mercoledì 11 maggio 2011

La teologia del giustiziere

~ PARLA LUTERO ~

Il nostro breve «West puritano» del 2 maggio ha provocato qualche equivoco. Scritto a caldo subito dopo che il premio Nobel della Pace e presidente statunitense (considerato dalle sinistre mondiali l’uomo messianico del nuovo evo) era riuscito a rintracciare il capo della maggiore sètta degli assassini e a fargli conficcare una pallottola nella nuca, si soffermava sulla grande festa della vendetta in corso nelle città americane. Nel frattempo però qualcuno, soprattutto in Europa, seminava dubbi, si impantanava nei distinguo e diffondeva nei nuovi media interrogativi assai ipocriti; l’«Almanacco», non amando affatto il basso continuo dell'accerchiamento complottista, è costretto a precisare e ad articolare meglio il senso di quel commento, che era rivolto essenzialmente ai nostri neo-puritani: vedete, italici moralisti, che vi travestite da gente del Nuovo Mondo, da sceriffi con la Bibbia in mano, gli uomini del West non sottilizzano troppo, bianco e nero, bene e male, quando si scova l’assassino, nella terra dei protestanti dalle ombre nette, lo si impicca senza tante storie e sentimentalismi. Nel puritano c’è sempre un giustiziere e il giustiziere nasconde sempre un animo puritano. L’epica del ‘western’ canta la virtù dell’implacabile vendicatore. I papi, invece, mandavano sul patibolo eretici e criminali, talvolta li bruciavano vivi, ma su quel palco fino all’ultimo si prodigavano confessori e predicatori, provando a convincere il reo a pentirsi e a guadagnarsi il paradiso, a salvarsi, a santificarsi perfino. C’è chi troverà ripugnante una simile procedura ma non si può negare che la pena capitale così proposta è ben diversa, anche nel significato oltre che nella forma sontuosa, dall’ammazzamento del cane rabbioso di cui parla Lutero.

Basta rileggere gli scritti luterani sulla Guerra dei contadini, tra i più introvabili, soprattutto in traduzione italiana, per afferrare il nesso moralista/giustiziere. Quelle parole, incrudelite ulteriormente dal rigore calvinista, penetrarono tra i migranti che si andavano costituendo nella potentissima patria della democrazia. Conviene riportare qualcuna di tali espressioni aspre: quando si invoca il massimo rigore verso le umane debolezze nello spazio pubblico, la pena di morte è necessariamente tirata in ballo.

Premetteva dunque Lutero che «Dio vuole temuta e onorata l’autorità, anche se fosse pagana e compisse solo ingiustizie…» (qui e nei passi seguenti, citiamo da Lutero, Scritti politici, Utet, 1949). Punto importante, che illumina sulle responsabilità luterane nel piegarsi ai peggiori tiranni, anche recenti (con le solite, luminose, eccezioni), mentre il cattolicesimo, sempre vituperato e calunniato, propagandava il tirannicidio, la facoltà di ribellarsi al sovrano che conculcasse il diritto naturale. Ma torniamo all’ex-monaco che inveisce contro le schiere «col pugno chiuso», contro i contadini eccitati dalle sue parole incendiarie, equivocate a sentir lui, e perciò «meritevoli della morte del corpo e dell’anima». Nel suo pamphlet Contro le scempie e scellerate bande è detto a chiare lettere: «contro chiunque sia sedizioso in modo manifesto ogni uomo è a un tempo giudice e carnefice, giusto come, divampando un incendio, migliore è colui che per prima lo spegne». Ecco la teologia del giustiziere, la giustificazione di chi che giudica l’errore fatale del prossimo e allo stesso tempo si autoproclama boia nella solitudine dell’emergenza. «La sedizione infatti non è sola malvagia criminosità, bensì un gran fuoco che incendia e devasta un paese; perciò essa porta con sé strage e sangue, molti rende vedove e orfani e tutto distrugge come la più tremenda delle piaghe. Per la qual cosa chiunque lo può deve colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto, ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico d’un sedizioso, giusto come si deve accoppare un cane rabbioso, perché se non l’ammazzi esso ammazzerà te e con te tutto il paese». L’eretico irato che è poco esperto di mondo lancia il suo proclama senza mediazioni, senza buonsenso politico. E questo invito alla carneficina in nome di Dio e in difesa della comunità diviene legge del Moderno. Egli si sente in dovere di «insegnare alla autorità secolare come condursi con giusta coscienza in questo frangente». In ultima istanza, l’autorità civile ponga mano alla spada, ché «se non punisce e non pone rimedio, non adempiendo così al suo ufficio, pecca altrettanto gravemente di uno che uccida […]. Per la qual cosa non è ora il tempo di dormire o di usare pazienza o misericordia: questo è il tempo dell’ira e della spada. […] Un principe spargendo sangue può guadagnarsi il Cielo meglio di altri pregando». Lo sfondo apocalittico che si scorge in queste righe accentua il carattere di aut aut, il motto protestante. La politica non deve conoscere sfumature come sempre succede quando il puritanesimo, con il suo orgoglio di essere ‘dalla parte giusta’, fa perdere ogni senso delle dimensioni.

Più tardi, in una lettera a un amico, commentava così le reazioni scandalizzate, anche nella sua cerchia, all’opuscolo violento: «Non voglio sentir parlare di misericordia qui, ma badare a quello che vuole la parola di Dio». Spaventoso, allora, pensare che con il sacerdozio universale ogni uomo poteva farsi interprete della parola divina, della sua recondita volontà, e quindi procedere senza misericordia. «Il regno della terra – spiegava Lutero – è un regno d’ira e severità perché non fa che punire, vietare, giudicare e condannare, per tenere a freno i malvagi e proteggere i buoni». Più tetro della visione di Hobbes, questo è il mondo protestante. L’umanesimo si tinge di apocalittico lutto. Guai, secondo il neo-cristiano sassone, a confondere il regno celeste con quello terreno. A Roma, però, anche per l’arte, floridissima in quel tempo, il regno dei Cieli talvolta si intravedeva nella vita quotidiana, in squarci che rallegravano molto.