domenica 23 febbraio 2014

Beauty is difficult

~ SANREMO SECONDO GIORGIO DE CHIRICO, 
LA «PICCOLA BELLEZZA» DI RAFFAELE LA CAPRIA,
PIÙ UN GESTO DI STIZZA DI PARISE E UN VERSO DI POUND:
PER ESORCIZZARE LE CHIACCHIERE ALLA MODA ~

L’Italia melanconica di questi tempi è tormentata da un’orda di comici che esonda dai palcoscenici, non limitandosi a metter su spettacolo come a loro si confà. Moltiplicatisi alla maniera delle cavallette, sono dappertutto ad avviare una risata meccanica e scontata, a rincorrere il linguaggio coatto, a portare in scena il realismo digitale (quello che già ci urta continuamente nella vita). Forse sarebbe meglio piangere. Ma fossero almeno soltanto corrivi stimolatori di riso: si presentano anche come guide politiche, statisti, moralisti e perfino estetologi. Il calembour diviene l’aforisma fatale. I pastori della Chiesa di Roma danno per primi il cattivo esempio. In odio alla forma, si affidano alle battutacce. Manca però quasi sempre la gioia del cuore. 

Saccenti, privi di ironia, allucinati nella fede nichilista. Nell’epoca dell’armonia proibita, del maggior scempio della bellezza in nome della giustizia, quando cioè il pensiero unico rivendica la vendetta storica della sofferenza, della imperfezione, della miseria materiale, sulle elevate sfere della bellezza, sulla sua aristocratica aura, un festival di canzonette imbastisce monologhi screanzati, apologie sospette di un bello che è già una merce, non a caso destinata a essere messa in vendita alle masse di turisti. Si spaccia per «grande bellezza» il rimbombo della peste quotidiana, e la sua ipertrofia è scambiata per barocco. Diventa senso comune quella che dovrebbe essere una aberrazione. Incapaci di accostarsi alla difficile e sfuggente «piccola bellezza». Sanremo che intratteneva con le melodie e le rime popolari gli italiani semplici diviene un pulpito per sermoni laici e saputelli. Ma il genio di Giorgio de Chirico, che non aveva certo paura di sfiorare simili manifestazioni, vi individuava, mezzo secolo fa, una tribuna pateticamente modernista e scriveva nell’ultima pagina delle Memorie della mia vita (Rizzoli, 1962): «Proprio ieri alla televisione ho seguito la terza ed ultima serata del Festival della Canzone a Sanremo. […] Assistendo a quella trasmissione pensai che in fatto di Festival della Canzone si assiste allo stesso fenomeno della pittura astratta. Come per la pittura astratta, vecchia di più di mezzo secolo e che i moderni critici sostengono e presentano, sia per ignoranza sia per malafede, come una tipica espressione del tormento e dell’ansia della nostra epoca, così anche le canzoni monotone in cui una parola viene non cantata ma urlata e ripetuta innumerevoli volte le si vuol presentare come un fenomeno ultramoderno, forse pensando che anche esse esprimano il tormento e l’ansia del nostro tempo…». Intanto è passato il pop a rendere pari arte e canzonette. Una risata le ha seppellite. Ora, nell’epoca della insensatezza compiuta e ricercata, le compagnie di comici si accingono a insegnare il verso giusto del mondo. Pop anche il nuovo primo ministro e addirittura il vescovo di Roma. 

Di che stupirsi? Sono decenni che la forma comica ci accompagna in quella corsa affannata che chiamiamo progresso. La democrazia non può che prediligere il tono basso e greve. Non la farsa che trascina corpi e menti in una mistica gioconda, bensì la burla intellettuale e verbosa di un popolo che è passato per la scuola dell’obbligo sempre più ampliata, capace di esaurire l’antica vis. La forma del volgare agghindata con astruserie. Già negli anni settanta c’era chi se ne turbava. Raffaele La Capria rievoca il suo amico Parise nel ritrattino Ricordo di Goffredo: «Mi sembra di sentire ancora la sua voce una sera che mi diceva: “Sai, c’è da essere seriamente preoccupati. Hanno letto tutto Proust! Parlano di Joyce, di Freud! Citano Heidegger! Sono moderni. Rimbaud l’hanno preso alla lettera, il faut être absolument moderne!, e loro lo sono, assolutamente, ciecamente, costi quel che costi. Ieri al tavolo di De Feo una se ne esce con la sineddoche e la metonimia, e De Feo tutto rosso: Questo no, per favore questo non me lo dovete fare! Sono moderni e aggiornati, hanno letto Barthes, sanno tutto sullo strutturalismo sulla lingua e la parola…”. Ma di che stai parlando, gli domandavo. “Dei cretini. Ha ragione Flaiano, oggi sono pericolosi perché sono intelligenti…”». Sono moderni e preparati i presentatori di festival. Sono cretini e pericolosi. In special modo quando parlano della bellezza. «Cultura» è il nome del brand popolarissimo. 

Su questo tema assai delicato accostiamo l’orecchio ad altre parole di La Capria, maestro della discrezione. «Siamo abituati ad accontentarci del surrogato in luogo della cosa (del design in luogo della bellezza, della moda in luogo dell’eleganza, della copia in luogo dell’originale)», scriveva in Letteratura e salti mortali. Il surrogato è il principale feticcio. Un tabù l’avvolge. Solo l’inserviente di una ditta di pulizie ha la forza ingenua di portare alla discarica una installazione cartacea spacciata per opera d’arte, come è accaduto nei giorni scorsi a Bari. L’imbarazzo di assessori e curatori suscita risate omeriche. 

Che è successo alla bellezza? È forse andata irrimediabilmente perduta? Lo scrittore napoletano, il creatore di una «piccola bellezza», si è posto tali domande in un breve testo che ha il coraggio di intitolarsi «Nostalgia della Bellezza» (con tanto di maiuscola). Una espressione di un poeta apre la riflessione: «“Beauty is difficult”, lo ha scritto Pound. Ed è difficile perché contiene, come sapeva bene Baudelaire, un elemento eterno e invariabile la cui percentuale è indefinibile, e uno relativo (all’epoca, al gusto, alla morale, alla sensibilità del tempo) senza il quale il primo non potrebbe essere percepito». Ai nostri tempi, purtroppo, il secondo annienta il primo. Se tutto ciò che è bello «sembrava toccato dalla grazia divina», adesso sembra sformato dal relativo. L’«Ideale della Bellezza» si sperde così in mille rivoli, in mille sentieri che non portano più da nessuna parte, e i custodi di tali misteri affermano allora, «come capi di una setta suicida», che in fondo a quei sentieri «c’è solo la morte, la morte dell’Arte, e con competenza, con distacco, dottamente disquisiscono di quando “il vecchio accademico regno del Bello crollò”». In verità negli ultimi tempi dottrina e competenza sono diventati un gergo, e modi rozzi accompagnano gli annunci mortuari degli estetologi. 

Però è vero che un qualcosa di mortifero, di luttuoso, si percepisce. «Nello scontro tra una tradizione consunta e una modernità insolente ha vinto la Bruttezza». Giusta la maiuscola per questa potenza che si impone, anche con varie maschere seducenti, nelle nostre esistenze. «La Bellezza per essere apprezzata richiede doti e disposizioni che i nuovi arrivati non hanno». Ragion per cui i musei contemporanei, le mostre, le performanze, come le curatele, i trattati, le critiche, le réclames, finiscono per diffondere la Bruttezza, per renderla amabile. Per confondere in maniera tragicomica il gusto. Tutto l’apparato sembra ispirarsi a una grande beffa boccaccesca. Terribile però pensare che i burlatori sono la gente di lettere e d’arte mentre vittima ne è il popolo consumatore. 

Non passa giorno che il venditore di merci estetiche non citi la celebre frase di Dostoevskij sulla redenzione per via estetica. La Capria ritiene che lo scrittore russo non si riferisse all’estetismo dei suoi tempi e tanto meno a quello di oggi, tutt’altro: egli «aveva intuito in anticipo il rapporto da restaurare tra la Bellezza e la morale, cioè tra la Bellezza e la difesa della profanata sacralità del mondo. e tutto questo faceva parte della sua religiosità». Non è semplice per noi, abituati alla bellezza rinascimentale che contiene cinismo e amoralità, seguire Dostoevskij e la cultura russa ortodossa. Ma anche i più perversi dei nostri manieristi sapevano di quella sacralità del mondo che solo il moderno osò profanare e sradicare. «Chi divide non potrà mai contemplare in tutta la sua pienezza la misteriosa armonia che regge il mondo e lo sottrae alla non-esistenza, al nulla». Bisogna tener fermo questo armonico universo ‘cattolico’ quando si parla di bellezza. «La scienza non ammette il mistero, la poesia sì. Perciò è divina, perciò ha a che fare col sacro. E con la Bellezza». Se l’arte si allontana dal mondo consacrato e quindi dalla bellezza, si assiste alla «necessità di spiegare l’Arte» come «non si era mai avvertita con tanta insistenza». E «la spiegazione, una volta, prima del moderno, era implicita nel mistero e nell’emozione che proveniva dall’opera. Bastava guardarla e poi si cercava di spiegare perché se ne era stati colpiti. […] Oggi all’improvviso è avvenuto il contrario: prima si spiega perché l’opera è significativa e poi se ne è colpiti. Non era mai avvenuto che le teorie intorno a un’opera fossero così pressanti e impositive». La Capria cita a sua volta Baudrillard che parla di «un racket mentale» esercitato dal discorso sull’Arte. È aumentata enormemente «la quantità di concettualizzazioni e teorie che come una nebbia si infittiscono intorno a un’opera o tendenza artistica, fino all’“insignificanza scaturita dall’ipercomunicazione” e dalla verbalizzazione impropria». 

 «Scrive George Steiner – prosegue La Capria –: “Esiste la lingua, esiste l’Arte, perché esiste l’altro”. Ma se è vero che oggi l’Arte può fare a meno del pubblico e passa direttamente dall’artista al museo, allora dov’è l’altro, e di che cosa parliamo quando parliamo dell’Arte?». Forse direttamente del rapporto merce/denaro, si potrebbe rispondere.

 In questa «nostalgia della Bellezza» non si pensi che venga facile e allegro irridere ai manierismi intellettualoidi del Contemporaneo. La Capria lo ammette: «“Te piace ‘o presepio?” “Nun me piace!”. Non credo che il personaggio di De Filippo che dice “nun me piace” sia contento della propria ostinazione. Neppure io sono contento della mia, di fronte a tanta arte moderna, quando sono costretto a puntare i piedi e a dire: “Nun me piace!”. Ma perché vogliono farmi sentire in colpa per tutto questo, quando invece sono io la vittima del loro abuso di potere?». Potrebbe concludersi qui, con la denuncia degli abusi di potere dei ciarlatani della cultura, con la denuncia dello «spirito dispotico del tempo». Ma in un altro saggio della stessa raccolta (Lo stile dell’anatra, Mondandori, 2001) La Capria, scende nei dettagli, evidenzia le cause precise di un tale disastro spirituale, «fonte di infinite tragedie e inaudite crudeltà»: «la maledizione del nostro secolo è la separazione della mente dal cuore».