viste in viaggio di nozze. Dietro l’Impero di cartapesta, il fascismo tradiva il medesimo gusto, lo racconta superbamente Gadda nel suo Pasticciaccio. I film in bianco e nero del dopoguerra mostrano invece la difficoltà e la paura di quei piccolo-borghesi di fronte alla calata di proletari e baraccati. Guardia e ladro, Totò e Aldo Fabrizi, i sogni dell’Americano a Roma. Così fu ridotta la capitale del mondo. Mancava però la presa del potere ufficiale del piccolo borghese, senza mediazioni del personale politico, senza ideologia. Ed ecco il sindaco attuale che incarna fisicamente quel tipo, che a Natale mette strani pupazzi sulla cordonata del Campidoglio, che illumina i palazzi michelangioleschi con le lampade a neon (amministratore condominiale risparmiatore), che rimette in moto sagre dopolavoristiche, Carri di Tespi, che organizza pajate della riconciliazione in piatti di carta a piazza Montecitorio, che elemosina modifiche al garage dell’Augusteo e si fa ridere dietro da un volgare architetto americano, che pota gli alberi – ordinaria amministrazione – e permette che i suoi insudicino l’intera città con manifesti plaudenti al «nuovo Rinascimento»…

Si potrebbe riempire un volume di malinconiche gesta del piccolo borghese con la fascia tricolore, del trionfo del gusto meschino. Grazie, liberatori del Venti settembre, grazie.

sabato 17 settembre 2011

Il santo che oscurò il Concilio

~ I PRODIGI FANNO BELLA LA CHIESA D’OGNI TEMPO ~

Si arresero alle peggiori forme del moderno. Con le migliori intenzioni del mondo, naturalmente, al fine di aggiornare la religione di Cristo, di lucidarla con l’illuminismo, di arricchirla con la terrena ‘questione sociale’ (che facesse da contrappeso al Cielo), di renderla attraente per il pubblico della televisione, per i consumatori di cultura a fascicoli e di psicoanalisi, per il popolo che cominciava a firmare cambiali, per le vestali del Progresso, per i fans del rock e i lettori di Sartre, per i recenti inurbati e i crescenti inurbani; al fine di rendere accettabile anche ai cattolici ‘adulti’ il catechismo e i prodigi biblici, ai liberali un Dio intollerante, ai socialisti lo sfarzo della religione di Roma, i disgraziati preti degli anni Sessanta/Settanta si prodigarono nel buttare a mare le più preziose formule liturgiche e la prosa latina che le rivestiva; tradirono così l’arte millenaria e la musica altrettanto millenaria, tolsero l’aureola ai santi che non possedevano il certificato filologico, si lasciarono suggestionare dalla desolazione protestante, si illusero fosse un’arte nuova (con lo spirituale incorporato), si piegarono di fronte ai totalitarismi del dopoguerra – non solo con i regimi che opprimono i suoi fedeli, come la Chiesa aveva sempre fatto, trattando saggiamente con i tiranni, cercando di strappare dalle loro grinfie il più gran numero di vittime –, bensì intrattenendosi stavolta con ideologi senza potere, complici e nunzi di quei mascalzoni; aprirono infine le porte a massoni, garibaldini, a tutte le sètte, chiedendo scusa a ciascuno di loro, autolesionismo impressionante, confondendo pericolosamente cristianesimo e masochismo; svendettero o regalarono la tradizione agli antiquari, se ne vergognarono, si inebriarono con gli argomenti dei nemici; camminarono in punta di piedi, clero timidone e laici con il complesso di inferiorità verso i miscredenti: per donare un maggiore appeal della Chiesa finirono per sopprimerla, per cancellare il sacrificio della messa, per riscrivere i libri sacri in traduzioni penose.

Sepolto il secolo, strappata l’identità cattolica a colpi di ‘pastorali’, estirpata la sontuosità dei riti, le chiese si sono svuotate come neppure la peggiore mente anticlericale avrebbe saputo fare e prevedere. Adesso per un paradosso provvidenziale l’unico che attira le folle, invocato, amato, riconosciuto, venerato, è padre Pio da Pietrelcina, santo che fa miracoli, che dissolve le ermeneutiche intellettuali, che consola i malati, i moribondi, i sopravvissuti. Santo inattuale, anzi ‘reazionario’, che confonde gli scienziati, che teme Satana ma lo affronta, che ammonisce i peccatori e che indica loro il Paradiso, promettendo di aspettarli uno a uno sulla temibile soglia finale. Santo della Chiesa prima del Concilio, che riunifica il popolo di Dio, colti e incolti, illuminati e spenti, sani e malandati, alla maniera dei grandi del Medioevo, di Francesco e Antonio. Frate stigmatizzato, frate del prodigio.

Seguìto, nella classifica del gradimento universale, da un parroco polacco che, a sua volta, confidò in padre Pio, che incoraggiò i cattolici e li spronò come facevano i condottieri di un tempo. Santo che, tra l’altro, consegnò il comunismo europeo al Museo dei grandi crimini ormai lontani.

domenica 11 settembre 2011

L'amore della immortalità

~ ANCHE SENZA ESSERE CRISTIANI NON CI SI ARRENDE
FACILMENTE ALLA DAMA DEL NICHILISMO:
LA RESURREZIONE RACCONTATA DA MIGUEL DE UNAMUNO ~

«Di conseguenza, è naturale che si ami l’immortalità insieme al bene
se è vero che l’amore è amore di possedere il bene per sempre. Da ciò
consegue come necessario che l’amore sia anche amore dell’immortalità
»

Platone,
SIMPOSIO

Oggi che dei teologi sedicenti cattolici mettono in dubbio la resurrezione di Cristo che garantisce la resurrezione della carne di tutti gli umani, potrà sorprendere come all’inizio del secolo moderno per eccellenza, nel primo Novecento ‘laico’, Miguel de Unamuno, lo scrittore e pensatore spagnolo che annunciava l’«agonia del cristianesimo», riflettesse poi sull’antica fede nell’immortalità. Dal saggio Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, del 1913, nella edizione Rinascimento del libro, Firenze, 1944, riportiamo alcuni passi, tratti tutti dal IV capitolo, «L’essenza del cattolicesimo».

«La fede nell’immortalità dell’anima […] bisogna dire che è una specie di sottinteso, di supposto tacito, nell’Evangelo, ed è la situazione di spirito di molti di coloro che oggi lo leggono – situazione opposta a quella dei cristiani fra i quali scaturì il Vangelo, – che loro impedisce di comprenderlo. […] Scaturì il cristianesimo da una confluenza di due grandi processi spirituali, giudaico ed ellenico, ognuno dei quali era arrivato per parte sua, se non alla definizione esatta, alla esatta ansia di un’altra vita. Non fu tra i giudei né generale né chiara la fede in un’altra vita; ma li portò ad essa la fede in un Dio personale e vivo. […] La fede nel Dio personale, nel Padre degli uomini, porta con sé la fede nell’eternizzazione dell’uomo individuale». Una tale fede non c’è ancora in Omero, che chiude una civiltà, che precede il regno spirituale di Apollo. «”Nessun popolo venne sulla terra così sereno e soleggiato come il greco, nei giorni giovanili della sua esistenza storica…” [notava Pfleiderer] ma nessun popolo cambiò così completamente la sua nozione sul valore della vita. […] Così, ognuno per parte sua, giudei e greci, arrivarono alla vera scoperta della morte […]. La scoperta dell’immortalità, preparata dai processi religiosi giudaico-ellenistici, fu specificamente cristiana». La teologia della resurrezione fu opera di Paolo: «l’importante per lui era che Cristo si fosse fatto uomo, e fosse morto e resuscitato». Innumerevoli passi delle sue epistole confermano questa sintesi del pensiero paolino. «Partendo da questo punto si può affermare che chi non crede nella resurrezione carnale di Cristo potrà essere filocristo, ma non specificamente cristiano. […] Il fine della redenzione fu, nonostante le apparenze per deviazione etica del dogma, propriamente religioso, di salvarci dalla morte piuttosto che dal peccato, o da questo in quanto implica la morte».

«Dopo Paolo si successero gli anni e le generazioni cristiane lavorando intorno a quel dogma centrale e alle sue conseguenze, per assicurare la fede nell’immortalità dell’anima individuale, e venne il Concilio Niceno, e con esso quel formidabile Atanasio, il cui nome è già un emblema [è formato infatti dall’alfa privativo e dalla parola thànatos, morte, senza morte, immortale ndr], incarnazione della fede popolare. Atanasio era un uomo di poca erudizione e di molta fede, e soprattutto di fede popolare, e pieno d’ansia di immortalità. E si oppose all’arianesimo, che come già più tardi il protestantesimo unitariano e il sociniano minacciavano, per quanto senza saperlo né volerlo, le basi di quella fede. Per gli ariani, Cristo era prima di tutto un maestro, e un maestro di morale, l’uomo perfettissimo, pertanto garanzia che tutti possiamo arrivare alla somma perfezione; ma Atanasio sentiva che Cristo non poteva farci dèi se prima non si fosse fatto Dio egli stesso, se la sua divinità per partecipazione non avesse potuto parteciparla. “Non è che Cristo – diceva – essendo uomo si è fatto poi Dio, se non che essendo Dio si è fatto uomo per poi meglio deificarci”. […] Il Cristo atanasiano o niceno, che è il Cristo cattolico, non è il cosmologico né, in realtà, l’etico, è l’eternador, il deificatore, il religioso».

«Fra i protestanti, il Gesù storico soffre sotto lo scalpello della critica, mentre il Cristo cattolico, il Cristo veramente storico, vive nei secoli, mallevadore della fede nell’immortalità. […] A Nicea riportarono dunque la palma, come in seguito la riportarono in Vaticano, gli idioti – prendendo la parola nel suo senso primitivo ed etimologico – gli ingenui, i vescovi rozzi e testardi, rappresentanti del genuino spirito umano, del popolare, di quel che non vuole morire, dica quello che vuole la ragione, e cerca la garanzia più materiale e possibile, per il suo desiderio di immortalità. Quid hoc ad aeternitatem? [che cosa serve tutto questo di fronte all’eternità? potrebbe essere una traduzione ndr] Ecco la domanda capitale». E il Credo finisce con quel resurrectionem mortuorum et vita venturi saeculi […] O come dice il Catechismo, con gli stessi corpi e con le stesse anime che ebbero. La felicità dei beati non sarà del tutto perfetta, fino a che essi non ricupereranno i loro corpi: questa è dottrina cattolica ortodossa. […] E a questo dogma centrale della resurrezione in Cristo e per Cristo corrisponde pure un sacramento centrale, l’asse della pietà popolare cattolica, e cioè il sacramento dell’Eucarestia. In esso si somministra il corpo di Cristo che è il pane di immortalità. È il sacramento genuinamente realista, dinglich, si direbbe in tedesco, e che non è gran violenza tradurre materiale, il sacramento più genuinamente ex opere operato, sostituito tra i protestanti col sacramento idealista della parola. Si tratta, nel fondo, e lo dico con tutto il rispetto possibile, ma senza voler sacrificare l’espressione della frase, di mangiare e di bere Iddio, l’Eternizador, di alimentarsi di Lui. […] Lo specifico religioso cattolico è l’immortalità, e non la giustificazione alla maniera protestante. Questa è piuttosto etica. Ed in Kant, il cui protestantesimo, per quanto dispiaccia agli ortodossi, trasse le sue ultime conseguenze, la religione dipende dalla morale, e non questa da quella, come nel cattolicesimo. […] Il protestantesimo, assorto nel fatto della giustificazione, presa in un senso più etico, benché in apparenza religioso, finisce per neutralizzare e quasi cancellare l’escatologico, abbandona la simbolica nicena, cade nell’anarchia confessionale, nel puro individualismo religioso e in una vaga religiosità estetica, etica o culturale. […] La vocazione terrena e la fiducia passiva in Dio dànno la loro volgarità religiosa al luteranesimo, che fu sul punto di naufragare nell’età dell’illuminamento, dell’Aufklärung…».

«Per parte mia, non concepisco la libertà di un cuore né la tranquillità di una coscienza che non siano sicure della loro perdurabilità dopo la morte». I teologi protestanti si affannano invece a parlare di remissione dei peccati. «La nuova apologetica psicologica fa appello al miracolo morale, e noi, come i giudei, vogliamo dei segnali, qualche cosa che si possa afferrare con tutte le potenze dell’anima e con tutti i sensi del corpo». L’arte forse serve proprio a quello.

mercoledì 7 settembre 2011

Lettera senza postino

~ LO SCIOPERO NELL’EPOCA DEL WEB ~

Se un giorno fu un mezzo di riscatto, oggi lo sciopero risulta particolarmente odioso. I deboli si contavano, provavano a mostrare un po’ di forza, il contropotere di un solo giorno. Adesso è ottocentesco revival, una vacanza senza festa, una vacanza che si pagano i poveri scioperanti e che non godono, a maggior gloria dei dirigenti sul palco. Si cambiano le maschere, lo ‘sfruttato’ è anche il cittadino attento al Pil, il votante, il consumatore, il tifoso del tricolore. La dialettica hegeliana servo/padrone illude per poco, la grande prova dei titani il giorno dopo si riduce a un comunicato con delle percentuali poco credibili, ed è tutto. Ovvero, piccoli egoismi rivendicati all’interno di un cinismo generale, sbadigli di fronte alle bandiere che bloccano il traffico. Un rito stanco che non incide, nessun ministro indietreggia per una manifestazione sindacale, fa più effetto un sondaggio. Scomparsa l’aura sovversiva che fantasticava l’ingegner Georges Sorel, un «consigliere della confusione» (Lenin), lo sciopero in Italia è benedetto dalla Costituzione, azione simbolica dunque, performance costosissima per tutti e sempre uguale, ha perso ormai ogni suggestione, perfino quella della scampagnata solidale, ha perso anche i padroni delle fabbriche preoccupati per le ore sottratte alla produzione, i padroni passionali che assoldavano i crumiri, ha perso il nemico, dissolto nei managers apatici, negli amministratori delegati, mercenari che non si interessano più di tanto alle giornate sprecate. Ma oggi lo sciopero ha di fatto un altro nemico: spezza le gambe agli ultimi della terra. I vecchi che devono recarsi in ospedale, che attendono una radiografia o un intervento, che hanno davvero le ore contate: per loro una giornata buttata via è decisiva. I forzati dei mezzi pubblici di trasporto, gli immigrati d’ogni dove che corrono per le città a vendere il loro lavoro considerano lo sciopero un incomprensibile evento vòlto a immiserirli. E in notti invernali si vedono camerieri e sguatteri intontiti dalla fatica che non credono ai loro occhi: il bus che li porta nei quartieri dove abitano ai margini della metropoli, a chilometri di distanza, stavolta non passa, le forze progressiste hanno pensato bene di tagliare quella corsa, di tenere per protesta l’autista a casa o di farlo sfilare il giorno dopo in corteo. A scuola invece è la consueta baldoria, non causa vittime, ma questa inutilità dell’astensione dal lavoro provoca qualche dubbio sul senso attuale di una simile istituzione. Comunque, guerricciole tra poveri che fino a qualche anno fa – quando il telefono era una risorsa assai cara – coinvolgevano anche i solitari in attesa di una lettera o gli ansiosi in attesa di notizie. Adesso non più, liberi dagli scioperi che ritardavano la posta già tanto in ritardo, le email contraggono il tempo ed eliminano i postini. Il web dà il colpo di grazia allo sciopero, lo rende definitivamente inattuale, quel che passa nella rete aggira le burocrazie sindacali, nelle poste e nella comunicazione, nel commercio e nell’intrattenimento. Fa pensare al lavoro operaio come a un residuo arcaico e ai dirigenti del sindacato come a dei sacerdoti egizi.

domenica 4 settembre 2011

Quando i laici gridano al sacrilegio

~ IL TEMPO DELLE FESTE E DEI PONTI ~

I laici hanno strepitato alla sola ipotesi di spostare la festività del Primo Maggio e di due altre ricorrenze civili, i parroci invece, consapevoli delle difficoltà economiche del momento, hanno lasciato scivolare le celebrazioni dei santi patroni alla domenica seguente. Se ancora qualcuno dubitasse che le feste laiche – che gli hebertisti e i giacobini inventarono per i loro culti spettacolari, che i bolscevichi adattarono in Russia, i socialdemocratici tedeschi ripresero negli anni di Weimar e i nazisti affidarono alla regia di Leni Riefenstahl – sono una traduzione di quelle religiose, un succedaneo della liturgia, adesso, davanti alla protesta trepidante per le «feste civiche» rese mobili, forse se ne farebbe una ragione. La sola ipotesi che il due giugno, anniversario della vittoria a un referendum, possa essere santificato il quattro viene considerata dai vocianti un insopportabile sacrilegio. La scansione tempo sacro e profano, tempo della festa e tempo del lavoro, è alla base di ogni religione. L’interruzione dello scorrere ordinario dei giorni, del sempre uguale, l’irrompere dello straordinario, apre le porte al trascendente, ecco perché anche i ‘dissacratori’ avvertono confusamente che con il calendario non si scherza.

Per il Primo Maggio hanno protestato in tanti ma pochissimi saprebbero dire il perché di una data tanto sacra. Né si capisce bene quale lavoro si celebri, se la fatica inumana della fabbrica, la maledizione del travaglio salariato, o quello artigianale, libero. E neppure si può argomentare che in mezzo mondo il «lavoro» si commemora in date diverse: il «May Day», la pioggia di rose in Walter Crane e negli affiches russi, la tradizione di poco più di un secolo che allude però al «Ver Sacrum», basta per ritenere quella data inviolabile, coperta da un tabù, appunto.

Uno spolverio sinistro la avvolge nel Problema di Aladino (Adelphi), allegro romanzo tanto citato da questo «Almanacco», in cui Ernst Jünger narra beffardo: «Era un venerdì, Primo Maggio. In tutta Europa questo è un giorno di feste e di misteri. A Würzburg il diavolo traversava la città in una suntuosa carrozza. Sul Brocken danzavano le streghe; nella valle del Bode appariva Brunilde. Le anime dei morti si aggiravano spettrali sui fiumi, campane sotterranee rintoccavano. Da noi in Slesia c’è un detto: “Chi alla mezzanotte di quel giorno vede cadere una stella, scavi nel suo giardino: troverà un tesoro”. Adesso erano diventati d’obbligo i cortei, ma il giorno era rimasto, perché ogni regime vive del mito, seppure in forma attenuata. Nella folla doveva agire un ricordo che, dopo che le bandiere erano state arrotolate, la sospingeva all’aperto, dal vero signore della festa».

Nel tempo cattolico le feste dei santi danno un senso al calendario, lo rendono umano e lo glorificano: il dies mortis corrisponde al dies natalis nello splendore dell’Aldilà, all’accoglienza in Paradiso, le ricorrenze collegano Terra e Cielo, colorano le stagioni, offrono spiegazioni della varie facce della natura, prendono a prestito le scadenze della flora, i caratteri del clima, segnano il passaggio in questo mondo, talvolta nelle contrade protette dai santi in questione, di uomini e donne il cui il ricordo si è mantenuto nei secoli, ebbene, nonostante tutto ciò la Chiesa, che conosce l’arte del compromesso perché padroneggia davvero il tempo, sa venire a patti con le esigenze civili. Perfino una festa solennissima e millenaria come l’Epifania fu soppressa negli anni Settanta (e poi riammessa, anni dopo, per far contenti i venditori di giocattoli) senza troppo scandalo. Viene il sospetto che i laici e i loro sindacati covino in cuor loro il Culto Supremo del Ponte (frequentando le biblioteche romane, si è spesso disturbati dalle chiacchiere dei dipendenti che sembrano concentrarsi nelle strategie per costruire vacanze infrasettimanali, per viaggi-lampo in qualche isola esotica, per povere evasioni dal carcere del ‘tempo libero’).

giovedì 1 settembre 2011

Sola televisione

~ I NUOVI DOGMI MOLTO POP DEI PROTESTANTI ~

La parabola è nella fase discendente e svuota il cristianesimo; l’acme fu raggiunto quando Lutero si attestò sulla «sola Scriptura», mandando al rogo le interpretazioni dei sapienti, l’autorità della élite che è più equilibrata e assennata del singolo. Così l’invenzione del sacerdozio universale mise a diretto contatto la Sacra Scrittura e l’individuo solo, consacrato dal protestantesimo alla sua solitudine. La scrittura strappata agli apostoli viventi, i successori dei Dodici, diventava un feticcio, morta come tutte le carte costituzionali affidate al loro formalismo, una «tomba imbiancata», avrebbe detto Gesù. Il dogma della scrittura si imponeva da allora sull’Occidente: diffidenti verso tutto e tutti, senza più fede nella istituzione divina affidata a Pietro, senza più fiducia negli umani, senza più capacità di discernimento tra la comunità apostolica e i falsi profeti, confusi dal nichilismo di una simile mancanza di fondamento, ci si condannava al culto filologico, alla scienza linguistica, al decriptare le parole antiche secondo le procedure moderne del genere poliziesco. D’altra parte, l’esegesi di massa, affidata alle fantasie e alla cultura dell’estremo individualismo, produceva una macchina spaventosa, quella degli sceriffi che fanno giustizia del mondo a colpi di citazioni bibliche. «Un semplice laico armato con le Scritture è più grande del papa», dirà Lutero, per incoraggiare i suoi a rompere con la tradizione millenaria. La norma dunque è nella carta scritta, basta leggere, diranno gli ingenui protestanti. Basta annotarsi un versetto dunque per distruggere le più sublimi leggi del Magistero ecclesiastico che non si accordano con le fisime dell’interprete di turno. Il luogo della verità non è più nell’istituzione Chiesa ma nel «libero esame». Anche l’autorità di molti pastori e predicatori è personale, e discende dalla loro preparazione o da un qualche carisma, non da una investitura gerarchica.

Durò poco. Le scienze ‘laiche’ provocarono nuovi dubbi ai fedeli della «sola Scriptura», il Pietismo già sembrava diventare l’altra faccia dell’illuminismo, umanizzando ulteriormente la teologia, «situando [Dio] all’interno dell’autocoscienza sovrana dell’uomo» (Karl Barth). Nei salotti settecenteschi dei seguaci di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf la parola scritta diventava parola interiore, sfuggente. Quindi fu la volta del contesto, della ricerca archeologica, storica, linguistica, seguendo positivismo e storicismo. Una questione accademica, una comparazione tra libri, e piccoli Erostrati moderni si affannano ancora oggi a incendiare i Vangeli, magari per attirare l’attenzione del professor Ratzinger. Fatto è che se adesso si leggono in Paolo, l’eroe del protestantesimo, parole di fuoco sugli omosessuali, basta invocare subito i «pregiudizi patriarcali del tempo» come fanno i valdesi in una recente polemica interna, per ridurre la Scrittura ispirata da Dio a documento di un’epoca lontana, démodé, inutilizzabile anche quando parla con estrema chiarezza, da sostituire con le decisioni prese attraverso il «consenso maturo e rispettoso raggiunto dalla chiese locali». Ovvero, l’ultima parola non spetta più a Dio, le sue leggi scritte sono anzi invecchiate, bensì all’assemblea locale, alla pubblica opinione. La Scrittura è suscettibile di un nuova interpretazione fornita da un magistero senza tradizione però, senza sapienza, senza mandato apostolico; soltanto una chiacchiera come in televisione, che riecheggia il senso comune. Qualcun altro anche dalle parti cattoliche, per quanto assimilabile di fatto al protestantesimo contemporaneo, nega addirittura la resurrezione. Il teologo da autogrill, per esempio, che vende i suoi libri come un comico, si richiama alla televisione: se ci fosse stata una telecamera davanti al sepolcro di Cristo, si chiede, avremmo potuto credere alla scena raffigurata da Piero della Francesca, con il Vincitore della morte che si leva sul sepolcro come un atleta? Insomma, al posto della «sola Scriptura» per i neo-protestanti c’è ormai «sola televisione».