giovedì 30 settembre 2010

Orgogliosi di essere anormali

~ QUESTO NON È UN PAESE PER IL BIEDERMEIER ~

Fu lo slogan di un politico coi baffi ormai in declino, ma gli resiste gagliardamente. Tutti infatti fanno a gara nel ripetere crucciati che «questo non è un paese normale», in genere anzi nella forma ipotetica che accentua l’effetto retorico e lascia immaginare un sospiro nostalgico: «se questo fosse un paese normale!». Certo che non lo è, per fortuna che non lo è. Grazie al cielo l’Italia non appare un paese normale e non si tratta di una questione degli ultimi secoli: lo ricordava l’altro giorno il direttore dei Musei vaticani, parlando della Galleria delle carte geografiche: «L’Italia è, fra tutti i paesi del mondo, il ‘più nobile’ intendendo nel termine tutto quello che è storia, memoria, cultura, varietà, bellezza. Così pensava Gregorio XIII Boncompagni. Così sta scritto nei cartigli che sovrastano la carta dell’Italia antica (‘Commendatur Italia locorum salubritate, coeli temperie, soli ubertate’) e quella dell’Italia moderna (‘Italia artium studiorumque plena semper est habita’».

La penisola italiana che appare un Eden, il giardino comune dell’umanità, anche a un anti-latino come Dostoevskij, l’Italia che esce prima di tutti dalle guerre perché, secondo quanto osserva Montaigne, è un paese carico di saggezza, l’Italia di Dante e di Raffaello, delle città incantate, dell’arte, della musica, dei mille incroci di civiltà, delle invenzioni machiavelliche, delle fantasie leonardesche, della dolce vita millenaria, sarebbe dunque da ricondurre alla norma, una via di mezzo tra il Belgio e la Finlandia? Nessun paese è ‘normale’, ciascuno risulta legato in modo unico al cuore della sua gente. Il nostro vecchissimo popolo casomai è più eccentricamente anormale degli altri. Questo non è un paese per il Biedermeier. Lo sosteneva con posa cinica Orson Welles nel Terzo uomo, quando, sulla Ruota del Prater di Vienna, confrontava l’Italia dei pugnali e veleni del Rinascimento con la Svizzera degli orologi a cucù. Tanto diverso dagli altri che il suo popolo, immune da ogni sciovinismo, si diletta nella maldicenza autolesionista, si compiace per spirito vendicativo di qualsiasi straniero che abbia da far critiche feroci al Belpaese, invidia la ‘normalità’ degli altri, la loro mediocrità, il loro grigiore (forse abbagliato da troppa luce). Alla retorica patriottarda ricorrono solo le pubbliche istituzioni quando innalzano monumenti ai caduti e organizzano le celebrazioni per l’unità d’Italia massonica. Ma nessuno ci crede, divorati tutti da una robusta e antica faziosità.

martedì 28 settembre 2010

Tagli e ritagli

~ CHIOSE UN PO’ GROSSOLANE, NE SIAMO CONSAPEVOLI,
A UNA PROFESSORALE ‘LETTERA APERTA’ ~

Chissà in quanti uffici pubblici i burocrati avranno preso le forbici per ritagliare l’articolo del «Corriere», opportunamente fotocopiato e ingrandito, sui cosiddetti «tagli alla cultura», in specie alle biblioteche, per appenderlo quindi in qualche bacheca e farsi forti di una così autorevole opinione (quelli che magari con vari corsi hanno imparicchiato a muoversi nella rete universale si saranno serviti del copia & incolla per scambiarsi il pezzo in guisa di mutuo conforto). Nella ‘lettera aperta’ al bonario ministro della Cultura, il Professore si è unito al coro di chi vorrebbe che non si lesinassero gli euri per le biblioteche, come del resto per tutto ciò che innalza lo stendardo della «cultura», dove evidentemente dovrebbe bastare la magica parola per aprire le borse. L’insigne storico avrà sicuramente ragione e ha già ottenuto il consenso di tutti coloro che si occupano di biblioteche e che sono addottorati nella scienza per gestirle, noi modestissimi utenti (come veniamo definiti), ci permettiamo di avanzare qualche dubbio. Anzitutto, se il Prof. spiega che lo Stato continua a pagare regolarmente gli stipendi e che non ha minacciato alcuno di licenziamento, non capiamo quale sia il problema. Che non si può procedere a nuove assunzioni, che il personale bibliotecario si assottiglia, che non c’è nessuno per aggiornare i cataloghi? Ma allora perché alla Nazionale di Roma, tanto per fare un esempio, i pubblici impiegati per ingannare la noia chiacchierano ininterrottamente impedendoci di leggere? Certe volte, dopo aver sentito parlare per ore di vacanze, ‘ponti’ e collage di ponti, di isole tropicali, di ristoranti in Indonesia e di alberghi in Egitto, càpita di protestare e di ottenere un quarto d’ora di tregua, poi ricomincia il cicalio, segno che non si ammazzano di fatica. Alla Biblioteca di storia, a Palazzo Caetani, tanto per fare un altro esempio, sono molti di più gli addetti che i lettori. Eppure si deve attendere che finiscano le loro interminabili conversazioni prima che ti vadano a prendere un libro. Ma il Professore si lamenta anche del fatto che il governo crudele non garantisca delle somme per gli extra. Fosse vero, si riuscisse a evitare i concerti, i teatrini, le mostre, i dibattiti dove dovrebbe regnare semplicemente il silenzio.

Mancano i soldi ma domenica prossima si tiene in tutta Italia una mega-manifestazione – «Domenica di carta» è il desolante titolo da asilo infantile – con biblioteche aperte l’intero giorno, visite guidate, ‘eventi’ scontati, una inutile pubblicità per promuovere i fondi librari. Sullo sfondo di una grossa chiave, «La cultura è apertura» rima lo slogan: capperi, che significato da brivido! Ma vi pare che i lettori delle cinquecentine vadano presi per la collottola e attirati con canti e suoni come si fa per la Coca-cola? I bibliomani sono una setta, anche se di massa, che non ama il proselitismo.

sabato 25 settembre 2010

Dalla parte degli zuavi

~ UNA LETTERA E UNA RISPOSTA ~

Ci scrivono:
«Più realista del re, più papista del papa, l’Almanacco si schiera dalla parte degli zuavi pontifici e considera il 20 settembre un giorno nefasto. Tutto nero in questi centoquaranta anni?Dopo il regno pontificio le déluge?A me sembra che il nichilismo si infili anche in simili atteggiamenti estremisti…».

L’«Almanacco» non si sogna neppure di sfiorare, almeno per ora, le questioni storiche su cui rifletterà la nazione nelle prossime ricorrenze a proposito degli ottantasette anni di regno e i sessantatré di repubblica (briciole temporali) che formano i fatidici centocinquanta dell’«Italia unita». Mostrava soltanto, in una parentesi di quel pezzullo del 20 settembre, un po’ di rimpianto per la Curia che amministrava una città vera, non il fortilizio virtuale del Vaticano: i volti dall’espressione tanto realista che ritroviamo nei dipinti sulla corte papale di altre epoche ci ricordano che il cristianesimo romano intreccia anima e corpo e che il governo dell’urbe, la veste mondana per i pastori delle anime, la cura secolare, faceva magari da zavorra onde non finire nell’etereo; l’angelicità coatta, imposta dalla storia, lascia perplessi, ma tant’è. L’«Almanacco» resta inoltre sorpreso dal fatto che, celebrandosi con trombe e tamburi ormai inconsueti un piccolo evento bellico, nessuno ricordi i vinti con la correttezza tollerante in voga. Senza più scrupoli, spazzati via dal tempo trascorso, si rende omaggio ai ragazzi di Salò, che pure combatterono a fianco dei nazisti e che a qualche ebreo nascosto e inerme dovettero apparire come messi dello sterminio, ma si avrebbe imbarazzo a ricordare i soldati del papa, truppe davvero multietniche che non intimorirono alcuno, che morirono in un gesto simbolico, a difesa del potere petrino, inattuale e perenne.

Tutto il resto del rammarico si riferiva al piano estetico. La lettera ci invita a non essere estremisti, e noi con molta moderazione siamo pronti ad ammettere che non tutto è penoso come la Via Nazionale, boulevard misero da cittadina balcanica e massima espressione urbanistica della capitale d’Italia, che non tutti i palazzi sono dimore per pescecani e piccolo borghesi fuoriusciti dal Pasticciaccio gaddiano, che insomma qualche villino liberty – sempre echi di culture internazionali – si salva, che l’Eur fa la sua figura, che la Via Cristoforo Colombo è seducente nella corsa verso il mare, ma si può intonare un solenne Te Deum per l’Eur o per la Garbatella? Si può fare festa perché la città regina, la capitale di Raffaello, Michelangelo, Bernini, Piranesi si è finalmente emancipata da una simile tradizione e ha dunque il Palazzetto dello Sport, Piazza Esedra, Corviale e altri esemplari post-papalini? Se lo spartiacque del 1870 segna un’epoca di vertiginosa decadenza, non ce ne faremo una malattia, d’accordo; bisogna pur vivere, si possono stoicamente trattenere le lacrime, ma addirittura giubilare è ridicolo.

Per capire che non si tratta di antimodernismo preconcetto basti pensare ad altre capitali, a quelle che devono essere riconoscenti ai secoli XIX e XX: Parigi è l’Ottocento, Madrid e Berlino il Novecento. Loro sì dovrebbero suonare le campane per i rispettivi «20 settembre». I massoni d’oltralpe fecero almeno le cose per bene. Togliendo a Parigi o a Berlino la parte moderna, che cosa resterebbe? Nulla: in termini di spazio e di anima. Qui da noi: tutto, almeno nel perimetro delle Mura aureliane; basterebbe cancellare quelle escrescenze che violentano le delicate misure e turbano la visione dall’attico del Vittoriano: il Palazzaccio, la Banca d’Italia, lo stesso monumentone abbacinante da cui si guarda. (Non è una proposta di restaurazione, di demolizioni, non fraintendete, appena un esercizio mentale quando si gode il paesaggio romano, grati al governo pontificio e ai successori di Cesare).

venerdì 24 settembre 2010

Al termine della notte

BONNEFOY, L’ITALIA E IL SURREALISMO

A pagina 53 della «Repubblica» del 24 settembre c’è un’intervista di Franco Marcoaldi al poeta Ives Bonnefoy, esegeta di Piero della Francesca, che ricorda la sua ormai remota militanza surrealista mettendo in guardia sulla creatura di Breton: «Vede, bisogna prendere sul serio il surrealismo». Lo stesso avvertimento veniva dall’esorcista dell’antiarte contemporanea, Hans Sedlmayr, che insistette sempre sull’aspetto demoniaco, sul carattere sinistro, di quell’impresa. La setta che estetizzava la violenza («L’azione surrealista più semplice consiste nel riversarsi nelle strade, con le pistole in pugno, e sparare a caso in mezzo alla folla, il più possibile») non era certo un club salottiero. Chi ebbe la ventura di aderirvi la ricorderà per tutta la vita come una specie di malattia. Roger Caillois vi entrò giovanissimo, proveniente dal «Gran Jeu», un gruppo di soli tre membri, e poco dopo, nel fuoco della battaglia antinazista, ne guarì, lasciando una lucida testimonianza di quella esperienza in Babel e nel Dictionnaire esthétique (tradotto in italiano da Bompiani). Francis Ponge fu surrealista eterodosso e se ne liberò ricorrendo al classicismo francese del XVII secolo. Pierre Klossowsky si salvò immergendosi nello studio della scolastica ed entrò addirittura in un seminario domenicano. Jean Clair, che non fu un testimone diretto, scriverà sull’argomento un feroce pamphlet, Processo al surrealismo. Del surrealismo considerato nei suoi rapporti con il totalitarismo e i tavolini medianici. Bonnefoy ripete come gli altri risanati il racconto sulla cerchia magica dominata dall’incubo, dalle tenebre, dall’apologia del comportamento folle. Lui, confessa, riuscì a debellare il disturbo grazie all’Italia. «L’incontro con l’Italia è arrivato subito dopo la conclusione di questa esperienza. Il surrealismo ricorreva spesso a proposizioni confuse, informi, notturne dell’interiorità, mentre la grande arte italiana, al contrario, mi mostrava il valore, l’apporto significativo della luce sulle forme».

E con parole di riconoscenza che gli attuali iconoclasti non capiranno: «L’Italia è la terra delle immagini per eccellenza perché ha edificato un teatro in cui il pensiero e il sogno, la nostalgia dell’infinito e la percezione della finitezza, si confrontano in modo esplicito». Come non pensare a Giorgio de Chirico?

giovedì 23 settembre 2010

Il santo

COME SI COMPIE IL MIRACOLO SUPREMO NEL NOSTRO TEMPO

Al contrario del Concilio di Trento che ne motivò una eccelsa schiera, il Vaticano II non ha prodotto santi. Quello per antonomasia, il santo della nostra epoca, fu rigidamente pre-conciliare e anche dopo la riforma liturgica continuò a dire la sua lunga messa in latino. Oggi, 23 settembre, la Chiesa universale celebra padre Pio - come confidenzialmente continuano a chiamarlo nonostante la gloria degli altari - che ha fatto il miracolo di mostrare il sangue nel tempo delle astrattezze e degli igienismi, di parlare ai disperati di questo mondo senza il birignao intellettuale dei concilianti, di confortare i malati a cui la scienza medica non dà speranze, di assistere gli agonizzanti lasciati soli con la flebo nelle corsie d’ospedale, insomma il miracolo supremo di poter credere ancora ai miracoli, di sconfiggere con le immagini dei portenti lo scetticismo imperante. Per la sua battaglia contro il dominio della morte seppe anche scherzare, come ogni mistico che si rispetti, soprattutto quando proviene dalla terre beneventane. Chi ebbe la fortuna di incontrarlo può testimoniare che anche quando faceva i miracoli non assumeva pose da santone, piuttosto lasciava scivolare dei doni, delle sorprese, con la semplicità di un frate del Sud che opera un prodigio in allegria francescana.

lunedì 20 settembre 2010

Roma rubata

~ IL GIORNO CHE SEGNA LA FINE DELL’ARTE UNIVERSALE ~

Facciamo nostra la parola d’ordine di Mallarmé, citata ieri da Quirino Principe nella sua smagliante rubrica che ravviva il supplemento domenicale color salmone: «Donner un sens plus pur aux mots de la tribu». Oggi, aprendo Google (nazionale), si scopre che il massimo organo di collegamento tribale celebra i 140 anni di «Roma capitale». Oddio – potrebbe sospettare l’ingenuo navigante – si tratta di un’oscura provincia che qualche battaglia nazionalista ha fatto ascendere a questo ruolo? Si dà invece il caso che Roma fu ininterrottamente capitale per oltre duemila anni, che anzi la parola capitale deriva dal latino 'caput', termine che fu riservato a Roma con la definizione caput mundi. Nel 1870 la capitale del mondo – prima dell’Impero poi della Chiesa – divenne la capitale di un regno subalpino: che cosa ci sarà mai da tripudiare? Dei piccoli ladri, nient’affatto ladroni, borghesucci semmai, avevano rubato Roma alla sua tradizione gloriosissima, imprigionandola nel Kitsch piemontese (il Gabriele d’Annunzio del Piacere se ne era accorto e lo diceva a chiare lettere). Tant’è che Google per vestirsi a festa ricorre al disegno michelangiolesco del pavimento capitolino, a un artista del papa come pochi altri, ovvero come se gli indiani per ricordare l’indipendenza dalla Gran Bretagna si addobbassero con i colori scozzesi o per il 14 luglio francese si agitassero le bianche bandiere borboniche. La verità è che negli ultimi centoquaranta anni la capitale 'laica' non ha lasciato nessun segno artistico riconoscibile dai più. Sì, i turisti giapponesi quando si trovano davanti all’Altare della patria scattano nervosamente e con ammirazione ma poi, già sulla strada del ritorno, quel monumento si confonde con i tanti altri accumuli di marmo senza costrutto che le città europee innalzarono sul finire dell’Ottocento. La Roma antica e quella dei papi è l’unica che resti impressa. Con buona pace del cardinale segretario di Stato che benedice la breccia (ma la Chiesa ancorata al governo dell’Urbe non si perdeva nei candori attuali di certi monsignori pii quanto impolitici) e con buona pace del sindaco di fascia tradizione che sulle rovine della bellezza canoviana organizza giornate strapiene di carri di Tespi e di altre dopolavoristiche imprese.