mercoledì 26 novembre 2008

minima / Se l’Occidente cancellasse la croce

Nonostante le ultime traversie, l’Occidente è opulento. Brillante, oggi più che mai, dopo aver messo a presiedere gli Stati Uniti (e il mondo) un giovanotto che si presenta da divo, elegante come nessun altro leader di laggiù, dall’aria vincente e dalle radici africane che coronano l’american dream. Militarmente ancora imbattibile, economicamente ancora strepitoso pur con qualche punto in meno, sempre più modello per gli altri, da tempo immemorabile dominatore culturale del pianeta. Orgoglioso perciò, talvolta a ragione. La croce che lo ha accompagnato da millenni nel superbo cammino non è però un simbolo di questo suo trionfo, un marchio identitario come dicono in molti, bensì un poderoso segno del limite: della umana natura e del potere. «Et in Arcadia ego», anche nello splendore occidentale la morte e il dolore, che le si accompagna, vogliono regnare; anche quell’impero romano che è alla base del diritto e dell’organizzazione politica, ha fatto innumerevoli vittime, deicida perfino secondo alcuni. Alla organizzazione umana che si crede imbattibile, alla giustizia di questo mondo, all’impero comunque chiamato, i seguaci della vittima contrappongono la loro Ecclesia. Tuttavia, un grande e faticoso compromesso ha permesso nei secoli all’Occidente di imporre anche allo Stato il simbolo dell’Ecclesia, la contraddizione per eccellenza, l'emblema del capro espiatorio. Sugli edifici pubblici, sulle armi nonché sui patiboli fu posta la croce: non impedì violenze e malvagità ma certamente limitò la natura umana che di per sé è piuttosto sfrenata. In ogni caso produsse una qualche inquietudine, un qualche rimorso.

Ora, se questo mondo aggressivo decidesse davvero di far fuori quel simbolo, cancellasse solennemente ogni accenno alla morte e agli assassinati, non resterebbe che il totalitarismo edonista, di cui la Spagna della movida politico-giudiziaria è ancora soltanto una caricatura. Sappiamo comunque quello che è accaduto nel Novecento una volta buttata la croce alle ortiche, sostituita da un simbolo induista e poi buddista del ‘benessere’, la svastica, e dai simboli del lavoro umano troppo umano con cui i bolscevichi vollero rovesciare il mondo. Se viene a mancare «l’amuleto che placa le passioni», prevedeva Heine con un secolo di anticipo, il mondo sarà paralizzato dal terrore (v. «Almanacco Romano» del 27 settembre). Vennero infatti i Deutsche Christen, marcioniti mascalzoni, che avevano staccato Cristo dalla croce, e sostituito lo strumento di tortura con l’erotica svastica. Volevano pure modificare la vita di Gesù, non solo arianizzato, ma ridotto a un superman
positivo, forte, risorto per energia da scientology. L’importante, secondo loro, era nascondere la sofferenza e la morte. Rimasuglio delle varie gnosi, Gesù veniva trasformato nell’immagine del sano, dell’eroe atletico, del fortunato. Ancora nell’ultimo dopoguerra Pio XII si preoccupava dei pericoli di tali immagini e ammoniva nella enciclica Mediator Dei, intervenendo anche nelle faccende artistiche che si vorrebbero neutrali: «Erra dalla retta via (…) chi impone di rendere l’immagine del divino Redentore sulla Croce in modo che il suo corpo non mostri le acerrime ferite che aveva sofferto», condannando questi errori come «falso misticismo e velenoso quietismo».

lunedì 24 novembre 2008

minima / La paura dei giudici

Il povero giudice di Valladolid e i suoi complici di mezza Europa, compiaciuti sotto i baffi, sono più onesti di molti estetologi che la fanno lunga e difficile sulle immagini insensate ed evanescenti per «rendere visibile» l’invisibile. Smentendo infatti gli spiritualismi iconoclasti, il povero giudice spagnolo e i suoi poveri aficionados, che verso l’astratto e l’«artistico» si chinerebbero riverenti, anzi bigotti, sembrano avere una maledetta paura di una figurina scolpita che rappresenta un ebreo morto molti secoli fa, ucciso con la terribile esecuzione della croce, prevista in alcuni casi dalla pur civile legge dell’Impero romano. Temono dunque che quella riproduzione possa turbare i giovanetti del terzo millennio. Nessuno nutrirebbe i medesimi timori per l’amena
Testa di uomo di Paul Klee o per il brutto e animalesco Angelus Novus che dicono esprima velleità religiose. Quindi le immagini figurative non sono così neutre come ci raccontano da qualche tempo. Inquietano i giudici, per esempio. C’è il rischio – si legge nella sentenza – che lo studente, alzando lo sguardo sopra la cattedra, sospetti che lo Stato sia schierato con quell’uomo sanguinante. Guai a rompere l’equilibrio e dare l’aria di parteggiare per una vittima, anzi la vittima per eccellenza. La neutralità è il mito dei magistrati. Eppure, se venisse in mente a qualcuno di collocare, per ammonire, il ritratto di Anna Frank in ogni scuola europea, nessuno screanzato oserebbe proporne la rimozione. Ma nel caso del crocefisso, la vittima pare che abbia promesso anche il superamento della morte. Una simile notizia ai mortiferi magistrati, forse già morti annegati nel formalismo nichilista, risulta davvero minacciosa.

venerdì 21 novembre 2008


minima / Se la marmaglia sporca il Contemporaneo

«Scrivi nel sangue» si raccomandava il filosofo dionisiaco. I suoi peggiori epigoni ricorsero anche alle lacrime. Liquidi impropri. E pensare che gli inchiostri erano fatti apposta per scorrere sulla carta, brillare e resistere al tempo. Se ne davano anche versioni eccentriche, verde e violetto per animi decadenti. O, in tradizioni maggiormente auliche, si richiedevano piccoli e aggraziati pennelli onde trascinare inchiostri di China e tracciare un segno che si offriva pure a immagine, con una sottilissima scia sonora del liquido che scivola sul foglio e una scia profumata di resine. Specialità dell’Oriente estremo. Nel frastuono meccanico delle macchine per scrivere del Novecento l’inchiostro si tramutava in striscia, le lettere battevano il nastro grasso di colore, mani e dattiloscritti se ne impiastricciavano. Nei nostri epistolari di e-mail ci affidiamo a caratteri che non si posano su alcuna carta e possono scomparire senza lasciare traccia. Evanescenti carteggi per fantasmi. Dai diari dell’età puberale fuoriescono invece crittografie furuncolose dell’egocentrismo per assumere tinte triviali, gonfiarsi nei caratteri come una rana e, non più segreti, marcare la firma sulla pubblica scena, in tentativi di emergere dalla propria mediocrità sporcando il quartiere: questi i cosiddetti writers, gli scrivani del nulla sugli esterni delle case, i decoratori senza decoro, i calligrafi senza kalòs. Sì, è un itinerario tipico dell’estetica attuale: evadere con gestacci dal ghetto della desolazione, tanti piccoli Erostati violenti e accorati per ansia di notorietà.

Si è avuto un sobbalzo, ieri, leggendo su «Repubblica» che a Venezia il ponte appena inaugurato di un ferramentoso architetto spagnolo è stato «sfregiato dai writers». Quelli che il giornale al servizio di ogni conato estetico considera degli artisti, eroi del ‘contemporaneo’, stavolta sono umiliati con il più probabile titolo di imbrattatori. Se ne deduce che si è creativi se si scarabocchia sui muri berniniani del Palazzo di Montecitorio e marmaglia di vandali se ci si permette di maculare il ponte dello scandalo. A chi si mostra irritato perché qualche ragazzotto gli ha rovinato il costoso intonaco della sua proprietà con le scritte da filisteo di borgata, o peggio tatuato le facciate delle chiese e dei palazzi barocchi, le statue e le panchine di marmo, gli archi e le mura antiche, o semplicemente si è permesso di bruciare ripetutamente i suoi occhi con tali inguacchi, come se a Roma non bastasse la peste dei manifesti politici fuor di misura, unici nel panorama europeo, e spesso claudicanti nella ortografia e quasi sempre nella punteggiatura, insomma a questo poveraccio assai innervosito che invoca la galera per i guastatori, le maestrine della cultura rivolgeranno il dito accusatore come Furie: lei non sa chi sono loro, roba da museo, perché non gode invece della fantasia che colora le città e combatte il grigiore urbano? (ma che c’è di più deprimente delle scritte con gli acidi spry industriali? Che direbbe il povero Loos, attento per furia modernista a ripulire le leggiadre metropoli europee dall’ornamento del migliore artigianato, di simili svolazzi sguaiatissimi, di sfregi ai manufatti architettonici, di arabeschi del sempreuguale?). Forse, senza ricorrere alle carceri affollate, basterebbe che i giornali trendy e inventori continui di mode e di abitudini gregarie facessero sentire quelle anime semplici un po’ out e, subito, nel timore di apparire rétro, peggiore di punizioni galeotte, smetterebbero di fare danni.

Si scopre poi, leggendo integralmente la notizia, che «chi ha imbrattato il ponte ha colpito approfittando del fatto che da qualche giorno, passata la preoccupazione iniziale, è stato sospeso il servizio 24 ore su 24 di sorveglianza affidato ai vigili urbani». Dunque, per proteggere l’acciaio e il vetro veneziani si piazzano telecamere e vigili giorno e notte. Ohibò. Ecco spiegato allora perché l’intonaco bianco dell’ecomostro dell’Ara Pacis a Roma resta immacolato nonostante i branchi di grafomani in circolazione. I vigili, diurni e notturni, sono pronti a fulminare qualsiasi zombie che puntasse le sue bombolette su quella specie di garage anni cinquanta. È giusto, a differenza di una autentica architettura che sopporta stoicamente le ferite inferte nei muri e nel marmo – addirittura i millenari obelischi sono scempiati senza alcuna guardia –, le recenti costruzioni di Venezia e di Roma non reggono i graffiti, basta poco, uno striscio, una tacca, un segno osceno, per trasformarsi in un anonimo muro del Bronx dove gli adolescenti infelici scaricano la loro rabbia. Che ne sanno quelli (e i loro protettori accademici) dell’insegnamento terapeutico di Bonaventura per tutti i rabbiosi: ««Sensus tristatur in extremis et in medis delectatur»?

mercoledì 19 novembre 2008

Letture / Il deserto della Terza Roma

NELLA RUSSIA RACCONTATA DA WEIDLÉ VENGONO FUORI LE PREMESSE STORICHE E ARTISTICHE DELLA VIOLENTA RIVOLTA DI MALEVIC E KANDINSKIJ ALL’ALBA DEL NOVECENTO, QUELLA ICONOCLASTIA CHE RAGGIUNGERÀ PRESTO L’OCCIDENTE.
...
Per ben due volte, l’«Almanacco Romano» ha citato un personaggio pressoché sconosciuto al pubblico italiano e adesso, come promesso, cominciamo a tradurre qualche pagina della sua opera. Vladimir Weidlé, nella trascrizione dal cirillico Vladìmir Vejdle (1895-1974), nacque a San Pietroburgo e nella sua città natale, ancora molto giovane, insegnò all’università. Dopo aver lasciato la Russia nel 1924, si stabilì a Parigi. Su proposta del teologo Bulgakov fu assunto all’Istituto di teologia ortodossa come docente di Storia dell’arte. Il filosofo Berdjaev lo invitò a scrivere sulla rivista dell’emigrazione «La voie» e qui pubblicò i primi saggi sulla crisi dell’arte moderna, poi confluiti nel suo libro più importante, Les abeilles d’Aristée (Le api di Aristeo) che influirà non poco sul lavoro di Hans Sedlmayr, l’austriaco che è stato forse il più duro e intelligente avversario dei prodotti estetici contemporanei. Critico, letterato, pensatore della modernità, erudito conoscitore della cultura dell’Occidente, Weidlé scrisse di mosaici veneziani e di icone, di arte moderna e di poesia europea. Diresse anche i programmi della Radio Liberty per la Russia. Morì esule nel 1974.
Avremo modo di tornare anche sugli aspetti biografici di Weidlé quando presenteremo la sua opera dedicata all’arte. In questo primo approccio, partiamo invece da un aureo librino, uscito presso Gallimard nel 1949 e intitolato
La Russie absente et presente, dove lo «storico geniale della Russia» – come lo celebrò il nostro slavista Ettore Lo Gatto – non dedica che pochissime righe ai fenomeni estetici ma ci presenta utilissimi quanto indiretti spunti per ricostruire una storia della iconoclastia moderna, di cui alcuni celebri russi del Novecento furono i protagonisti. Di questo scritto offriamo appena dei piccoli antipasti.
[I titoletti dei paragrafi sono nostri]

FOLKLORE VS. GRANDE ARTE
Gli studiosi tedeschi del folklore, per descrivere quel che succede a una poesia quando si trasforma in canzone popolare, impiegano la parola zersingen; diremo allora che tutta la cultura dell’antica Russia è stata zersungen, è diventata folklore prima ancora di essere rimpiazzata da una civiltà importata dall’Occidente. L’affresco e l’icona in piena fioritura ornamentale del XVIII secolo, l’architettura che non mira ad altro che alla scenografia e non si preoccupa più di spazio e di costruzione, dei racconti d’avventura senza stile e senza approfondimento, tutto questo non può sostenere alcun paragone con la Trinità di Rublëv, con le chiese del XII secolo o quelle della prima metà del XVI, con i sermoni di Cirillo o le Gesta di Igor. La poesia orale e le arti popolari della Russia superano molte altre per la ricchezza delle forme e il calore dell’emozione che esprimono, ma si sono sviluppate a spese della grande arte, dell’alta letteratura, e si sono diluite in meandri e intrecci senza fine.

FIGURINE PER L’ALMANACCO DEI CAVALIERI AZZURRI

Ai tempi di Pietro il Grande. […] In Germania è Tiziano che si scontra, diciamo così, con Grünewald, lo spirito di Leonardo o di Machiavelli che urta quello che aveva ispirato Mastro Eckhart e Jacob Boehme, mentre la cultura in declino, in gran parte già disintegrata, dell’antica Russia ha ricevuto il colpo di grazia in un altro modo. Essa fu sommersa da stampe di terz’ordine e da orribili quadretti olandesi trompe-l’oeil (unica forma d’arte compresa dallo zar), da embrioni a due teste conservati nello spirito di vino, e dai manuali di bon ton che sconsigliavano di costruire un intreccio di ossicini intorno al proprio piatto durante i banchetti ufficiali o di appendersi da una finestra in presenza delle signore.
Così si concludevano sette secoli di vita russa. Non bastava relegarli nel passato, condannarli, rimpiazzarli (in mancanza di meglio) con la paccottiglia; bisognava renderli abietti e ridicoli. Lo zar tagliò lui stesso le lunghe barbe patriarcali ai suoi cortigiani; ordinò a tutti i sudditi, con l’eccezione dei preti e dei contadini, di radersi il mento e di vestire secondo i modi occidentali. Dei costumi che appartenevano completamente alla vita privata furono cancellati, e altri, come l’albero di Natale importato dalla Germania, resi obbligatori. Lo zar amava organizzare delle indecenti parodie delle processioni religiose, alle quali prendeva parte lui stesso, e il suo vecchio precettore Zotov, con una mitria rivestita di una immagine oscena di Bacco, era costretto a interpretare il ruolo del «buffonissimo e molto ubriaco patriarca».

UN NICHILISMO SPECIALE

Le idee rivoluzionarie, quando penetravano in Russia, si ponevano nella prospettiva del nichilismo, che è una attitudine mentale senza niente a che vedere con i principi scettici o relativistici né con le credenze positive che hanno fatto le rivoluzioni d’Occidente, ma che si può definire come una fede ardente nella Negazione o, più esattamente, come l’affermazione appassionata del non valore di tutto quello che era considerato valido nel mondo della religione, dell’arte o della morale. Il nichilista guarda come nullo e come privo di senso tutto quanto non abbia un valore puramente animale relativo a una necessità quale la fame o l’istinto sessuale; ma l’affermazione di questa nullità, la distruzione dei valori, costituisce essa stessa ai propri occhi il valore supremo, per il quale si è pronti a dare la vita, creando così una specie di religione al contrario di cui, nel caso ci si farà martiri. Nella sua qualità di religione al contrario, essa autorizza l’assassinio e in generale non riconosce il carattere sacro della persona umana; ma siccome è pur sempre una religione, essa dà ai suoi adepti la certezza e l’audacia che spingono all’azione, ossia all’azione eroica; i terroristi russi che ha formato sono spesso delle vergini e degli asceti, dei santi dalla spada sanguinante e dall’aureola nera.
Il nichilismo non è altro che la conseguenza diretta di un complesso ideologico, largamente sparso nella cristianità scristianizzata a partire dal XVIII secolo e che si può chiamare oscurantismo razionalista. Ora, l’originalità del movimento rivoluzionario russo consiste proprio nell’avere spinto questa ideologia al suo estremo limite e di averne dedotto quello che altri si erano astenuti dal dedurre. L’oscurantismo razionalista può non esser altro che una espressione relativamente inoffensiva della mediocrità umana che esalta una ragione di cui essa è lungi dall’esserne provvista. Il signor Homais [il farmacista di Madame Bovary, ndt] si preoccupa più del suo benessere che della sua irreligione e trae da questa piuttosto un tema di chiacchiere piuttosto che un principio di condotta. In Francia, soltanto certi eccessi del furore combista [movimento ferocemente anticlericale, ndt] potevano dare una idea di quello che fu in Russia il positivismo militante degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Un russo non può riandare a quegli anni senza rievocare una particolare atmosfera, fatta di materialismo ingenuo e di utilitarismo intransigente, di accettazione obbligatoria delle «idee avanzate» che consistono nel rigettare senza discussione tutto ciò che non può essere dimostrato in tre minuti ai cervelli più limitati e a sostenere che Shakespeare non vale un paio di stivali, che le metafore del linguaggio poetico non sono altro che delle menzogne spudorate. L’idolatria della scienza, corollario inevitabile dell’oscurantismo razionalista, ha prodotto in Russia a quel tempo un atteggiamento spirituale risolutamente ostile alla libera ricerca scientifica. Ciò che non era che una ipotesi in Occidente, si trasformava qui in un dogma, e ogni ipotesi contraria era considerata come una eresia. Per un adepto del darwinismo semplificato, quale quello di Pisarev, un partigiano di Lamarck assumeva i panni del traditore, del fuorilegge. […] Tutta la filosofia, tutta l’arte, tutto l’umanesimo non potevano che essere sospetti a tali spiriti. […] Questa grande pulizia degli spiriti, questa tavola rasa accuratamente sono indispensabili affinché il movimento nichilista possa rivelare la sua forma suprema, il terrorismo. Ma questo sforzo, d’altra parte, necessita di un tale impegno dell’intero essere che ciascuno ne riceve come una consacrazione tragica. Inoltre, non è soltanto la negazione né l’odio che conducono il terrorista all’azione, ma anche qualcosa di positivo che non deriva affatto dal nichilismo teorico. Anche lui, come il ‘nobile pentito’, come il maestro del villaggio o il medico che cura gratuitamente i contadini, come tutta la intelligentsija che si sacrifica a quel che crede essere l’interesse del popolo, agisce, secondo la giusta annotazione di Solovi’ev, mosso da questa strana deduzione: «l’uomo discende dalla scimmia; amiamoci dunque gli uni con gli altri». Grattate il terrorista, troverete il filantropo; continuate a grattare e finirete per trovare il pio cristiano.

L’AMORFO E LA PAURA DELL’ARTE

Ogni forma fissa, ogni idea di regola e di sanzione sono contrari ai desideri profondi del russo. Se vi è una fobia che gli è propria e che si manifesta bene sia nella vita di tutti i giorni che nelle più alte creazioni del suo genio è quella della forma che egli è sempre tentato di considerare come una maschera, come un brillante velo che non può non ingannarci sulla natura reale di quel che esso avvolge. Nessun popolo è meno attratto di lui dalla superficie delle cose, né così pronto a preferirla grossolana affinché si possa esser sicuri di non finire vittima dei suoi artifici. Ogni forma gli è sospetta in quanto affettazione e in quanto reticenza, perché essa esibisce una menzogna e, allo stesso tempo, nasconde una verità. […] Un russo metterà sempre un po’ di ironia nell’attribuire a chiunque sia una «bella prestanza», e d’altra parte, il termine «corretto» non mancherà di sembrargli mortalmente noioso. Una grande riserva evoca necessariamente per lui l’idea di freddezza e non ammetterà facilmente che una autentica cordialità possa andare di pari passo con una impeccabile cortesia. Secondo lui, ogni specie di formalità dovrebbe essere bandita dai rapporti sociali, e l’uomo non dovrebbe mai avere coscienza di stare a interpretare un ruolo. Nulla di meno russo del Paradosso dell’attore, perché in Russia anche l’attore non deve giocare un ruolo ma piuttosto viverlo sulla scena. Non si tratta in tutto questo di un semplice odio dell’ipocrisia, bensì di un istinto per il quale ogni forma appare come una ipocrisia, inutile e fastidiosa. […] Il ministro Stolypin, quando gli fecero notare che aveva commesso un solecismo nel suo discorso al Parlamento, rispose non senza veemenza: «il russo è la mia lingua, ne faccio quel che voglio». Un tale atteggiamento verso la lingua doveva ritardare e rendere incompleto il suo ancoraggio in forme relativamente stabili e sottomesse a un certo controllo. La Russia possiede una lingua letteraria comune soltanto dal XVIII secolo in poi e ancor oggi è per molti versi fluttuante, anche per quello che concerne la pronuncia di alcune parole. Nella struttura stessa del verbo, come in quella della frase, si fa sentire una mancanza di disciplina logica e, per corollario del resto, una elasticità e una libertà di espressione che supera quelle di cui dispongono le lingue occidentali. Le parole vi cercano non tanto il riferimento esatto quanto la risonanza profonda, sono più spesso dei simboli che dei segni. È per questo motivo che la lingua della poesia è meglio dotata di quella della prosa, e la prosa di immaginazione raggiunge un maggior grado di perfezione della prosa saggistica. […]
Il sospetto nei confronti delle forme, il desiderio di neutralizzarle non sono dei sentimenti favorevoli all’artista, e l’arte russa del secolo scorso ha molto sofferto della paura dell’arte. La mancanza di fede nella pittura come tale ha condotto il pittore a utilizzare dei procedimenti tecnici qualsiasi e ad applicarli come un talismano, nella speranza fallace che «l’anima» e il «sentimento» avrebbero avuto ragione di tutte le difficoltà e avrebbero compensato largamente tutte le insufficienze.

IL MOTIVO DELL’ODIO PER LE FORME

Quel che offre la spiegazione di questa rivolta contro la forma è che la Russia antica non l’aveva mai conosciuta. I suoi pittori di icone, i suoi architetti, i suoi predicatori non temevano affatto di aspirare alla perfezione formale; la bellezza che vedevano non sembrava loro avere niente di scandaloso. Ora, se avevano questo atteggiamento, è perché nessuno chiedeva loro di concepirla fuori del suo contesto naturale; essa restava quella che ai loro occhi era sempre stata: un riflesso della gloria divina. Solo la Russia laicizzata degli ultimi due secoli si è vista costretta ad affrontare la bellezza discesa sulla terra, disgiunta dagli altri attributi della divinità, separata dalla beatitudine celeste. Nulla mostra meglio la persistenza del bisogno religioso nell’anima russa del rifiuto che essa oppone a questo nuovo stato di cose. Perché l’odio delle forme – proprio come il timore del diritto – non è nient’altro, nella sua fonte essenziale, che il rifiuto di riconoscere la sovranità di un valore dissociato da altri valori, strappato dall’unione di tutti i valori in Dio.

sabato 15 novembre 2008

minima / I funzionari del sottosuolo

Estremismi feticisti contrapposti nel duello rusticano in corso, ai bordi di Campo Vaccino, tra chi vuole abbattere gli alberi centenari per necrofilia archeologica e chi non poterebbe neppure un ramo marcio per superstizione cloro-filiaca. Fa comunque impressione nella cultura romana di oggi lo strapotere degli archeologi che sovraintendono alla nostra vita quotidiana, non solo per i tagli degli alberi in superficie, quanto per i reiterati veti che nei decenni impedirono le linee metropolitane sottoterra, bloccando i movimenti della città, rubando negli ingorghi ore e ore del tempo assegnato ai viventi, confinando alle sole automobili il trasporto per l’urbe, crimine senza pari anzitutto verso le antichità e le belle arti. Decidono loro sul regno sotterraneo come sul terrestre, forse anche su quello celeste dello skyline, e sempre privilegiano le ragioni del mondo dei morti sull’ambiente dei vivi. Pedanti funzionari del sottosuolo, dell’underground (senza treni), vanno alla ricerca di fantasmi pagani nell’averno che calpestiamo, collezionano vanamente resti, cocci, frammenti indecifrabili della storia, si mobilitano per una villetta sepolta nelle tenebre, archiviano da travet il passato epico. Il che appare straordinariamente paradossale in una classe dominante che rifiuta per principio, e come una faccenda ridicola, ogni richiamo alla tradizione. È il complesso dei domestici che hanno ereditato casualmente dai padroni e, timorosi, non toccano niente, ma contemplano in punta di piedi il patrimonio sotto vetro che si impolvera inutilmente. Quando la tradizione era legge, i degni eredi, i papi, prelevavano le dee e le convertivano in sante o saccheggiavano i marmi imperiali per farne templi cristiani, consapevoli che il mondo era a loro disposizione. Allora Borromini sottraeva la bronzea porta all’antica Curia, la inchiavardava a San Giovanni in Laterano e tempestandola di stelle a otto punte la tramutava in un ingresso trionfale della cattedrale dell’universo.

giovedì 13 novembre 2008

minima / Giochi contemporanei all’ospedale

Il 25 ottobre quest’«Almanacco» ricordava gli ospedali svuotati degli infermi, cui la tradizione li aveva destinati, per essere trasformati in musei. Ieri l’Enel, mecenate delle imprese estetiche contemporanee, porta una installazione al Policlinico di Roma, una incursione museale nel luogo del dolore. Arte del conforto che parla al cuore e alla mente dei doloranti? The Waiting Room, così si intitola il piccolo circo alimentato da pannelli fotovoltaici, invocando i luoghi comuni ecologici, si mette a giocare con fungoni violacei e sfere di plastica, secondo le più scontate fantasie del genere. Ma chi sta chiuso in quel purgatorio ha davvero voglia di spiritosaggini ludiche? O saranno i familiari dei malati a distrarsi con simili puerilità? Piuttosto il piccolo pubblico di tali mostre avrà trovato uno spazio più hard per i suoi balocchi. Ovvero, lo spettacolo della morte e del disfacimento, sottratto al tragico e ridotto a performance. Installatore e azienda elettrica che fa da patronessa dell’iniziativa parlano cinicamente di «energia nuova».

sabato 8 novembre 2008

De Chirico alla Casa delle Muse

Il 19 NOVEMBRE, NELLA ROMANA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA, CHE TANTO LO OLTRAGGIÒ IN VITA, SI INAUGURA UNA MOSTRA DI OPERE DEL PICTOR OPTIMUS IN DIALOGO CON I MAESTRI DELLA TRADIZIONE. LEGGIAMO LE SUE PAROLE COME VIATICO PER QUESTO VIAGGIO NEL MUSEO IMMAGINARIO CHE SI TENTA DI RICOSTRUIRE

«O Ebdòmero, disse, io sono l’Immortalità…»

Le folle che vengono trascinate per mostre e musei, a maggior esaltazione del consumo turistico, dovrebbero tenere a mente le parole che Giorgio de Chirico scriveva nelle prime pagine delle sue spumeggianti Memorie della mia vita (anche in tascabile, Bompiani 2002) a proposito di una faticosa gita per chiese e pinacoteche di Venezia: «penso che quella noia che mi fu imposta allora che ero un ragazzo, tante persone adulte d’ogni Paese e d’ogni razza, benché indipendenti e padrone delle loro azioni, se la impongono volontariamente, quello che prova l’infinità stupidità umana. Io allora se avessi potuto fare quello che volevo, invece di andare tutto il giorno in giro per i palazzi e le gallerie a faticarmi in quel modo, avrei passato le mie giornate al caffè Florian a consumare paste con la crema e gelati di cioccolata». Valéry, sdegnoso dei musei per gusto gaudente, avrebbe concordato.

Ma i saggi frequentatori dei caffè nonché golosissimi della cioccolata si alzino una volta tanto dalle loro poltroncine il 19 novembre, mercoledì, per recarsi in un museo moderno, in quella Gnam come si chiama oggi per vezzo infantile la post-risorgimentale Galleria nazionale d’arte moderna, onde assistere alla inaugurazione di una mostra del Pictor Optimus del Novecento. Gli iconofili vi troveranno i quadri del massimo artefice di immagini della italica modernità («Giorgio de Chirico ha inventato l’Italia» diceva Fellini) mentre dialoga con i maestri del passato, la prova vivente che le figure possono scaturire anche nel nichilismo del nostro tempo, nonostante il pessimistico borbottio di filosofi e teorici vari, in sfida audace e difficile al nichilismo. Quanto a coloro che sono attaccati alle terrasses dei bar e allergici alla polvere dei musei, due sole eccezioni si richiedono: Bellini e de Chirico bastano per l’inverno romano.

Si intitola «De Chirico e il museo» la mostra che ha scelto come tema il rapporto con la tradizione nell’opera di un artista che le avanguardie avrebbero tanto voluto dalla loro parte, tentando di allestire un museo immaginario dei suoi quadri che meditano sull’antico, che intrecciano le maniere. Chissà se si racconterà in catalogo delle innumerevoli offese inferte dal museo, dalla Gnam in questione, al pittore quando era in vita e già venerato in mezzo mondo. De Chirico ne accenna nella sua autobiografia, è buono ricordarle, non per confortare i falliti della loro oscurità, quanto per punire il vizio provinciale sempre riaffiorante nella cultura del dopoguerra, la mesta cecità nei confronti delle meraviglie d’Italia.

Quando si smise di giudicare quello che si faceva fuori della penisola «con equilibrio e buon senso, senza livori insinceri e ostilità di programma, come durante il fascismo, ma anche senza sdilinquamenti e folli passioni come si fa ora», cominciarono i guai esterofili e si perse la stima degli stranieri. A dire il vero, de Chirico era uno dei pochi ad averla mantenuta sempre intatta, ma nemo artifex in patria, avrebbe potuto confermare Dürer, che si lamentava della barbarie tedesca insensibile alla sua pittura, mentre otteneva la lode dei geniali confratelli al di là delle Alpi: «Hier bin ich ein Herr, daheim ein Schmarotzer».

Della Gnam, che ancora non si chiamava con questo nome dal suono mandibolare, detestava molte cose. Ne ricordiamo qualcuna, per rivederla magari con altri occhi nel giorno della sua mostra lì nei pressi. «Voglio parlare dell’allestimento delle sale della Galleria d’arte moderna a Valle Giulia. La scelta delle opere che vi sono attualmente esposte è fatta in modo oltremodo tendenziosa. Per proteggere, difendere e giustificare la scemenza, l’impotenza e l’ignoranza dei pittori moderni, per poter gettare della polvere negli occhi della gente riguardo il provincialismo e la nullità della pittura moderna, si è voluto rappresentare in quella galleria tutta l’arte italiana del secolo scorso con qualche ridicolo ritratto di Mancini, ove la cartolinesca pittura delle facce contrasta buffamente con il modernismo casalingo d’un mezzo quintale di nero d’avorio inutilmente sprecato per dipingere gli abiti, poi ancora con un altro paio di ritratti di Boldini, legnosi e falsamente eleganti, e con qualche pittura di Spadini, scelte fra le più mediocri, d’un secessionismo di seconda classe. Dove sono le opere di Giacinto Gigante, di Palizzi, di Giovanni Carnovali, di Fontanesi, di Segantini, di Previati, di Vincenzo Gemito?». I nomi che invano egli cercava nelle sale di Bazzani, risuonavano felici nelle sale delle Scuderie del Quirinale durante la recente mostra sull’Ottocento che ha provato a ridare il giusto peso a questa illustre schiera.

Ma la sua avversaria preferita era la direttrice della Galleria: «anche oggi, dopo tanti anni, vedo nella mia memoria la dottoressa Bucarelli guardare quelle mie bellissime pitture con l’espressione fredda, distante e disgustata, simile all’espressione che avrebbe una cuoca d’alto bordo, quelle che i francesi chiamano cordons-bleu, recatasi a far la spesa per un pranzo molto importante e che stesse guardando davanti ad una bancarella alcune rape mezzo marce e bacate. Questo atteggiamento della illustre dottoressa è una delle tante prove irrefutabili della sua profonda incomprensione per quanto riguarda la pittura. Infatti la dottoressa Bucarelli [...] è una ardente sostenitrice di tutte le più brutte, trite, noiose e sceme manifestazioni della cosiddetta arte moderna». Tuttavia, la dottoressa-massaia-al-mercato che non amava davvero la sua pittura fu insignita di un grande omaggio da un altro de Chirico: il ritratto che le fece Savinio, tramandandola assai affascinante nei secoli.

Nel dopoguerra fu costretto a organizzare mostre in casa, le gallerie romane si accendevano per il nuovo, che noi abbiamo poi rapidamente dimenticato, e in una di queste mostre, con i quadri sul divano e sulle poltrone del salottino di via Mario de’ Fiori, fu invitata a prendere il tè tra amici e conoscenti «la dottoressa Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, galleria che, per antonomasia, molti chiamano il Museo degli Orrori». Tanta divertita ostilità nasceva dal fatto che alla «dottoressa» la pittura dechirichiana non sembrava proprio piacere, ma c’erano anche motivi contingenti: mentre Giorgio de Chirico doveva ingegnarsi in spazi espositivi ricavati alla buona, la Galleria Nazionale metteva a disposizione le capienti sale per le opere del suo rivale di gioventù, Picasso, e la indomita direttrice convinceva il capo dello Stato a presenziare al vernissage dello spagnolo, fatto raro a quei tempi, ma poi nonostante tanta ufficialità, l’artista acclamato non si degnava nemmeno di un viaggio da Parigi per partecipare alla festa che gli si tributava nella città eterna.

Dalla nostra distanza, con il Novecento archiviato, De Chirico appare l’unico che si potesse misurare con Picasso, addirittura con minori concessioni agli idoli del tempo, con minori scorie del Moderno. Due geni del Mediterraneo, provenienti da luoghi ormai periferici, la Spagna e la Grecia. L’artista italiano aveva ripercorso gli itinerari del mito classico per poi inventare la «mitologia moderna» (come ammise Breton) e attraversare indenne ed elegante la rivolta del Novecento, da «gentiluomo del XX secolo», come pure fu definito, a cominciare dalla Monaco di Baviera, prima tappa della sua vita artistica: «‘È il paradiso, il paradiso sulla terra’ pensavo. Però in quel paradiso stava maturando, proprio in quegli anni, una grande calamità: la pittura moderna [...]. E circa un quarto di secolo dopo doveva nascervi una seconda calamità, ben più tremenda della prima: il nazismo». Passò quindi per Parigi, lasciandovi un segno decisivo, si spinse nella culla di questo modernismo, ovvero là dove fu distrutto il regno romano delle belle arti che era sopravvissuto poco tempo al suo ultimo sovrano, Antonio Canova: «A Parigi l’attività dei mercanti per valorizzare ed imporre la pittura decaduta e decadente principiata con l’avvento degli impressionisti fu più accanita e più insistente che in qualsiasi altro luogo».

Si spera che l’impostazione della mostra rifugga ormai le vecchie questioni del prima e del dopo la data fatale, frontiera cronologica imposta per consacrarlo avanguardista di una stagione e dannarlo per i decenni delle altre ‘maniere’. Del resto, chi presentò il mondo in chiave metafisica come un redivivo Platone non poteva essere apparentato agli ‘epicurei e stoici’ delle avanguardie. Se infatti risultò nuovo per la sua unicità, non fu così frivolo da idolatrare la novità per una vita. Preferì inseguire nel tempo la perfezione (idea poco praticata nella sua epoca). Non fu mai ‘rivoluzionario’, infatti, né alla moda e meno che mai alla mercè della opinione altrui. Nato in Grecia, universale come un greco, italiano cosmopolita in epoche di nazionalismo acceso, celebre a Parigi come a New York, scelse Roma per vivere e lavorare. Abitava nel centro della città – e quindi «nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità» – diceva salace. Dimorava in una capitale mediterranea, panica, sempre ribollente, torrida, afosa. Nelle sue memorie, torna insistente il caldo romano: «gli americani avevano fatto esplodere su Hiroshima la bomba atomica […] e c’era chi diceva allora che quel caldo opprimente era dovuto all’esplosione cosiddetta termo-nucleare. Anche ora vi sono molti che attribuiscono le anomalie meteorologiche alle esplosioni atomiche effettuate in Russia e negli Stati Uniti. Io però ci credo poco e mi sembra che la situazione meteorologica sia su per giù quella che è sempre stata» (si è classici anche nei dettagli). Di Roma accettò le miserie novecentesche, le misure ristrette, vieppiù paesane, i traslochi negli appartamenti ammobiliati, i tragitti brevi e quotidiani, accerchiato da molti sguardi, tra casa sua a piazza di Spagna e il Caffè Greco, negli ultimi anni svuotato di artisti e di personaggi, riempito di anonimi turisti. Era il nume tutelare della città, imponente e beffardo, fissava il nostro povero mondo dei Cinquanta e dei Sessanta. Appunto come una divinità se ne stava sospeso, benché la sua figura fosse grave, sopra le bagattelle locali, le dispute effimere nelle trattorie rissose (aveva già assistito, mezzo secolo prima, a simili controversie bizantine tra i saccenti che si riempivano la bocca di modernità, era déja vu per lui). L’unica volta, crediamo, che firmò un appello, fu quello al papa, promosso da Cristina Campo e sottoscritto da alcuni tra i più prestigiosi personaggi del tempo – da Auden a Borges, da Dreyer a Julien Green, da Benjamin Britten a Marìa Zambrano (scegliendo a caso) – per mantenere la Messa in latino. Restano nella mente delle istantanee con le sue pose solenni, a qualche mostra, da un palco del Teatro dell’Opera alla prima di un Tristan und Isolde messo in scena da un bizzarro pronipote di Wagner, e si sarebbe voluto interrogare quel volto da sfinge per ascoltare un suo arguto commento.

Nella Roma dove riaccese i bagliori di Rubens, «la bestia nera di tutti i modernisti», dove il 20 novembre del 1978, esattamente a trent’anni dal primo giorno di questa mostra, abbandonò la vita terrena per entrare nell’empireo degli artisti beati, restano poche tracce del suo passaggio: la casa-museo a Trinità dei Monti; il gruppo scultoreo di Ettore e Andromaca, davanti all’Aranciera di Villa Borghese, che fu visto attorniato da domestiche immigrate da altri mondi commosse per la scena dell’addio («le mie opere […] in fondo piacciono a tutti, in contrasto con le pitture moderniste che non piacciono a nessuno»), gruppo scultoreo en plein air che fa da guardia a un nuovo museo ‘americano’ dove i suoi quadri sono a contatto sacrilego con i pop; la tomba sotto un altare della chiesa di San Francesco a Ripa, fuori dal tempo ma spazialmente attaccata alla Ludovica Albertoni di Bernini, splendori barocchi che garantiscono reciprocamente l’eternità. Nei suoi quadri però c’è moltissima Roma, la sua luce, la sua trionfale resistenza al tempo.

Soffrì l’ignoranza e l’astio dei funzionari culturali e dei critici. Si legga ad esempio una recensione della povera Quadriennale del 1965, con il tono di sufficienza per i suoi quadri, ripetendo senza vergogna come scolaretti il dogma del déluge dopo il ‘periodo metafisico’ e andando oltre, nell’insulto involuto. Per i giovani che vogliono capire un clima senza troppe lungaggini si riporta, omettendo per pietà il nome dell’autore ora ben noto, un frammento dal periodico «Palatino» (anno X, gennaio-marzo 1966): «…al di là delle stanche e senili presenze attuali di Carrà, di Campigli […] che s’accompagnavano a quella, come ormai da anni volgarmente rinunciataria, di De Chirico nel costituire un lotto di mero significato commerciale, a livello assai basso (la dignità del pittore è anche nel prevenire le conseguenze dell’imbolsimento senile)». Così si esprimevano quegli sgraziati che si affannavano, con periodare penoso, su giornaletti alla periferia del mondo, tra trombonismo pezzente (che invidiava le ricchezze) e il beat incipiente. Del fastidio arrecato da petulanti giornalisti, lui stesso ci ha lasciato invece una ironica e diretta testimonianza nel documentario involontariamente divertentissimo «A tu per tu con l’arte», che può essere rinvenuto, nelle teche online di Rai Click, con qualche colpo di mouse.

Non gli fu conferito un premio, né gli si organizzarono mai grandi retrospettive, gli fu perfino negata (dal ministro fascista Bottai) una cattedra in una qualsiasi accademia di belle arti, ed era la nostra maggiore gloria contemporanea. Vittima della cafoneria esterofila, ma anzitutto dello splendore della sua opera che sconfessava la pittura «informe e deforme», smentiva l’impossibilità moderna di dipingere, si misurava alla pari con gli antichi.

The late Chirico, come sintetizzano gli americani quando vendono tele preziose vere o false dell’italiano, è stato un grosso problema per gli storici dell’arte, un caso. Perciò scavano nelle contraddizioni come fosse un concettuale, contrappongono filologicamente i suoi testi, non le opere, di decenni diversi della sua lunga e olimpica vita, spettegolano di gelosie, rinvengono benevolenze (rare) verso qualche modernista che gli era passato accanto, il tutto pur di svalorizzare quanto lui è andato dicendo e facendo lungo l’arco del Novecento. Incapaci di accettare che un sommo artista possa essere diverso dall’opinione comune, che il talento – nonostante le rassicurazioni democratiche del Bauhaus («si è tutti artisti») – faccia la differenza. Come è possibile – si domandano – che un uomo lontano dalle baruffe storiche che tanto hanno coinvolto questi critici sia poi capace di creare simili opere, negando sonoramente l’impotenza pittorica del nostro tempo?

Così, mai si prese sul serio quel che affermava, nonostante l’abitudine a recepire come parola sacra qualsiasi sciocchezzaio dei contemporanei burloni. Non poteva essere vero né serio che non si avesse fede nelle sorti progressive. E come spiegarsi che l’antimodernista aveva dettato le forme del Novecento, anticipato le architetture e gli snodi delle città innovate, e il clima e i suoni e l’anima insomma? C’era inoltre un problema nel problema, quello per cui colui che dipingeva all’antica, che non voleva saperne di modernismo, che si ispirava alla tradizione, diventava a sua volta una ispirazione per i più estremi contemporanei che, dal re del pop a i nostri scolari di Piazza del Popolo, hanno rifatto a modo loro le icone, come direbbero, dechirichiane. Un bel rompicapo che ridicolizza l’accanimento ‘trasgressivo’ dei finti artisti, o semplicemente dei finti, e quantomeno rende più confuso il confine con la tradizione, sbiadendo quella rottura di cui ci si vanta perennemente (con i vessilli francesi e russi) che si agitano in simili casi, rivendicando la Legitimität der Neuzeit, la legittimità del moderno in versione artistica, che invece è meno lineare di quanto appaia a prima vista. Pertanto, se ancora proviamo il piacere di scrivere e leggere parole, al di là dei media usati, de Chirico ci mostra che il piacere della pittura su una superficie, del racconto per immagini, è ugualmente legittimo e possibile. «Tel est notre bon plaisir». Ecco lo scandalo.

Spiegava la fedele Isabella Far: «Era l’epoca in cui nasceva lo ‘spirito moderno’ con una marea di teorie, di tendenze e di nuove scuole. Lo spirito moderno costruiva tutta una nuova impalcatura di parole e frasi che falsavano il significato di molte concezioni, convinzioni e rappresentazioni, quel consenso di ragione e spirito che alcune forti intelligenze avevano saputo elaborare e conquistare. Ai nuovi profeti diventavano intollerabili persino i trofei della nostra cultura morente. Ciò che a loro conveniva di più era distruggere. La loro lotta ebbe successo, dato che essi riuscirono perfettamente nella distruzione, ma molto, molto meno nella costruzione. Così, la realtà dell’arte era una delle loro bestie nere; bisogna dire un po’ per giustificarli, che la confusione e il disorientamento in pittura erano stati prodotti dall’assenza di pittori importanti che facessero almeno dell’arte…».

Naturalmente va sempre precisata la differenza tra una mascherata nella storia e il tentativo vittorioso di sconfiggere il tempo. C’era chi si inebriava della corsa temporale, che si eccitava del carattere effimero celebrandolo e chi – come lui – bramava l’eternità, provava «il brivido dell’eternità». Il «sentimento originario» in luogo dell’«originalità», l’«emozione primordiale» che rincorreva in Hebdomeros (1929). La citazione allora non era mai uno sberleffo, un segno anzi un segnale come nella produzione moderna, piuttosto un sacramento dell’antico che consacra l’eternità.

Creatore e restauratore dell’antico, guardava al mondo del passato come a un mistero ormai, poetico anche per la distanza, il che può evocare il panpoetismo di Novalis ma pure la devozione per l’antichità che nutrì l’umanesimo italiano di un Ghirlandaio. Un classico non più sereno, tuttavia, secondo la lezione di Nietzsche, ma senza il chiasso dionisiaco: anche l’apollineo manca della piena serenità e si tinge di malinconico come la natura degli umani che mai trova sferica pienezza.

Si era incuriosito ai miti classici e addirittura arcaici forse per dono degli dèi, per evenienza familiare che lo portò in un angolo della Tessaglia a contatto con le reliquie dell’antico in un piccolo museo locale e tra i profumi mediterranei del posto, per il classico rivisitato dai bavaresi dell’Ottocento che ebbe modo di vedere a Monaco, per la lettura di Nietzsche che stregò la sua generazione, saggiamente diluito tuttavia nell’anima meridionale, nella cultura cattolica del ritrattista di Pio XII.

Chi sapeva mettere insieme il mare classico e i trasporti arditi degli uomini, i gesti del mito e la tecnè possente, le forme poetiche e, nascosta là dietro, la brutalità moderna, l’esattezza spirituale del classico e la melanconia, poteva stare accanto a un altro novecentesco che tentò di annientare il tempo fuorviante e crudele dei forestari, Ernst Jünger, soprattutto in Auf den Marmorklippen, sulle scogliere di marmo.

In molti si chiesero che cosa avesse trasformato il beniamino delle avanguardie – in particolare dei «degenerati» surrealisti, come li chiamava – nel cultore della tradizione. Il diretto interessato lo spiegava così, parlando in forme narrative saviniane di un vero e proprio evento miracoloso: «Fu al Museo di Villa Borghese, una mattina, davanti a un quadro di Tiziano, che ebbi la rivelazione della grande pittura: vidi nella sala apparire lingue di fuoco, mentre fuori per gli spazi del cielo tutto chiaro sulla città, rimbombò un clangore solenne, come di armi percosse in segno di saluto e con il formidabile urrà degli spiriti giusti echeggiò un suono di trombe annuncianti la resurrezione». C’era bisogno di un intervento celeste ormai per dipingere come un tempo, nulla appariva scontato, si era perduta l’ingenuità, come assicurano i pensatori dall’Illuminismo in poi. Ma la fiamma pentecostale, il Santo Spirito invocato con coro possente da Mahler nella sua Ottava Sinfonia pochi anni prima, serviva soltanto a rimettere in moto l’arte con il mito; successivamente, affermava in prosa, «con lo studio, il lavoro, l’osservazione e la meditazione ho compiuto progressi giganteschi». Altri prodigiosi interventi si erano avuti, quando inaugurò la maniera metafisica, nella piazza Santa Croce di Firenze; le fasi artistiche della sua vita erano tutte all’insegna del miracolo, dell’enigma pieno di grazia.

In quella specie di manifesto titolato Il ritorno al mestiere invitava, fin dal 1919, «i pittori a rendere omaggio alle statue», a rendere rispettoso omaggio all’antico. Dirà in un’altra occasione: «Solo dopo che si avrà copiato per decine e centinaia di volte disegni e studi di alberi fatti da autentici maestri come Tiziano, Rembrandt, Poussin, Claude Lorrain, Fragonard, ecc. si potrà, in seguito, copiare un albero dal vero, e allora lo si farà con maestria e sicurezza». Il che suonava paradossale pittura ‘dal vero’ in chi si vantava di prendere la tavolozza e davanti al cielo ‘fiammingo’ della sua terrazza romana al tramonto raffigurarlo, ma per specchio della tradizione, con un netto antinaturalismo. Il principale motivo era tuttavia che andava evitato, come invece facevano molti pittori suoi contemporanei, di dipingere «pensando magari a Cézanne e Van Gogh». Spogliarsi dei clichés modernisti, ritrovare la via maestra.

Si addestrava modestamente in interni senza fasto, rievocò esercizi quasi da dilettanti, ma al fondo c’era l’immenso talento e l’intelligenza: con un suo amico scultore parlavano a lungo dell’arte del disegno, «sfogliando monografie dedicate all’opera di Michelangelo e di Dürer. E per aggiungere l’esempio alla parola […] disegnavamo di memoria figure e parti di figure umane, cercando di imitare la maniera di questo o di quel maestro. A volte, mentre lavoravamo, si parlava della decadenza della nostra epoca…». A quel tempo, dunque, c’era tra noi chi dipingeva con colori e tecniche del fulgore rubensiano, anche se si cimentava nella réclame delle auto Fiat. Intorno si levava, davvero passatista, il frastuono degli echi di furori espressionisti, anche in salsa astrattista e le estreme semplificazioni di tramontati surrealismi. Il tutto condito con chiacchiere che riandavano ai dibattiti della Repubblica di Weimar o addirittura ai secessionismi europei, discorsi vetusti dopo la fine del mondo, le capitali bombardate, i Lager tedeschi e sovietici, le etnie sterminate. Duelli in nome di Kandinskij fuori tempo massimo, come se in qualche isola extraoccidentale ci si accapigliasse nel 2008 per il cinema neorealista, con appendici di scomuniche politiche e sofferenze patetiche di eretici. Nel frattempo, Malevič era tornato a dipingere figure, un po’ per convinzione un po’ per costrizione del regime, poi Malevič era morto, era morto Kandinskij, dimenticata Monaco, decaduta Parigi, gli americani imponevano il loro easy estetico pure a Mario Sironi, e qui come niente fosse, a giocare alle battaglie di inizio secolo, astrattisti/figurativi. I partecipanti si giustificavano però con la cappa fascista, con un ventennio nella campana di vetro, nascondendo ai più giovani e a se stessi che i gerarchi si elettrizzavano tanto per i futurismi d’ogni risma, e mai fu imposta una linea culturale tradizionalista da quel duce cresciuto all’ombra di Marinetti e di Margherita Sarfatti con i suoi protetti, tutti sperimentatori dell’anteguerra. Resta inoltre la vecchia obiezione della ‘gita a Chiasso’ e, in mancanza di soldi, almeno un qualche libro sfogliato in sonnolenti biblioteche romane: se ne trovavano e sarebbe bastato per accorgersi di quel che accadeva in mezza Europa.

Eugène Delacroix, pittore che pure a de Chirico talvolta capitò di citare, annotò nel suo Diario: «Rubens, a più di cinquant’anni, durante la missione di cui fu incaricato presso il re di Spagna, impiegava il tempo che non consacrava agli affari, a copiare a Madrid i magnifici originali italiani che vi sono ancora adesso. Nella sua giovinezza aveva copiato enormemente. Codesto esercizio del copiare, trascurato dalle scuole moderne, era la sorgente di un immenso sapere.[…] Su questo era fondata l’educazione di tutti i grandi maestri. S’imparava dapprima la maniera di un maestro, come un apprendista impara la maniera di fare un coltello senza cercar di mostrare la sua originalità. In seguito si copiava tutto quello che veniva sotto mano, di artisti contemporanei o anteriori. Si era fabbricante di immagini, come si era vetraio o falegname. I pittori dipingevano gli scudi, le selle, le bandiere. I pittori primitivi erano più artigiani di noi: imparavano il mestiere prima di pensare all’arte. Oggi accade il contrario». De Chirico dipinse quadri, disegnò costumi teatrali, bozzetti per il cinema, pannelli per l’arredamento delle case, illustrò libri di vario genere, dall’Apocalisse a un manuale sui cocktail. Quanto all’esercizio dell’imitazione vs il culto dell’originalità, si spera che insieme al grembiulino uguale per tutti la maestra unica reintroduca il copiato, fondamento di ogni scuola.

Si sosti a lungo davanti alle sue opere: parlando un giorno di un concerto eccessivo, faceva un confronto tra le arti e pretendeva che la durata di una sinfonia si imponesse anche a quella della contemplazione di un quadro. «Io non credo che guardare per un’ora, con occhio di pittore e mente di filosofo, una grande e bella composizione di Tiziano e di Rubens, debba essere meno interessante e più noioso che udire per lo stesso tempo una lunga sinfonia». Un’ora dunque all’incirca. Anche perché qui Rubens è raddoppiato dalla interpretazione di de Chirico. E viceversa.

sabato 1 novembre 2008

I morti a passeggio per Roma

SONO QUELLI USCITI DAL SEPOLCRO DEGLI SCIPIONI E FINITI NEL LIBRO DI ALESSANDRO VERRI, NOTTI ROMANE. I TRAPASSATI, STUPEFATTI DALLA CAPITALE CATTOLICA, STABILISCONO CON I VIVENTI UN DIALOGO TREPIDANTE

Traduttore di Shakespeare, si apparenta a August Wilhelm Schlegel e ai romantici che scoprirono il drammaturgo inglese negli anni tumultuosi dopo la Rivoluzione, ma li precede di un quarto di secolo, per cui completamente settecentesco è l’italiano Alessandro Verri, ragionevolissimo giurista milanese che del suo secolo gustò il cosmpolitismo, l’erudizione, la curiosità, il riformismo garbato e la galanteria. Animatore del «Caffè», aiutante del fratello Pietro nella battaglia contro la tortura, gran viaggiatore per l’Europa negli anni giovanili, probabile zio di Alessandro Manzoni. Un giorno, nel 1767, approdò a Roma e vi si fermò per sempre. I maligni che vorrebbero cancellare la seconda parte della sua vita attribuiscono la scelta della città eterna, lontana dall’Europa dei Lumi, a una forte e lunga passione per la marchesa Sparapani Gentili, sposata Boccapadule, quasi che la relazione peccaminosa lo avesse trasformato in un apologeta della Santa Sede.

È difficile seguire i percorsi biografici che hanno troppi snodi, si preferirebbe incatenare Alessandro Verri al paragrafo ‘illuminismo italiano’, più moderato e concreto del francese – come viene definito nei libri di scuola. Ma lo scrittore milanese doveva ancora scrivere un libro fondamentale, tradotto immediatamente in tutte le lingue europee, trentasei edizioni in pochi anni, livre de chevet del papa e di Stendhal, voluminoso romanzo che rinsangua il classicismo e anticipa le immagini romantiche (finisce di scriverlo nel 1790), che fa risorgere il passato ma gloriando il presente come nessun altro moderno riuscirebbe più a fare, suscitando brividi notturni e paesaggi sentimentali ma incorniciando simili immagini in una severa architettura discorsiva. Soltanto l’astio politico dei risorgimentali poté far uscire di scena un’opera del genere e confinarla in una congiura del silenzio. Per loro era ormai impossibile catturare qualche sfolgorio del XVIII secolo.

Verri d’altronde si era stancato presto delle piccole beghe dell’epoca e aveva preferito i larghi orizzonti del cattolicesimo, cosicché non dovette essere molto stupito quando le truppe rivoluzionarie francesi invasero Roma e lo arrestarono. Il nostro Génie du Christianisme era già nel cassetto e si intitolava Notti romane. Vide la stampa nel 1804.

La disputa tra gli Antichi e i Moderni prima ancora di essere un brillante esercizio dialettico o la sistemazione gerarchica della storia dell’arte o della storia tout court, è un dialogo serrato e interiore con gli antichi, con i morti. I viventi si misurano con le ombre del passato, ricorrendo alla invidia o alla pietà o alla ammirazione o al disprezzo, ma sempre rivolgendosi a loro in quanto defunti anche se l’opera gli sopravvive. Spesso con la superiorità dei viventi su chi è già stato sconfitto dal tempo, e magari con il meschino orgoglio di aver visto di più rispetto a loro, di conoscere altri passaggi delle trame storiche, altre figure, novità clamorose, raramente soffrendo per la medesima incompletezza, per la condanna eterna a non saper mai come andrà a finire. Che cosa sono i revivals se non predilezioni per figure ed epoche che tentiamo parzialmente, provvisoriamente, di far risorgere? Mentre viene meno la fede nel paradiso della tradizione, si moltiplicano i tentativi culturali di resurrezioni, le teurgie artistiche, le innumerevoli apparizioni di fantasmi che dalla metà del Settecento in poi turbano poeti e pittori. Il classicismo si muove attorno alle tombe, e il bianco delle statue prescritto da Winckelmann suggerì a Furio Jesi un serio accostamento con i Vampiri. Qualsiasi tentativo di abbracciare l’antico finisce per somigliare al gesto doloroso di Enea nell’Ade che vuole stringere una Didone inafferrabile.

Nel Settecento le campagne europee lentamente si spopolano, l’orizzonte ciclico, scandito dalle stagioni che si ripetono incessantemente, si restringe. Se fino ad allora soltanto filosofi, poeti e politici si misurarono con il tempo lineare, adesso aumentano gli umani per i quali lo scorrere dei giorni diventa un problema. Perché stupirsi se, dinanzi all’incremento di coloro che si sottraggono all’eterno ritorno del ciclo rurale, alcuni gridano all’avvento di una forma nuova di cristianesimo, di una temporalità finalmente cristiana, dell’ingresso appunto del moderno. Prima o dopo, Antichi o Moderni, non è più una disputa intellettuale, ma una passione, una faziosità, una vendetta storica.

Sul finire del secolo, nonostante il culto dell’antico e le prime sotterranee attrazioni per il ‘primitivo’, si restava poi sconcertati dalla questione dei ‘selvaggi’, e quel fondo denudato e semplificato dell’umanità sembrava scuotere tutti gli artifizi con i quali la civiltà rorocò si agghindava. Nacquero pertanto le scuole comparatiste con operazioni opposte ai revivals e alle restaurazioni.

Quanto sarebbe illuminante trasporre nel rapporto con gli Antichi, o comunque con le epoche e gli stili che ci hanno preceduto, il meccanismo della rivalità dei desideri mimetici esposto da René Girard. Triangoli si instaurano infatti nella storia tra soggetti rivali rispetto all’oggetto del loro desiderio. Ci si innamora di secoli, opere e artisti, in gara con altri. Così si forma la borsa dei valori storici e stilistici, il saliscendi del classico, le gelosie che spingono a preferire Quintiliano piuttosto che Tacito. Ci si imbatte nelle maschere, ipocrisia o cortesia sono abiti mentali di cui una volta non ci si spogliava mai. Michelangelo, per esempio, che i romantici acclameranno come il primo dei geni, non avrebbe mai gonfiato il suo io alla maniera moderna e si presentava reverente verso il passato. Andrebbero poi aggiunte le considerazioni di Elias Canetti sui viventi che guardano a chi giace morto: ben si addicono alla questione Antichi/Moderni, quasi mai affrontata con la dovuta pietas.

Con il tono grave e fremente di Gaspare Spontini, Alessandro Verri allestisce dei tableaux vivants della Roma pagana. Ma quadro vivente suona strano quando gli attori sono dei morti che si addensano intorno al Sepolcro degli Scipioni, recente scoperta archeologica sulla Appia Antica. Con «uno spruzzo di Ossian», mescolando anzi sapientemente fantasmi di nordica origine con statue parlanti, tombe e rovine luttuose, gli spettri appaiono, meditano e parlano. Per centinaia di pagine, possiamo dialogare con Bruto, Cesare, Plinio o Cicerone. Le interviste che fa loro il vecchio giornalista del «Caffè» accostano antico e moderno, rendono più corti i millenni, distruggono l’aura della superiorità inarrivabile, riconducono al muto dialogo sulle tombe tra figli e padri. La Roma archeologica che sta venendo fuori sulla scia di Pompei ed Ercolano, città di morti e di «fori cadenti», viene ripopolata nelle «notti» di Verri. Preannunciando, con maggiore grazia, il filone storico che si accende in Gli ultimi giorni di Pompei – quadro del russo Brulov prima che romanzo inglese – e i sounds and lights della spettacolarizzazione completa per masse feticiste, le Notti romane mandano bagliori in Europa e familiarizzano il pubblico agli antichi: i nostri morti. Verri parla con loro dei problemi del suo tempo, modernizza il mondo antico come esige il cristianesimo.

Ma, come nell’oltremondo dantesco, alcune anime si accostano all’uomo ancora vivo che sta narrando e chiedono dalla loro prigione temporale: «Rimane ancora pietra della nostra città? N’è spenta o vive la memoria? Galleggia sul diluvio de’ secoli alcune insegne di lei?». La risposta rinvia a un’ennesima variazione del mito della Roma cristiana: «Vive Roma immortale, onorata, splendida per altro modo…» (Notti romane, Laterza, 1967, p. 143). Se alla vigilia del Rinascimento i papi progettarono la costruzione sul Tevere della nuova Atene e insieme di una seconda Gerusalemme, o per alcuni sensibili alle sirene della letteratura pagana si trattò di un nuovo Olimpo per il vicario del Dio, adesso, alla luce della scienza archeologica e delle filologie di ascendenza illuminista, si tratta di ridefinire la superiorità della Roma cattolica. La peregrinatio pictorica di marca romantica, sembra corroborata dalle pagine di Verri. Non è detto che i singoli artisti le abbiano meditate, però quel messaggio circolava ormai in Europa, era il modello da contrapporre alle capitali che volevano rubare il primato romano, anzitutto la Parigi imperiale. «Roma, l’ultima capitale della resistenza alla modernità» per polemica politica, Verri la disegnava con tratto molto moderno.

Girano allora per la città i morti, e si compiacciono che sia ancora in piedi, ordinata e regale come quella che lasciarono. Una piccola folla di fantasmi curiosi che si interrogano sugli eredi, strani e inimmaginabili, come sempre agli occhi degli avi. Città ormai morta, era il giudizio arrogante dell’Europa post-rivoluzionaria nei confronti di Roma, ma i morti si agitavano ancora per l’urbe, in un dialogo trepidante con i viventi.

Una battuta che gioca su un piccolo equivoco introduce la seconda parte del libro, l’apologia della Roma dei papi, nata «sulle ruine della magnificenza antica». In uno dei giri per la Roma notturna, questi morti illustri leggono sulla facciata del palazzo berninian-borrominiano di piazza di Spagna la scritta «Collegium urbanum de Propaganda Fide» e pensano ce ne sia un altro rurale perché nel loro Ade non è giunta eco della fama di papa Urbano Barberini. Il narratore coglie la palla al balzo per lanciarsi in un elogio della Roma cattolica. Con tono solenne, spiega che se ai loro tempi Roma «la ampliaste dall’oceano agli indomiti Parti», l’Impero «di questa città ora si diffonde su tutta la terra. A lui chinano la fronte gli antipodi ignundi entro le selve nate col mondo, a lui si prostrano nazioni potenti e separate dal mare immenso. Qui giovani alunni d’ogni regione della terra, di lingua, di costumi, di sembianze diverse, ma di conforme disciplina sono nodriti a questa sublime proponimento di propagare nell’universo, a qualunque cimento, le celesti dottrine di pace, bandire dal mondo le atrocità selvagge e i vizi distruggitori» (p. 257). Commosso elogio dei missionari e della loro epica. Verri sembra finalmente dare corpo all’universalismo che nei furori illuministi di gioventù restava ancora astratto.

Cicerone si meraviglia dei nuovi romani che civilizzano più in profondità di loro, che vogliono addirittura estirpare la violenza dalla terra. Ma come è possibile, subito si discute, un impero senza violenza? Tutti gli Stati sono fondati sul sangue e nella scelleratezza vivono e si ampliano: torna la vecchia critica illuminista e non si fa abbindolare dalla virtù esibita dai giacobini né si lascerà conquistare dalla maestosità del bonapartismo o dai nazionalismi romantici. Agli occhi di Verri solo lo Stato teocratico è esente dalla colpa originaria, liberato dal peccato umano. «D’imperi fondati con violenze fortunose è piena la storia più che non comporta la felicità delle nazioni. Questo invece è il solo nato dalla utilità, cresciuto dal consenso, confermato dalla persuasione» (p. 258). Benché sia considerato uno strenuo difensore dell’altare e del trono, Verri è figlio dei tempi e immagina un cattolicesimo fondato sul consenso, ormai lontano dalle inquisizioni.

Ascoltando l’annuncio della Roma papale, i fantasmi dei tiranni «stringono lo scettro ancor più pallidi»: una sovversione mai vista nella storia antica ha ormai preso il potere. Bruto, il parricida per fini politici, non si capacita: «dove fu mai una podestà forte senz’armi?» (p. 259). Non si può bloccare una politica spregiudicata e anticristiana quando vuol passare alle vie di fatto ed esercitare la violenza. Perciò le teorie dei philosophes finiscono coerentemente nella coscrizione obbligatoria: dove si è mai visto – come dice Bruto – un potere forte disarmato? Il classicismo romano di cui si orna Robespierre come Napoleone sta a simboleggiare anzitutto la fedeltà alla antica violenza. I fasci littori sembrano chiudere la lunga parentesi della croce.

L’impero senza violenza cantato da Alessandro Verri appare un po’ semplificato, dimentico per esempio delle virtù guerriere di Giulio II, insomma angelicato come certa pittura romantica. Sembra che per distinguersi dalla violentissima epoca si debba ricorrere a una idilliaca età dell’oro pre-rivoluzionaria: «Non littori, non verghe, non scuri, non mannaie, ma lealtà, candore, modestia, consiglio fanno chinar la fronte de’ potenti senza viltà e trionfano del cuore» (p. 259).

Al termine di aspre discussioni e di interventi di fantasmi plebei che schiamazzano di fronte alla sofisticata stravaganza dell’impero non violento, prende la parola Cicerone per offrire al nuovo pontefice massimo la sua arte oratoria: «Esulto perciò veggendo questa patria fiorire eterna, quasi mezzo perpetuo scelto dalla provvidenza del cielo ad eseguire le più meravigliose vicende della terra» (p. 273).

Una terza parte, rimasta inedita fino a pochi anni fa, accentuava la cordialità del colloquio con le ombre del passato. Verri provava a raccontare con parole loro quel che era accaduto sulla terra negli ultimi millenni, esercizio con cui tutti coloro che vogliono sistemare la storia e la civiltà devono fare i conti. Perciò non spiega il Vangelo alle ombre, casomai prova a dire il cristianesimo secondo i canoni classici. Cicerone nota la contraddizione tra la pratica del duello e i princìpi non violenti del nuovo impero. Vecchia tecnica illuminista per satireggiare le incongruenze dell’Occidente: i selvaggi di Montaigne, la Cina dei teisti, i persiani di Montesquieu servono tutti a produrre lo straniamento del nostro mondo.

Mentre Cesare si interessa alle battaglie risolte con la polvere da sparo e Orazio trova ridicolmente barbari i nostri costumi, come pretende il relativismo, Plinio prende a parlare delle mode culturali centrando la questione che bolle nella pentola di quel fine secolo: «Ben tu vedi che nel mare delle umane discipline quasi ogni secolo spinge la sua onda, la quale seco trae le opinioni di ogni intelletto. E però, or l’una o l’altra veggiamo affermarsi per certa, e pentirsi la presente generazione di uomini, e beffarsi eziandio delle dottrine degli avi loro, e poscia i posteri loro pentirsi, ricredersi, beffarsi delle scienze de’ loro trapassati. La qual vicenda può dirsi essere stata finora perpetua, e però io non so se ella debba aver fine per le vostre scienze presenti…» (p. 291). Bella battuta, che risuona assai ironica nel momento in cui si accavallano tutti i ritorni indietro, le fughe a precipizio in avanti, le restaurazioni massicce. Già, il cristianesimo metterà fine ai corsi e ricorsi? Il Lukasbund era abbastanza idealista per credere che la loro arte avrebbe ridato all’umanità la pittura sacra delle origini in un nuovo corso teleologico della storia. Metternich si accontentava di rallentare la corsa folle all’innovazione, appena un freno, una pausa, per non essere inghiottiti dalla demagogia.

Le insegne dei romani antichi, l’aquila e il titolo di «re e imperatore de’ Romani» splendono ora nelle terre tedesche; dove un tempo c’erano barbari, ora uomini «formidabili e bellicosi» (p. 391). Sarebbe piaciuto ad alcuni romantici tedeschi una simile pagina, rimasta inedita, che univa i «due Soli».

Conclude Cicerone: «Tu mi fai lieto, o postero, imperocché intendo per la tua narrazione che questa mia patria cambiò con le vicissitudini del tempo e della fortuna i modi ma non l’oggetto dell’Imperio universale» (p. 387). E ripete il concetto: tutti gli Stati sono macchiati dal delitto, la nuova Roma è nata per offrire paterna protezione ai popoli abbandonati dal principe, ma poi crebbe così tanto che «la sola voce degli oracoli suoi disperse e congregò a suo talento gli eserciti, eresse i troni, li rovesciò, franse le corone e gli scettri[…]; fece chinare la fronte a’ re ai piedi suoi…» (p. 387). Già il primo discorso pro Roma cristiana di Cicerone fu censurato nella edizione francese. La veemenza della terza parte di Notti romane restò nascosta a tutti.

Sono trascorsi pochi decenni dal viaggio in Italia goethiano, quando la capitale dei papi è ancora (o comunque appare) saldamente classica. Intanto, si sono scatenate in mezza Europa le manie funerarie e l’arte del lutto. Gli antropologi si accorgono oggi della più impressionante ‘invenzione di una tradizione’: durante la Rivoluzione francese, si prende a pensare la morte come nessuna creatura aveva mai fatto finora e nascono nuovi riti per congedarsi dai defunti. L’arte dell’epoca sarà una eco fedele della grande liturgia laica per la sepoltura. Arte funeraria fu infatti per gran parte e per tonalità quella dell’epoca, carattere luttuoso che sovrintende allo stile neoclassico come al romantico. Persino i cimiteri furono sottratti, dall’ordinanza napoleonica, all’ombra del campanile, e ridotti a musei etnografici dell’Occidente, con le masse di mummie senza più un’anima. Monumentalità in onore della morte. Nessuna pompa funebre barocca fu così sconsolata. Struggenti appaiono i richiami alla sapienza antica, ai segreti egiziani, ai muti segni etruschi, alle parole stoiche, alla araldica massonica. Risuona grave la facile profezia di Novalis: «dove non esistono gli dèi governano gli spettri».

Verri lo aveva preceduto nel rappresentare la città che stava sfuggendo dalle mani dei papi – dopo circa duemila anni di quel dominio – in una necropoli ricca di morti celebri e fantasmi, che deve giustificare ogni suo gesto presente davanti agli avi, davanti a quel tribunale sotterraneo. Somma blasfemia, si potrebbe dire, quella di Verri e poi di Chateaubriand (e infine di tanti altri): contagiare la capitale classica con le manie nordiche dei fantasmi. Un giorno Savinio scriverà divertito di una «poetica necrofilia»: «gli Anglosassoni mancano spesso di realismo poetico, ignorano i valori poetici presenti, e li trasferiscono perciò in un mondo lontano, oscuro e incontrollabile come la Morte». Aggiungendo in nota: «Alla predilezione della morte si aggiunge la predilezione per gli spettri, i fantasmi, lo spiritismo». E spingendosi a dire: «André Suarès non ha mai preso sul serio il dolore e la morte. Nostra superiorità morale sugli Anglosassoni, nostro classicismo. Fanno eccezione Dante e Leopardi» (Ascolto il tuo cuore, città). E Verri? È una eccezione dimenticata o resta un classico che muove straordinari fantasmi classici?