martedì 9 settembre 2008

Risate di coccodrillo

UNA STAR DELL’ARCHITETTURA ATTUALE SI PENTE DI QUEL CHE HA FATTO FINORA, INSIEME AI SUOI COLLEGHI, NELLE CITTÀ DEL NOSTRO PIANETA, PARAGONANDO IL NUOVO SPAZIO ALLA SPAZZATURA. MA POI, SENZA LACRIME, SI ROTOLA GIULIVO IN TALE SPAZZATURA

Sono già trascorsi due anni da quando la maceratese Quodlibet ha pubblicato in prima edizione mondiale il ripensamento di un archistar che arriva a parlare di spazio-spazzatura per descrivere i risultati dell’urbanistica odierna, senza che una grande eco si levi intorno a questa confessione: i suoi fans non si danno alla disperazione, i suoi committenti pubblici non sentono il bisogno di dimettersi. Un recente articolo estivo sul «Corriere della Sera» a firma del medesimo archistar, ha appena suscitato qualche protesta professionale. Nessun clamore per la esclamazione che «il re è nudo», sfuggita non a un bambino innocente bensì lanciata a bella posta da un vecchio marpione.

Rem Koolhaas, l’autore di Junkspace, che ha lasciato un segno del suo modo di concepire lo spazio anche a Roma, nella trasformazione dei Mercati generali, è architetto di gran fama, di quelli che firmano i negozi Prada a Los Angeles e la sede televisiva della Cina comunista, o che progettano a gloria degli emiri negli Stati più schiavisti della terra. Eroe del decostruzionismo, ex sceneggiatore cinematografico che mette in scena la metropolis, ex giornalista che sa raccontarsi come piace alla gente bigotta nel culto del contemporaneo, in questo libello prende di mira e colpisce un secolo di architettura come neppure riuscirebbe a quei conservatori che si riuniscono intorno al Principe di Galles: «Il progresso non c’è più, la cultura barcolla di lato senza sosta, come un granchio fatto di Lsd» ammette.

Giocando sulla parola space-junk, la spazzatura spaziale, i rifiuti che l’uomo lascia sulla superficie del pianeta come negli abissi marini e in quelli celesti, rovescia i due termini e parla di junkspace, ovvero «ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso». Un’altra versione del post-moderno? Sì, con la differenza che alla fine degli anni Ottanta ci si esaltò per la riconciliazione degli stili dopo tante efferate partigianerie, tirando un sospiro di sollievo per la fine della lunga corsa progressista, ma subito celebrando l’insensatezza che regnava sovrana, come fosse un altro segno delle magnifiche sorti del percorso umano; adesso invece l’olandese viene a dire con il linguaggio concitato e balbettante dei suoi stili che l’attuale spazio urbano è una schifezza come i cumuli di monnezza che riempivano fino a poche settimane fa le belle strade di Napoli.

«Si scandisce a chiare lettere la fine dell’Illuminismo» – e di ogni ragionevolezza, si potrebbe aggiungere – con «la sua resurrezione come farsa, un purgatorio di basso livello». Finalmente ci si rende almeno conto che la parodia – tanto trionfante nei manufatti estetici degli ultimi decenni – è un purgatorio ridicolo. «Non lasciamo piramidi», dice, e non è affermazione di poco conto. Forse la principale critica nel solco della tradizione alla architettura e in genere alla estetica moderniste è proprio di non avere più puntato alla durata. «Nel XX secolo l’architettura è scomparsa»: che altro diceva Hans Sedlmayr incolpando di ciò il Bauhaus (almeno per il colpo finale)? «Abbiamo speso il nostro tempo a leggere al microscopio una nota a piè di pagina sperando che si trasformasse in un romanzo». Tenta di volare alto per narrare quell’aberrazione, imbellita dalle voci servili dei critici e giornalisti, ma quando si tratta di spiegare il trucco, di descrivere il meccanismo, viene fuori una assai misera cosa: «scale mobili, aria condizionata, sprinkler, porte tagliafuoco, lame d’aria… provocano il disorientamento con ogni mezzo (specchi, eco, superfici lucide…)». Dunque, disorientare (servendosi di trovate da baraccone dei mostri): un’architettura come narcotico di bassa lega, architetti come spacciatori di robaccia. Ben più serio sarebbe però domandarsi perché si commissionino spazi che disorientano i suoi fruitori, perché in un aeroporto o in un centro commerciale, piuttosto che proporre uno spazio confortevole, sensuale e avvolgente, ci si lasci vessare dai disorientamenti, dal senso del vuoto? Uno storico dell’arte che resiste alla voga ha spiegato che la civiltà europea esorcizzò il vuoto con la vanitas, riempiendola di mille splendori, arricchendo superbamente le sue superfici, trasfigurandola in cangianti immagini: tutto ciò fu l’arte occidentale. Mentre nelle distese americane si osò rispondere al vuoto con il vuoto, anche per gusto protestante. Adesso però la desolazione si è imposta travolgendo anche l’etica puritana, esibendosi sconciamente. Al di là delle cause comunque, viene anche da chiedersi: perché chi è costretto ad attraversare questi spazi, o peggio ad abitarli, non si muove incollerito contro tali aggressori della mente? Perché i vecchissimi sindacati permettono che i loro aderenti siano seviziati sul luogo di lavoro dalla capricciosa volontà estetica di sconvolgere i nervi e i corpi degli abitatori della metropoli? «L’urbanistica offre – dice lui, meglio sarebbe precisare: infligge – una esperienza spossante». Stanchi perché progettati così dai manipolatori dello spazio. E l’«euforia in scatola» è ancora più deprimente.

«Lo scialbo è diventato l’unico terreno di incontro tra il vecchio e il nuovo…», il banale è la cifra di questi spazi: che altro ripetono con il rischio dell’ossessività i critici conservatori? Gli apologeti delle opere di Koolhaas si affaticano a nascondere o negare la scontata verità. Trattasi proprio di scialbo, di sciocchezzaio. «Una vacuità risibile pervade […] gli abbracci incerti che gli architetti-star mantengono in presenza del passato», giunto alla maturità l’autore si accorge perlomeno che gli manca il terreno sotto i piedi, per un costruttore è fatale. «Il junkspace ti rende incerto su dove sei, rende poco chiaro dove stai andando, distrugge il luogo dove eri. Chi pensi di essere? Chi vorresti essere?». Perché mai si insegue un simile piacere del babelico? L’architetto ha perso le velleità redentrici del modernismo e si limita a sponsorizzare «una minacciosa collettività di consumatori in sicura approssimazione dei loro prossimi acquisti […]. Il soggetto è svuotato della sua privacy in cambio di un nirvana di credito». Già detto, e da decenni, dai fustigatori francofortesi quando criticavano le forme totalizzanti del consumo; da un architetto par suo ci si attenderebbe qualcosa di più specifico. Insomma, risulta una critica ingenua, che usa espressioni abusate per denunciare il mondezzaio che la sommerge, discorso che non riesce a stabilire una qualche distanza con il suo oggetto, quasi fosse adescato perversamente da quel tanfo. Un’altra faccia dello Zeitgeist.

Si concorda almeno quando dice: «‘capolavoro’ è diventata una sanzione definitiva, uno spazio semantico che salva l’oggetto dalla critica, lascia la sua qualità non provata». Lo stesso vale per tutte le manifestazioni dell’arte modernista e per la complicità della critica sempre sospetta. «Capolavoro è una tipologia corrente».

Ma poi si lascia sfuggire un «fascismo latente». In altre parole, Koolhaas rivela nascondendo a stento il piacere che si tratta di «un fascismo senza dittatore». Affermazione pesante che, una volta appurata, meriterebbe come minimo una qualche preoccupazione: ci sarebbe dunque a parer suo un nuovo squadrismo in giro per il mondo, quello con il tono intimidatorio delle avanguardie, un fascismo estetico, parola di un reo confesso. E invece, con il sorriso ebete del violento, la frase serve soltanto a intensificare il nichilismo sempre di moda, a illividire lo spettacolo urbano. Si parla perciò di «ecofascismo benigno», come nessun revisionista oserebbe, annegando nella melassa i cattivi della storia. Insiste con stupore: «il junkspace è senza autore, e tuttavia sorprendentemente autoritario… Nel momento della sua più grande emancipazione [sic], il genere umano è soggetto alle trame più dittatoriali»: «assemblee di concentramento, film di concentramento, cultura di concentramento». Appiattendo così le orribili macellerie del Novecento, mischiate all’architettura decostruzionista, si libera il Führer dalle sue colpe, quasi fosse un semplice urbanista scriteriato, e si fa dei Lager uno sfondo estetico violento, un filmetto horror, per mordere l’accidia metropolitana.

Lui continua a vivere in questa cultura ad alto rendimento per le sue star, dove manca la fede in quel che si fa e ci si atteggia per i lettori più ingenui a bruti per forza di cose, a bruti appagati, provando grande diletto a dimostrare che altri orizzonti non sono dati. Un tempo si fu hegeliani del crimine per fedeltà al senso della storia, più tardi ascetici per weberiana virtù borghese, ora per moda contemporanea ci si immerge, martiri neo-stoici, nella spazzatura.