lunedì 24 dicembre 2012

Natale 2012

In una lettera abbastanza nota di Ivan Illic al suo amico Helmut Becker, direttore dell’Istituto Max Planck di Berlino, il pensatore viennese scriveva queste belle parole: «nell’occasione del tuo settantesimo compleanno celebriamo l’ amicizia che ci permette di lodare Dio per la realtà sensibile del mondo». L’astrattismo d’ogni sorta, non solo l’arte senza figura, i corpi senza più genere, il pensiero svolazzante sul nulla, la religione svuota mente, la morale senza Inferno e Paradiso, il virtuale onnipresente, insomma tutti gli idoli del nostro tempo sono immiseriti dalla superba scena dei presepi: la nascita del divino nell’umano che si riflette nel povero mondo, che lo illumina, lo nobilita, lo rende attraente. Ai giorni nostri poveri d’arte anche queste messe in scena ingenue, ‘balocchi liturgici’ come si diceva un tempo, testimoniano di una rappresentazione possibile: il mistero si fa visibile attraverso il terrestre, il contadino, il comico, come attraverso il sublime degli angeli, lo spirituale celeste, e in mezzo c’è il puer divino, la scena del parto, la coppia dei genitori viandanti, l’animalità della stalla, lo splendore dell’astro speciale. Niente è più sensuale del cattolicesimo, e il Natale, la festa dell’incarnazione, lo è per eccellenza.

Ricordava Giovanni Pozzi: «L’incarnazione del Verbo è il fondamento teologico sul quale l’immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Damasceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibile, argomenta che, da quando l’incorporeo è diventato uomo e l’invisibile s’è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l’invisibile, l’incorporeo; Teodoro Studita vi aggiunge una nota mariana quando prospetta che dal momento che Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre; perciò se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non dalla madre. […] La parola descrive il Verbo, l’arte figurativa il ‘factum est’ della carne».

Se nella nostra epoca manca l’arte ci dovremo accontentare del presepio. Lì comunque splende quella luce che non ha niente a che vedere con gli isterici scintillii venduti nei negozi cinesi, prossima piuttosto alla lux perpetua che auguriamo ai nostri morti.

domenica 16 dicembre 2012

Florilegio

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ ULTIMA PUNTATA ~

E per finire il ricordo di Giuseppe De Luca in cinque puntate, un florilegio di frasi e di raccontini: la passeggiata al Gianicolo che sfiora la felicità, facendo venire in mente una pagina di Stendhal che in quel medesimo luogo scoprì la luce romana che quietava il tempo; l’insistenza sul punto essenziale che la salvezza non viene dalle soluzioni della questione sociale, come si ingannavano invece molti preti del suo tempo; le poche righe in cui riassume la letteratura e le arti di fronte alla modernità; e le singole battute che restano impresse. Abbiamo rubato, anche nelle puntate precedenti, tante citazioni al libro della Morcelliana ma siamo sicuri che la casa editrice non se ne adonterà. Capisce bene che questo antipasto di un volume peraltro fuori catalogo fa venire voglia casomai di leggerlo tutto e stimola curiosità per la figura del prete lucano che, a cinquant’anni dalla morte, è così presente tra noi.

«Meglio sempre parlare che scrivere; se non che, via via che ci s’invecchia, anche a voler discorrere, non si trova più con chi farlo. Non ti dà retta nessuno».

«Una volta, la poesia portò il nome di ‘gaia scienza’, nome inventato per essa. Altro che gaiezza, oggi! oggi i tossici della disperazione più nefasta, più nefanda, li si vende in quei barattoli che si chiamano volgarmente romanzi, novelle, poesie».

«Fa caldo. Il medico mi ha detto che mi ci vuole del moto. Debbo fare del moto; non ci credo, son certo anzi che non mi serve a nulla; faccio tuttavia del moto. Non è che disistimi il medico, no; disistimo, piuttosto, la medicina. Meglio, non ci credo. Credo in Dio, Padre onnipotente, ecc. ecc., tutto il credo; ma a credere nel resto, ci vado piuttosto cauto, cum juicio. Non credo che il sole faccia bene, che il mare giovi a nulla, che la montagna aiuti, e così via. Sarà, io non ci credo. Per me, sono ubbie. Come girano gli astri, così girano le pazzie degli uomini., che hanno anch’esse un loro corso, un loro zenit, un loro nadir. Debbo fare del moto. E lo faccio. Mi sono accorto che, a mia piena disposizione, è per esempio il tratto che va dal Fontanone del Gianicolo sino al Faro. Un piacere da sovrano. C’è chi spazza i prati, chi bagna i viali. Ci sono le guardie, ci sono i bambini, ci sono gli innamorati, ci sono dei busti di gente per bene. Ahimè, come son brutti, quei busti! e pensare che i busti di ignoti al Museo Capitolino hanno l’altezza, la potenza, il volto nell’aria dei monumenti equestri più celebri. Sembra un quadro animatissimo e un po’ frenetico del Breughel. Ci sono le variazioni inesauste dei verdi innumerevoli, le gradazioni morbidissime delle ombre e delle luci, le fisionomie staccate e dolci dei singoli alberi, tanto più affabili delle fisionomie nostre di uomini, macchiate tutte e intaccate dalla lebbra lieve ma visibile del peccato comune. Quando ci si incontra, noi uomini, non ci si vuole nessun bene; certamente, non ci si fa nessuna festa. C’è un’aria dolce, che ha qualche mutamento in sé e a volte scompiglia la tonaca e la sopportazione. C’è un cielo, un cielo, che in ogni momento è uno spettacolo nuovo; cambia di scena, di personaggi, di voci. E c’è, tutta per me, come Dio e come il cielo, come la Grazia, la poesia, c’è, soltanto ad affacciarsi, e per affacciarsi basta volgere un poco il capo, c’è Roma».

«Annientarci, per lo meno di rossore, soprattutto quando, di fronte alla nostra improntitudine, potesse sorgere, non dico il pianto della Chiesa, ma il turbamento anche di un’anima sola. La Chiesa è la Chiesa, non piange per così poco; purtuttavia sant’Ignazio si faceva scrupolo, quando si parlasse della Chiesa, persino di pronunziare la parola ‘riforma’, pur nel migliore dei sensi, col migliore dei sentimenti. E sant’Ignazio ci è stato ed è, coi suoi figli, più intrepidi e perciò più trepidi, un maestro del ‘sentir con la Chiesa’, un maestro dell’amare come dev’essere amato colui che tien le veci tra noi del Signore».

«La gente di poco comprendonio spirituale fa consistere tutti i peccati in quello contra sextum».

«L’economia è una bella cosa, una cosa grandissima nella nostra vita; si ebbe un torto pazzo a non accorgersene tanto prima, ma è e non può essere tutto. Non dico una passione d’amore, non dico un momento di poesia; ancor meno voglio nominare Iddio, la sua grazia, la sua gloria. Non dico un piacere, un dolore, la morte. Dico il sorriso subitaneo di un bambino, il rannuvolarsi doloroso d’un volto d’uomo, una voce smarrita in una sera deserta. Son tutte cose, codeste povere cose, le quali colpiscono più a fondo il cuore dell’uomo che non tutta la sua stessa fame. Aver ridotto per intero (ripeto, per intero) la nostra vita a una faccenda essenzialmente economica, è proprio la risultante che ci meritavamo, di un’epoca intesa soprattutto all’industria e ai commerci. La rivoluzione contro il capitale è la ribellione di una figlia al padre».

«Roma come paradiso terrestre delle anime».

«Non la Chiesa e la fede cristiana se ne andava, se ne andava la civiltà. Una barbarie apocalittica si ammassava alle porte, progrediva lenta ma certa come un’ardente lava. Gli scrittori più vivi sembravano altrettanti centauri impazziti erravano ora muti ora urlanti per la foresta: foresta, so bene, di cattedrali, di palazzi regali e patrizi, di torri campanarie o del comune, di biblioteche, di città intere che sono tutte un museo, di paesi che sono altrettanti gioielli: foresta, dico, invasa da sciami d’insetti, vale a dire dalle torme e masse vive di ideucce balorde e brillanti, disperate e spiritose, che negavano tutto, sporcavano tutto, ferivano tutti, abbrutivano ogni momento dell’uomo, facendone a sua volta un sudicio insetto, un verme lugubre, una bestia insomma, bestiola o bestione che fosse. Quegli immani e inumani centauri che riempivano della loro voce l’Ottocento, non si tacquero un istante, e la loro voce ancora oggi è a volta a volta un incanto o uno sgomento».

«L’autorità politica di regola vien sostenuta in teoria da chi non riesce in pratica ad esercitarla, e nemmeno ad ottenerla; viene invece negata in teoria da chi, in qualsiasi modo, riesce sempre a impadronirsene, e la esercita, e come la esercita!».

martedì 11 dicembre 2012

Sorella Falciatrice

~ PICCOLE VOLGARITÀ
IN UN CONCORSO MINISTERIALE ~

L’acculturazione forzata («obbligatoria») delle masse produce tra gli altri danni la diminuzione degli artigiani, di coloro che conoscono l’arte di usare le mani, a vantaggio di milioni di laureati, e in discipline che mal si conciliano con la massificazione, specialisti in chiacchiere mediocri che, per forza di cose, finiscono con il nutrire e ampliare a dismisura la burocrazia. Quanti lavori si inventano per far contenti i dottorini senz’arte, quanti uffici e consulenze generati da fantasie barocche e di cui la ragione umana non si capacita neppure. A governo supremo di simili elucubrazioni ‘per mangiare’, c’è un ministero denominato, a seconda del narcisismo dei politici regnanti, della Cultura o dei Beni e Attività Culturali, come si chiama adesso in un trionfo di maiuscole. E parte da questo ministero un concorso, bandito insieme alla «Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio» (per ogni ridicola maiuscola chissà quanti impiegati e consulenti e fondi e uffici e pause caffè e viziosi ghiribizzi finalizzati a partorire eventi), onde ricordare Francesco d’Assisi. Un «concorso artistico» riservato agli studenti d’arte che invita i ragazzi a cimentarsi con Giotto per mettere in scena – «con ogni mezzo espressivo», naturalmente, in primis le installazioni – la figura del frate medioevale. Una lodevole iniziativa per esaltare la santità dell’imitatore di Cristo? No, una sciocchezza. Il ministero, indirettamente il ministro già rettore dell’Università cattolica, chiede agli studenti d’arte di celebrare la gloria di Francesco come «primo pacifista ed ecologista, attuatore di un’esperienza di vita basata sui principi di estrema semplicità e sostenibilità, il primo trekker moderno». Testuale. Una siffatta banalità non nasce nelle chiacchiere di ragazzotti sul tram ma in un ufficio apposito dove si affinerebbe il miglior spirito italico.

Si sbagliavano, dunque, santi e papi nel corso dei secoli, non si trattava di uno che voleva incarnare il Vangelo radicalmente ma di un ‘pacifista’, un politicante senza princìpi intimorito dalla violenza; si sbagliava Dante, che faceva intervenire Tommaso d’Aquino a prescrivere per tutto quanto riguarda questo santo speciale - se qualcuno «proprio dir vole» - che si ricorra a termini preziosi. Il sommo domenicano, da parte sua, nel canto XI del Paradiso dantesco, canto che un tempo si mandava a memoria nei licei della penisola, lo chiama «patriarca», «santo archimandrita», l’amante della Povertà cristiana atteso da «millecent’anni e più», «la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe». Non sapevano quei poveri ingegni, quasi contemporanei suoi, che l’esperienza francescana si basava sulla sostenibilità ambientale, sul business dell’ecologia, magari anche nella versione ante litteram di paladino del global warming piuttosto che di araldo della croce. Non sapeva il poeta che il Serafico era semplicemente uno che faceva trekking, un escursionista, uno che pensava «modernamente» al benessere corporale dunque, magari con adeguato equipaggiamento (peccato che lordasse ogni cosa con quel sangue colante da mani, piedi e petto, un trekker che lasciava dietro di sé una rossa scia). Così, la natura per il Poverello era – secondo i burocrati compilatori del concorso – una disneyana armonia, leggermente diversa dalla fondamentale concezione cattolica che vede nel creato il suggello di Dio, ragion per cui anche «sorella morte corporale» è da lodare. I promotori del concorso su un Francesco un po’ zen capiranno forse il paradosso francescano solo quando a contatto con la terribile Falciatrice proveranno a chiamarla sorella, a considerarla pia, e vedranno che non è facile senza il Vangelo, certamente più arduo di un’arrampicata in montagna.

venerdì 30 novembre 2012

I disastri del poeta

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ QUARTA PUNTATA ~
~ I POTERI DEL LETTERATO ~

Viviamo nell’epoca in cui tutti i capricci dell’artista o di colui che si ritiene tale sono un dogma per il pubblico e per la critica. Al punto che le scempiaggini estetiche diventano facilmente e rapidamente un modello etico e perché no anche politico, insomma un modello di vita. La brutta usanza, introdotta da Zola, degli appelli firmati dai letterati, quasi avessero dei privilegi anche in campi diversi dal loro orticello dove si coltiva la scrittura, è amplificata ogni giorno di più, quasi che i facitori di versi fossero i padri della patria. Diffidare delle cause che si appoggiano alle raccolte di firme, alle passerelle dei piccoli narcisismi, è un indizio di saggezza. Don Giuseppe De Luca che fu grande amico dei letterati suoi colleghi e degli artisti in genere non li ingannò mai con servilistica e consolatoria prosa. Preferì spiegare loro, come in questa pagina, i limiti del poeta, travolti tragicamente dal caos del romanticismo.

«Alessandro Manzoni sapeva benissimo quel che un poeta può fare, e fa di fatto, e quello che invece non può fare, e se si mette a fare son disastri. Allorquando nei Promessi Sposi egli parla dei consigli di poeti, e consigli dati dagli uomini che sono al potere, egli sorride, e non certo ironicamente. Il Manzoni conosceva la responsabilità umana della poesia, ma credeva poco alla sua efficacia nella diplomazia e nella politica negoziata. Il poeta può mutare la faccia del mondo, ma non può dare un parere sensato.

Un uomo, invece, che si rendeva scarsissimo conto di quelli che erano i risultati pratici di ciò che diceva per lo meno nei vari settori della vita in comune oltre che nel segreto dei cuori, e perciò poté, con poco e con le migliori intenzioni, combinare guai enormi e dare adito a rancori insanabili, dico il Tommaseo, partecipò in pieno la persuasione del secolo romantico, che i poeti, non soltanto avevano tolto di seggio i sacerdoti e gli storici e i filosofi, ma persino gli uomini di governo e i sovrani. Erano i ‘superuomini’ in atto». (da Bailamme, Morcelliana, 1963, p.3)

venerdì 23 novembre 2012

Risate proibite

~ UN PECCATO DEL NOSTRO TEMPO ~

I paesi di cultura cattolica hanno perso il gusto di ridere. Un’altra trasformazione antropologica. Rigidi, gravi, arcigni e timidi come liceali di un tempo annuiscono – uomini e donne, giovani compresi – a ogni presunta novità con la diligenza di tedeschi luterani, senza più ricorrere alla loro antica arma: un beffardo cachinno per sanzionare le offese al buonsenso.

Un buffone di corte si mette in proprio e in milioni accorrono a dargli credito, non per spirito gregario del carnevale – che già sarebbe comprensibile e allegro – ma fingendo addirittura il ricorso all’etica. Una mascherata di indignati.

Né si ride sonoramente di chi armeggia ancora intorno al termine ‘progressista’, parola che dovrebbe suscitare al solo pronunciarla una ilarità irrefrenabile.

Manca il sacrosanto «riso della donna tracia» di fronte ai pensieri che si autoproclamano debolucci e alle persone senza qualità che si autoproclamano artisti. Queste investiture sono burle boccaccesche per far soldi, atte a suscitare la riverenza dei più ignoranti e dei più trucidi.

Addirittura proibito è il riso per coloro che vogliono convolare a giuste nozze con lo stesso sesso, come già si pretendeva al tempo della Roma imperiale, provocando però i lazzi di Giovenale. E non si dovrebbe certo irridere la passione, che può essere perversa quanto si vuole, così come è pieno di anfratti il cuore umano, ma la richiesta che lo Stato metta il naso negli affari di letto onde ricavare pensioni e diritti che una volta si sarebbe bollati con l’epiteto di «piccolo-borghesi».

E come non ridere per i vecchi rivoluzionari che aizzano figli e nipoti alla conquista del posto fisso, trovando lo stato precario, la fluidità dell’esistenza, la potenzialità infinita, un modo atroce di condurre l’esistenza? Si tirano le pietre contro i poliziotti per infilarsi nell’ergastolo del lavoro sempre uguale, con il «fine pena mai» ottenuto attraverso lotte sindacali, a vita, salvo quando interviene la grazia della pensione nell’età decrepita.

Flaubert – lo ricordava Citati sul «Corriere» l’altro giorno – scriveva a un amico: «la giustizia umana è per me quello che c’è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà…». Impietosi e tristi, molti nostri contemporanei, comici e politicanti, scrittori e lettori, si inebriano della giustizia umana, celebrano i magistrati come nuovi sacerdoti, hanno fede nei giudici che mettono a posto le cose.

Delle faccende grottesche del mondo Flaubert farà compilare ai suoi due copisti un dizionario che sferza gli sforzi degli intellettuali e la prosopopea della ‘cultura’, provocando le vertigini per il numero di voci cui potrebbe dar vita. Il grandguignolesco Léon Bloy tentò il seguito con la sua Esegesi dei luoghi comuni su cui i nostri Giuliotti e Papini si esercitarono in una specie di appendice vernacolare, il Dizionario dell’omo selvatico. Adesso simili dizionari enciclopedici, che provano a raccogliere l’umana idiozia, incontenibile come la divina sapienza, non producono nemmeno un sorriso bensì timore e tremore per il rischio di oltrepassare il lecito comportamento previsto dal bigottismo politico.

sabato 17 novembre 2012

L'anacoreta salottiero

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ TERZA PUNTATA ~
~ UN COMMENTO A DONOSO CORTÉS ~

I rari lettori dell’«Almanacco romano» ricorderanno forse quel lungo articolo che qui fu dedicato al politologo e filosofo spagnolo che alle soglie della modernità sapeva districarsi nelle trappole romantiche, riproponendo un’apologia del cattolicesimo. Un racconto ben più colorito e vivace è quello che esce dalla penna di don Giuseppe De Luca.

«Donoso Cortés fu un poco il Byron del cattolicesimo spagnolo nel primo Ottocento, e segnò il favoloso incontro, il mostruoso connubio, in pieno secolo dei lumi, d’un clamore alla Savonarola e d’un acume alla Machiavelli; il D’Ors parla addirittura di caldo e di freddo.

Morto di quarantaquattro anni a Parigi, la sera del 3 maggio 1843, egli era stato, con una precocità che a riflettere mette paura, tutto quanto un uomo di valore può desiderare o temere di essere. Laureatosi di diciannove, a ventott’anni passava di già per un uomo politico tempestoso e temuto. Appena ventiquattrenne aveva perduto la moglie e l’unica figlia. Via via professore, scrittore, oratore, ambasciatore, parlamentare, ministro, presente a Parigi del pari che a Vienna e a Berlino, non appena apriva bocca in pubblico tra un rombo di parole e un volo di frasi, toccava felicità inaudite che nessuno si sarebbe attese da così impennato parlatore: felicità di storico e contemporaneamente, oggi possiamo dirlo, a cose avvenute, di profeta. In nessun altro secolo come nell’Ottocento, ciarlataneria e genio si sono accompagnati più di frequente e con maggior fortuna […].

Studiosi delle dottrine politiche, storici della rinascita cattolica nella vita civile, ispanisti, han lasciato in ombra Cortés. Si ha generalmente l’idea che egli sia, tutto sommato, un superiore e patrizio Dulcamara, un rimbombante rètore, un reazionario rocambolesco, tra maniaco e smanioso, un titano da sagrestia. […] C’è intanto lo scrittore in Cortès; uno scrittore che ha fatto inarcar le ciglia a un Barbey d’Aurevilly, a un Eugenio d’Ors. C’è l’uomo di pensiero, che, a parte ridondanze, amplificazioni, sviluppi oratorii, in certe vedute e uscite riesce incredibilmente ammirabile, ed ebbe infatti l’ammirazione non tanto facile di un Menendez y Pelayo. C’è l’uomo di mondo, che rappresentò una sua bella parte nella migliore società europea del tempo. C’è il cristiano, incantato e incantevole, quasi un santo, che amò la meditazione, sentì quasi fosse una passione la preghiera, praticò eroicamente l’elemosina segreta, esercitò la più austera mortificazione, predisse da anacoreta il raccoglimento, sperimentò il pianto della notte nel giardino degli Olivi. C’è il cattolico di gran razza, pari ai migliori di quel secolo che non pochi ne conobbe di grandi, nessuno più grande di lui. […]

Analizza la politica del tempo, discorre della Francia che per lui era già finita politicamente, poi della Prussia che nutre “i pontefici e i maestri” del diluvio, infine della Russia. Non però della Russia imperiale, che egli esclude possa dare nessun pensiero. Egli ha negli occhi un’altra Russia, starei per dire la Russia che vediamo noi. […] Veduta la Russia padrona dell’Europa subito appresso la vede che perisce uccisa dal suo stesso veleno. Non più potenza europea ma asiatica, la sua catastrofe diventerà un cataclisma del mondo.

“La Russia [De Luca riporta una citazione di Cortés, ndr] cadrà ben presto in putrefazione. Allora non so quale rimedio serberà Dio per quell’universale dissolvimento. Contro un tanto male c’è un solo rimedio, uno solo, e questo deve venire dall’Inghilterra. Anzitutto, Signori, la razza anglosassone è la meno esposta all’impeto delle rivoluzioni. Credo più possibile una rivoluzione a Pietroburgo che a Londra. […]”.

Perché tanta sciagura non accada né per la Russia né per il mondo, il Cortés si domanda, come abbiamo visto, che cosa bisogna fare. E si risponde, con una incredibile serenità: bisogna che il mondo anglosassone divenga cattolico. Sembra di sognare, ma quando si pensa all’importanza che la lotta antireligiosa ha rivestito negli ultimi secoli, e a quale acerbità sia giunta nei decenni ultimi, le parole del Cortés fanno un certo effetto. Egli, dicendo Inghilterra, intende il mondo di lingua inglese, quella civiltà, quegli uomini. Il Newman si era convertito allora.

“… è necessario, o Signori, che l’Inghilterra, già conservatrice e monarchica, divenga cattolica. Ciò dico perché il vero e unico rimedio contro la rivoluzione e il socialismo, è il cattolicesimo, come l’unica dottrina che è in assoluta contraddizione con l’altra. Che cosa è il cattolicesimo? Sapienza ed umiltà. Che cosa è il socialismo? Orgoglio e barbarie. Il socialismo è simile a quel re di Babilonia, che fu re e bestia ad un tempo medesimo”.

Non si riscontra in altri che in lui una mescolanza così sfacciata di elementi che di regola, non soltanto non si fondono, ma nemmeno possono star vicini: vale a dire una visione e veggenza religiosa, e una concretezza e perspicacia politica. […]

Mi domando se non sarebbe il caso che noi cattolici leggessimo, alla fine, non dico sant’Agostino, i Padri, i Dottori della Chiesa, i grandi teologi, i grandi giuristi; no, sarebbe voler troppo; leggessimo, dico, qualcuno degli scrittori nostri dell’Ottocento, non di più. Sulla metà del secolo passato in un discorso pubblico, un uomo diceva di queste cose che a un secolo di distanza paiono vaticini, salvo alcune perplessità e ombre. E noi, sulla fede di una opinione pubblica, Dio solo sa come accozzata, continuiamo o a ignorarlo o a crederlo una specie di dandy dell’intelligenza, tra idiota e pazzo. Dico, noi in Italia. Vero è che a noi italiani egli diede bellamente di “sicari”, ma era la voga che ci aveva creato i briganti, Stendhal e Mazzini; non l’aveva inventata lui.

L’Ottocento, secolo oltremodo celebrato e oltraggiato, è stato di già definito più volte e in più modi. Tentarne una nuova definizione, può parere ingenuo. Io la tenterei, dicendo che è un secolo di profeti allo stato libero; se si vuole, allo stato selvatico. […] Non è, intendiamoci, la profezia divina della Bibbia, non quella dei Santi, nemmeno certo profetismo endemico che tutti gli storici conoscono nei diversi secoli: ma una luce è, e si leva luce di vaticinio innegabile, dagli scrittori più grandi come dai cristiani più vivi. […]

[Iddio] ci dà, ci ha dato l’intelligenza; e l’intelligenza, quando tocca i suoi vertici, spesso raggiunge la drammatica solennità di chi profeta: non come la favola racconta di Cassandra, ma come dicono che accada qualche volta a chi muore».

(da Bailamme, Morcelliana, 1963, pp. 107-115)

martedì 6 novembre 2012

La rivoluzione e la morte

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ SECONDA PUNTATA ~
~ SI PUÒ CAMBIARE IL MONDO? ~

Proseguiamo nel ricordo di Giuseppe De Luca a cinquant’anni dalla sua morte.
Nella basilica di San Pietro, la Porta di Giacomo Manzù, opera considerata allora scandalosa e opera che celebrava il Concilio, aveva dietro il battente sinistro, incisa dall'autore, una dedica: a don Giuseppe De Luca; non era insomma un reazionario malvisto quel prete che frequentava Roncalli e Togliatti. Nel primo anniversario della sua scomparsa, il capo dei comunisti italiani lo commemorò in un articolo su «Rinascita», rievocando i loro incontri (il politico ateo leggeva i Trattati antimanichei e chiedeva un parere al sacerdote su una nuova traduzione; certo che altra cultura anche tra i dirigenti della sinistra), articolo che «l’Unità» del 15 marzo di quest’anno ha riportato nelle sue pagine ed è perciò facilmente rinvenibile: vi si legge un Togliatti devoto del letterato in tonaca, con espressioni addirittura di «venerazione» per il piccolo prete del Sud. Un cattolico di sinistra, dunque, don De Luca? Uno che cincischiava con le verità cristiane per dare una patina di nobiltà alle questioni umane troppo umane? No, don Giuseppe era l’amico fidato di Alfredo Ottaviani, il guardiano delle verità dogmatiche, e proprio per la saldezza del suo credo cattolico poteva parlare con chiunque senza timidezze. Nelle poche righe che citiamo qui sotto egli mostrava come tutti i più sottili problemi sociali fossero nulla di fronte ai Novissimi, ovverossia Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. La redenzione è un fatto cristiano, sosteneva il prete-letterato, sarebbe «da pazzi» credere in una redenzione sociale che risolva i punti-chiave della vita. Le ideologie socialiste, le ideologie in genere, diventavano in questo modo delle fatuità o, nella migliore delle ipotesi, dei piccoli e pur rispettabili tentativi di cambiare i dettagli del mondo (a maggior ragione, più frivole del Settecento francese sono le attuali battaglie ‘politiche’ per imporre le nozze parodistiche, le invidie salottiere delle auto blu, gli sguardi viziosi nell’intimità dei governanti...). È l’obiezione decisiva contro la politica totalizzante e di massa dell’ultimo secolo. E se gli anni Sessanta del Novecento furono ripieni della parola ‘sviluppo’ – il cattolicesimo montiniano ne farà addirittura una bandiera ecclesiastica –, all’inizio di quel decennio, pochi mesi prima di morire, don Giuseppe sembrava svuotare di senso le parole-chiave del progressismo laico e cristiano.

«Che questa vita terrestre via via possa anche migliorare (Dio voglia che non peggiori, non dico nella tecnica, dico nello spirito), che le condizioni del vivere sociale possano anche alleggerirsi, ingentilirsi, nessun dubbio; quantunque io non so che redenzione sociale sia quella che viene innanzi di pari passo con ferocie inaudite: deportazioni in massa, campi di concentramento, nazioni recinte (come greggi infetti) da filo spinato, coazioni materiali strazianti, manipolazioni della psiche, atrocità spirituali di ogni sorta, bombe atomiche, per tacere d’altri congegni dell’identica asprezza e barbarie. Tutto sommato, peraltro, un riscatto sociale è indubbiamente in atto.

Che sia possibile arrestare il dolore fisico, la malattia e la morte, disperdere l’angoscia, scongiurare la disperazione, a nessuno verrebbe fatto di sognarselo. Chi spegnerà dentro di noi un solo dei cento focolari e vulcani di peccato; chi abbatterà le insorgenti e in eterno ricorrenti furie; chi sradicherà la concupiscenza dalle radici, sì da pulirne il campo dell’anima, campo delle sementi e campo dei giochi; chi ricucirà alla fine nel nostro fondo più fondo la vena segreta della colpa? Nessuno, ed è inutile augurarselo. Crederlo possibile, sarebbe non vano ma pazzo. Nemmeno l’utopia lo ha mai contemplato.

Nessuna rivoluzione al mondo, nessun rivoluzionario ci si proverà mai, mentre pure il nostro guaio, il solo reale guaio sta tutto qui, non altrove; sta nel peccato, e per conseguenza nella morte. Per ciò che concerne la morte, poco o nulla serve discettarsi sopra e intorno; la cosa va da sé, lapalissiana. Nessuno può nulla contro la morte. Per quanto invece tocchi il peccato, lo si denomini come si vuol meglio, anche a non essere credenti, c’è anche lui, non lo si toglie di mezzo tanto facilmente. Nessun cuore d’uomo ignora il morso silenzioso, così insostenibile, del rancore; l’angoscia accanita dell’ambizione; la delirante e perfida incantazione della lussuria; la sedizione (è una vera e propria sedizione, durissima) dell’odio: nessuno. Inutile farla da gentiluomini e galantuomini: chi dicesse d’essere essenzialmente buono, o è un fatuo (beato lui), oppure è, non fosse che per codesta affermazione, un fannullone. Non un cattivo, ma un fannullone. Non ci si può dare spavaldamente per ciò che non si è, e nessuno può dirsi buono, perché nessuno è buono, nessuno. Lo ha detto il Signore. E chi buono è, quando è, non è buono alla stessa maniera come è corto o come è lungo. Sarebbe comodo. E sarebbe bella: diremmo, quando fosse così, che la signora del piano di sopra è buona, quella del piano di sotto invece è cattiva; sarebbero nate così, le poverine. No, come si è dotti, come si è tecnici, come si è atleti a questo modo si è buoni, a questo patto, a questo prezzo. Ci si diventa, insomma, per una disciplina; e qualsiasi disciplina, per entusiasmante che paia, almeno sulle prime, è dura, durissima. La disciplina della bontà (lasciamo dire agli sciocchi, quelli che fanno parlando un vocino filato, flautato, non perché colmi d’unzione ma perché untuosi), la disciplina della bontà si chiama di nome con un nome solo: si chiama la croce.

Non esistono, ahimè, rivoluzionari i quali si pongano in cuore di fare una rivoluzione contro la morte, contro il patimento fisico, contro l’amarezza inesauribile, incolpevole, cocente dell’animo, contro i moti sregolati e subitanei del cuore. Le rivoluzioni che finora si conoscono scoppiarono tutte, dal più al meno, non sopra il pane quotidiano, bensì sul maggiore o sul minore agio. Il quale agio è altra cosa, ben altra cosa dal pane quotidiano: l’agio è la prima, ancora innocente, quasi bella e cara, maschera della ricchezza. I Santi, di fatto, come alla ricchezza, così non si sono affidati mai con troppa fiducia al’agio. Ci si odia nelle rivolte e nelle sommosse, ci si combatte e uccide non per altro scopo. Il pane è come il sangue: sta più su. Il pane e il sangue, cioè la vita. […]

Noi non si ha bisogno, alla fine, di questo, di quello, di quell’altro: tutte trappole, nuove trappole e nuovi inganni. Si ha bisogno di gioia. Se il paradiso è, come è, il luogo della gioia, chi quaggiù ne ottiene anche un minimo, di questa gioia, ristabilisce per quanto è in lui e riapre il paradiso terrestre[…]». (da Bailamme, Morcelliana, pp. 284-291)

venerdì 2 novembre 2012

Un Requiem

~ ESERCIZI DELLA MEMORIA PER IL 2 NOVEMBRE ~

Un esercizio privato nel giorno dedicato a coloro che sono passati in questo mondo e che lo hanno lasciato: ricordare tutte le persone che si videro vivere accanto a noi e che adesso fanno parte della maggioranza, dell’umanità morta. Anche i meno vecchi ne avranno da contare parecchi. Ci si accorgerà di quanti ne dimentichiamo nei giorni normali, persone con cui ci accompagnammo per un periodo, magari nell’infanzia, o nella gioventù frettolosa. Pensiamoli e doniamo loro un Requiem. Dai pulpiti cattolici è sempre venuto l’invito a pregare per i dimenticati, per chi non ha lasciato eredi o ne ha avuti assai disinteressati alla pietas, magari per egotismi alla moda; la Chiesa avversata dai luterani ci ha insegnato a lucrare le indulgenze, sì a guadagnarcele in tutti i modi, per aiutare i morti; il Vangelo consiglia di puntare sul sacrificio della croce per garantire la resurrezione a chi ha già subìto la corruzione del tempo. Teschi e scheletri barocchi erano consacrati perché alla fine sarebbero stati rivestiti della carne più splendente, non servivano da spauracchio né da demente distrazione come l’Halloween con cui siamo stati colonizzati. In origine pare che «trick or treat» significasse «maledizione o sacrificio», «morte o dolce» nasconde appena la posta in gioco, il macabro aut aut dell’entertainment. Paganesimi d’accatto che comunque sottolineano, sia pure senza il respiro della speranza, il fatto che questi sono giorni dei morti. Tradizioni arcaiche ne abbiamo anche nel nostro paese per le notti malinconiche del nebbioso novembre: i falò contadini celebravano il ritorno degli abitanti dell’aldilà in permesso speciale per qualche ora nelle loro case. Una visione ingenua del mondo oltre la morte ma in fondo è vero che almeno il 2 novembre nelle case che abitarono i trapassati c’è forse chi li pensa. E in Italia sono ancora molti i viventi che visitano i cimiteri per un atto d’amore verso i già inumati. Peggio di Halloween, di ogni altra mascherata, è il weekend culturale nel quale si inzeppano musei e ristoranti, dimenticando la data, cancellando la ricorrenza che di noi ci parla, che ci mette a tu per tu con il «dies illa».

mercoledì 31 ottobre 2012

Aspettando la liturgia celeste

~ MENTRE A ROMA CONFLUISCONO
I TESTIMONI DEL RITO LATINO,
LEGGIAMO UNA SFOLGORANTE PAGINA
DI CRISTINA CAMPO ~

La forma antica del rito romano non è mai stata abrogata, il messale di san Pio V, il messale della cosiddetta ‘messa tridentina’, fu promulgato ancora da Giovanni XXIII esattamente cinquant’anni fa e, «per il suo uso venerabile e antico», dice Benedetto XVI, tale forma del rito romano deve essere tenuta da tutti «nel debito onore». Questo il succo del motu proprio Summorum pontificum che i pellegrini di tutto il mondo in arrivo a Roma festeggiano a cinque anni della sua pubblicazione, festeggiano pregando, in latino naturalmente, con solenni celebrazioni che culmineranno il 3 novembre in una messa pontificale di rito romano tradizionale nella basilica di San Pietro. L’eterna liturgia cattolica risplenderà per tre giorni, ma i suoi fedeli sono ormai una esigua minoranza. Il Summorum pontificum decreta che quel rito è venerabile, non da buttare nella discarica della storia, come pretendeva qualche vescovo di mezzo secolo fa, e neppure da consegnare agli antiquari per il piacere degli esteti, ma concesso ai pochi che ne fanno richiesta superando svariati ostacoli d’ordine burocratico e la diffidenza dei vescovi. Siano rispettati coloro che pregano in latino, dice il papa; ovvero, nell’et et inclusivo del cattolicesimo vengono contemplati anche questi bizzarri, i venerabili nostalgici o fratelli maggiori, leggermente decrepiti (che ne sanno i preti senza memoria della preghiera che apre la messa in latino «Ad Deum qui laetificat iuventutem meam»?); intanto la maggioranza continuerà a partecipare al rito svilito e avvilente («ridicolo» in alcune sue parti lo definirono eminenti porporati). Che si trattenga il sorrisetto, è la raccomandazione papale ai vescovi più modernisti, si usi la pietà cristiana, anche il rispetto, l'onore appunto, verso coloro che pregano come ai tempi di san Gregorio (il revival alla moda del cristianesimo delle origini vale solo per le architetture spoglie). E più o meno così apparirà agli occhi anche dei più benevoli il pellegrinaggio Una cum papa nostro sotto le telecamere incuriosite. Nel corpo della Chiesa la faccenda sarà più dolorosa, ma non troppo. I giovani che affollano la liturgia ‘tridentina’ smentiscono i luoghi comuni, non promettono rovesciamenti di maggioranze e trionfalismi fuori luogo. I manager in clergyman confidano semplicemente nel dogma commerciale secondo il quale la varietà dei riti arricchisce l’offerta. Piccole eresie folcloristiche, per cui il gergo più profano, talvolta truculento come il rock, entra nel sacro, non preoccupano più neppure gli addetti alla difesa della fede. Così la «partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza», diceva già, con acume, il Breve esame di Ottaviani e Bacci.

Del resto, alla distanza di circa mezzo secolo, risulta maggiormente sbalorditiva, quasi incredibile, la scarsissima resistenza che si oppose allo sconvolgimento della liturgia nel caotico dopo Concilio. In pochissimi anni, il clero e i fedeli della Chiesa universale si arresero alla novità. Eppure quanti di quei sacerdoti e monaci e frati avevano prestato il giuramento antimodernista ed erano stati educati nei seminari dalla Pascendi; quanti dei fedeli cattolici erano stati allevati dal magistero di Pio XII, con l’Index librorum prohibitorum che li avrebbe dovuti tenere al riparo dalle letture progressiste: gli allettamenti satanici della modernità furono più forti. Ci si liberava dal passato, si sperimentava l’eccitante novum nel sacro. Né fu notato allora, se non in cenacoli assediati, che l’ultimo anello dell’Antica Roma – avrebbe detto Hofmannsthal –, e forse di quel che restava della cultura europea, veniva spezzato.

Tra le dispute sgraziate, Cristina Campo seppe spiegare con le parole più precise la tragedia che stava accadendo. La cultura cattolica proliferata in università, accademie, riviste pareva dissolversi o forse non esisteva più da tempo. Cristina invece, non soltanto produsse «la più bella prosa italiana che si possa leggere» (Calasso) – smentendo le povere giustificazioni delle avanguardie che si crogiolavano nelle macerie –, ma negli anni in cui anche i più ispirati dei riformatori sembravano colpire a morte la liturgia, cercò di portare in salvo il deposito sacro ed estetico della tradizione millenaria. Non era una teologa né tentava, come molti fanno oggi, di costruire castelli in aria teologici. Si presentava come cronista di cerimonie impalpabili, miniaturista di liturgie celesti che si riflettevano nelle chiese romane, avviava nobili polemiche, scriveva lettere di esortazione, tesseva i nodi segreti del tappeto della tradizione, rivendicava l’insegnamento paolino, «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor., 14, 34), ma trascinava poi uomini insigni alla sua santa battaglia. Intrepida come una Caterina da Siena del rito, interlocutrice e amica del responsabile del Sant’Uffizio, l’energica quanto fragile Cristina prestò la penna al porporato per la Breve analisi critica del «Novus Ordo Missae», firmata dai cardinali Ottaviani e Bacci, in realtà composta da lei, assistita da monsignor Guérard des Lauriers, nel giro di poche e tormentate notti (il cardinale trasteverino, il «carabiniere della fede», come era chiamato Alfredo Ottaviani, evidentemente si fidava dell’ortodossia della scrittrice). Né temette di offrire parole di consolazione al vescovo Marcel Lefebvre che per la difesa della «Messa di sempre» fu attaccato con una violenza d’altri tempi proprio mentre si riversavano tolleranza e misericordia verso tutti i più diabolici avversari. Oggi, nei giorni in cui convengono a Roma i fedeli al latino «corazza aurea della Chiesa cattolica», litigiosi, divisi, poco angelici e molto peccatori (ma una volta tanto con la consapevolezza dogmatica di esserlo), grati alla Provvidenza per questa donna che nel silenzio dell’epoca impose con espressioni dardeggianti la voce della eleganza cattolica, rileggiamo insieme le sue Note sopra la Liturgia (tratte da Sotto falso nome, Adelphi, 1998, pp. 129-135).

Note sopra la Liturgia

1. Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. «Beato» dice san Francesco «quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose».

È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi. compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, «come se i fratelli assenti fossero presenti». E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta «nell’ora dolcissima di Compieta», mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il «delicato giovinetto», «tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo». Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.

Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

2. Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’«immensa e delicata» liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole-Cristo – Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.

In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3. Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell'estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitable che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: «Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me» – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.

«E l’odore si sparse per l’intera dimora». Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. «Ella mi prepara per la mia sepoltura» disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’«ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d'incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: «Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?».

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un'operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

Qui finiscono le Note fiammeggianti di Cristina che assumono un senso speciale in questo triduo che si celebra a Roma intorno alla festa d’Ognissanti e alla commemorazione dei defunti, cioè alla Chiesa trionfante e festante che elargisce le sue indulgenze e alla Chiesa purgante che soffre e si purifica con i suoi fedeli oltre la tomba. Nell’asse del pellegrinaggio si avranno come due fuochi: la basilica di San Pietro e la chiesa delle Trinità dei Pellegrini. Su quest’ultima, fondata da Filippo Neri, dedichiamo ai tanti pellegrini della Missa romana che vi si affolleranno una citazione dal Diario dei fratelli Goncourt. Loro così sarcastici in genere sulle cose religiose, non possono nascondere la sorpresa provata in una visita alla chiesa e all’ospizio della Trinità, il 20 aprile 1867, giovedì santo. «Un indimenticabile quadro», ammettono, descrivendo i membri della Confraternita, tra cui cardinali, principi e gentiluomini, inginocchiarsi e procedere alla ‘lavanda dei piedi’. «Una certa emozione di fronte a tale impietoso richiamo all’uguaglianza. In fondo, la religione cattolica appare una grande fonte di umanità e mi irrito nel vedere delle persone intelligenti, degli spiriti eccelsi, mettersi in ginocchio davanti alla religione disumana dell’antichità. Tutto il tenero, tutto il sensibile, tutto il bello commosso del moderno proviene da Cristo» (Journal, vol. III, 1866-1870). Lo sfarzo romano, la sontuosa liturgia romana sembrava toccare pure i cuori dei Goncourt.
Sulla ‘parrocchia tridentina’ che opera a Roma, si veda anche un vecchio articolo dell’«Almanacco»:

lunedì 29 ottobre 2012

Il dovere della polemica cristiana

~ UCRONIA?  DON GIUSEPPE DE LUCA
PARLA DELLA CHIESA POST-CONCILIARE ~

Questo Almanacco presentò qualche mese fa una pagina di don Giuseppe De Luca, prete, letterato, erudito («Giuseppe De Luca parla di padre Pio» del 18 gennaio 2012), e promise che, approfittando dell’occasione del cinquantenario della sua morte, sarebbe tornato sull’argomento. Eccoci a mantenere la promessa ma, visto che nell’anno già alla fine l’anniversario non ha suscitato grande eco, si prova qui, almeno noi, a sfruttare bene questo genere di pretesti e a moltiplicare il ricordo: saccheggeremo a più riprese il suo ultimo libro, Bailamme, uscito postumo nel 1963 dalla Morcelliana, una raccolta di articoli per l’«Osservatore Romano», sminuzzeremo i suoi pensieri e la sua prosa in varie puntate.

Cominciamo con una celebrazione polemica. È proprio glorificando il dovere cristiano della polemica che il prete lucano se la prende con l’irenismo imperante, con l’«arcadia del buon cuore», con i discorsetti melliflui del clero, con la Chiesa ridotta a scuola deamicisiana, con l’amore liquoroso sempre in bocca nelle prediche. Si dirà: ma questo è il clima post-conciliare ben descritto in poche righe. Eppure il nostro dotto prosatore non vide il Concilio, lasciò questa terra pochi mesi prima della sua apertura, però quel che dice sembra adattarsi perfettamente a quanto abbiamo visto noi che gli siamo sopravvissuti. Una specie di ucronia? Don De Luca, l’amico di Roncalli – fatto raro, anzi unico per quei tempi, Giovanni XXIII uscì dai confini vaticani per recarsi al capezzale di un semplice prete che stava morendo nell’ospedale sull’Isola Tiberina – magnificava l’«arte militare» di Agostino nella guerra santa del Padre delle Chiesa contro i nemici di Roma, ricordava che l’amore sa e deve essere intollerante, esortava al dovere di condannare l’errante: questo almeno si legge nella pagina che riportiamo qui sotto.  Un così battagliero prete avrebbe allora condiviso i discorsi della tolleranza verso tutto e tutti che furono pronunciati dalla cattedra petrina nella solenne inaugurazione della assemblea della Chiesa universale? Si sarebbe entusiasmato per la fine delle condanne? Si sarebbe convinto che, il «sacro deposito» restando immutabile, non fosse il caso di sottilizzare sulle questioni di fede bensì di occuparsi della forma dell’evangelizzazione, convocando un concilio per un problema mediatico? Lui tanto colto avrebbe ritenuto che di fronte alle velenosissime insinuazioni della cultura moderna bastasse rispondere con prediche accettabili dal mondo, attraverso buoni curati che ricorressero a quel gergo moderno? Il nostro autore, sostenitore delle crociate dottrinarie agostiniane, avrebbe mai creduto che «gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole»? O che fosse opportuno per la Sposa di Cristo «usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore»? Finito davvero il tempo delle condanne? Si sbagliava forse sant’Agostino a insistere sul fatto che i rimproveri nascono dall’amore? Naturalmente non possiamo rispondere a simili domande, peraltro assai ardue, ma ciascuno si può fare un’idea della coscienza dell’epoca in un singolare sacerdote che pure voleva scuotere il suo mondo. Sentiamolo:

«La polemica, dai giorni dei giorni, è stata ed è di casa nella Chiesa di Dio. Quelli che si dànno a credere che la vita cristiana consista, o consistesse una volta, in una arcadia del buon cuore, in una collettiva esaltazione di mutua simpatia, di vicendevoli ammirazioni, di candidi e cari madrigali che ci si scambia ammiccando e sorridendo gli uni con gli altri, costoro sbagliano. La Chiesa, e nemmeno la società, non è stata mai la scuola che De Amicis descrisse nel Cuore. La storia del pensiero cristiano per tre quarti buoni è storia di come le verità cristiane vennero difese, in una guerra che non conobbe tregua, ora da nemici aperti e dichiarati, ora da falsi amici, ora e persino da figli che avevano tradito o stavano per tradire. Non tutti i figliuoli prodighi sono sempre tornati, ancorché tutti possono sempre tornare. Scrive sant’Agostino nel 423 a Felicita e Rustico […]:

“I dissensi, non li si deve amare. Se non che a volte nascono per carità o provano la carità. Non si trova tanto facilmente uno il quale pigli in pace d’essere ricoverato. E dov’è quel saggio in cui sta scritto: ‘Rimprovera il saggio, e te ne vorrà bene’ (Proverbi, 9, 8)? Forse che per questo noi non dobbiamo più riprendere né rimproverare un fratello, affinché non si avvii sbadatamente alla morte? […]”.

Torniamo ora alla polemica. Lo stesso san Giovanni, discepolo per antonomasia dell’amore, ha passi roventi, di battaglia asprissima. Chi più intrattabile e intollerante dell’amore? Son ben sue per esempio, e non di san Paolo, come parrebbe, le condanne più recise e strazianti. Non dico san Gerolamo, dico sant’Agostino: percorrete le sue opere complete, per buona metà troverete che son polemica pura.

Non possiamo, dunque, condannare la polemica. Tutt’altro, essa è un dovere. Tutto sta a come la si conduce. Soltanto a raccogliere in una specie di massimario le norme sfuggite a sant’Agostino nel fervore delle sue campagne e delle sue battaglie, si comporrebbe un meraviglioso manuale di arte militare, una istruzione esemplare per il buon combattimento, un vademecum del vero soldato dell’intelligenza cristiana, da far trasecolare. Disgraziatamente oggi i cristiani, non esclusi i preti, ce ne andiamo in discorsi inetti, ora tutti una inutile furia, una scomposta e tribunizia scalmana, ora tutti un brodo di giuggiole, un latte e miele, discorsi che lasciano per fortuna il tempo che trovano. Mi domando, non senza sgomento, che cosa legheremo, noi, alla generazione ventura: dico di pensiero, dico di vita cristiana vissuta a occhi aperti, dico di battaglie combattute e vinte. Che cosa lasceremo di buono a chi vien dopo? È vero che dobbiamo parlare ai presenti, non ai posteri; ma chi parla bene, parla per tutti e per sempre.

Queste son malinconie; meglio strozzarle sul nascere, con un altro passo di sant’Agostino, tratto questa volta dalla sua più torturante polemica, quella coi Donatisti. Non faceva altro che combattere, il caro e terribile Santo; ciò nondimeno, ecco qual era in lui il rispetto della verità. Si trattava di una trita accusa donatista contro il papa Marcellino (296-304), e il Santo scriveva in polemica contro Petiliano:

“E ora, a che serve tornare a detergere ancora una volta i vescovi della Chiesa di Roma dai delitti che ad essi egli imputa, mentre li ricopre di calunnie incredibili? […] Perché dovrei addannarmi a provare la tesi della mia difesa, quando lui non alza un dito per provare la tesi della sua accusa? Ma se c’è posto per un poco di umanità nelle cose umane, io credo che meriteremmo un bel rimprovero qualora, a gente che non conosciamo, ma che gli avversari incriminano, sena peraltro poter dimostrare l’incriminazione con nessuna prova, la reputassimo senz’altro colpevole piuttosto che innocente. […]”.

Combattere quanto dové combattere lui, per tutta la vita, e serbare intatto e delicato a tal segno il senso dell’umanità: ecco una cosa più propria d’un santo che d’un uomo, e d’un santo della tempra d’Agostino, d’un cuore come il suo. San Girolamo, per esempio, e san Pier Damiani non reggevano a tanto. Non avrebbero mentito mai neanche loro, e nemmeno esagerato; ma in loro l’impeto più di una volta fa spavento, lascia perplessi, senza fiato.

Si est ulla humanitas in rebus humanis…, diceva Agostino, invece. Ma c’è poi nelle cose umane, un poco di umanità? guardiamoci in viso, c’è?».

 (da Bailamme ovverossia pensieri del sabato sera, Morcelliana, pp. 146-149)

venerdì 26 ottobre 2012

Il miracolo dell'immagine

~ NUOVE MICRO-MACCHINE FANTASCIENTIFICHE
RENDEREBBERO INUTILE L’ARTE FIGURATIVA. MA… ~

L’altro ieri si è diffusa la notizia che un cubetto grande quanto un ninnolo da tenere al collo (o all’occhiello della giacca come un distintivo) e in grado di scattare una foto ogni trenta secondi senza premere alcun pulsante diverrà un duplicato della nostra memoria, archiviabile sul pc, sempre a portata di mano. Non ci sarà bisogno di ricordare una scena dell’infanzia o di cancellarla (le censure freudiane), basterà ritrovarla con un motore di ricerca. Tutto resterà eternamente consultabile. Già nel mese di febbraio, la micro-macchina fotografica che non si stanca mai e che si chiama Memeto sarà messo in vendita a 150/200 euri; in pochissimo tempo, come accade sempre in questi casi, il prezzo si abbasserà, la tecnologia si affinerà, e la nostra vita, tutte le nostre vite saranno bloccate in una rappresentazione senza tempo.

Subito spuntano amicali, garbate e ragionevoli obiezioni a quanto questo «Almanacco» va dicendo sulla iconoclastia trionfante: adesso non si parla più di semplice inflazione delle immagini, siamo a livelli ben peggiori dei tassi inflattivi della Repubblica di Weimar, anzi la realtà stessa diviene una immagine, vi si specchia, un mare di immagini, ferme o in movimento, come si vuole, tutte comunque paralizzanti la nostra coscienza, la nostra memoria, il nostro gusto. D’accordo – ci dicono allora – sulle miserie del contemporaneo, sulla sua commercializzazione esasperata, sul suo carattere mafioso, come sostiene Fumaroli, sul suo gioco puerile, ma come è possibile davanti a questa trasformazione antropologica del mettere in scena, del rappresentare noi stessi e il mondo intorno, annullando anzi l’esterno (e l’interno), ricorrere alla immagine tracciata alla maniera di Cimabue o di Tiepolo o di Picasso? Quella dose di verismo, che è sempre stato il condimento d’ogni opera d’arte, che senso avrebbe oggi di fronte al doppio perfetto del mondo che queste e altre macchine si propongono?

Una sola contro-obiezione: perché, almeno fino adesso, l’opera d’arte del passato, l’opera d’arte eterna, quella di Cimabue, di Tiepolo o di Picasso, ci tocca hic et nunc così profondamente, ci turba nonostante i miliardi di immagini vuote che ci attorniano, gli iperrealismi, gli onnipotenti e tonitruanti media?

Post scriptum - I giudici della Alta corte di New York hanno deciso che le ballerine di lap-dance della città «non fanno arte». Nonostante le mille vie eretiche che il contemporaneo sarebbe costretto a battere a causa dell’inflazione di immagini nella società dello spettacolo, nonostante la body art e tutte le trovate più capziose cui ricorrono i suoi adepti pur di non raffigurare secondo umani procedimenti, i magistrati hanno sentenziato così, forse per una flagranza erotica che persiste in simili performances e che manca del tutto alle mortifere esibizioni che avvengono nelle gallerie e nei musei. Altri giudici, da noi, decretano quello che devono fare e dire gli scienziati, comminando anni di galera alle ipotesi scientifiche. Triste che siano i magistrati a stabilire quel che è arte e quel che è scienza.

mercoledì 24 ottobre 2012

Finale di comizio

~ BELLOC E IL SINDACO DI FIRENZE ~

Nei partiti italiani se le stanno dando di santa ragione, in quello della sinistra in particolare si combatte la guerra civile delle ‘primarie’, cercando anche di capire se sotto sotto siano un partito ancora di ispirazione comunista o di ispirazione liberale o già senza alcuna etichetta d’altri tempi: una scelta non da poco. L’équipe del sindaco che vuole voltare pagina in una storia vecchia un secolo dimostra di saperla lunga. Così, secondo quel che riportano i giornali, chi prepara i discorsi e l’immagine del Fiorentino in tour fa concludere i comizi con le seguenti parole: «Sono cristiano, sono cattolico, se qualcuno non vorrà votarmi per questo lo ringrazio». Il giovane competitore degli ex, ovvero di chi si incamminò nella carriera politica con i finanziamenti dell’Urss (e se ne vanta), non nasconde la sua fede, non la privatizza secondo il peggiore liberalismo, anzi la rende pubblica in modo baldanzoso. Sarà un puro caso ma il discorsetto è simile nel  succo (fervore a parte) a quello che lo scrittore inglese Hilaire Belloc, l’amico e sodale di Chesterton, pronunciava nei battaglieri comizi durante la stagione del suo impegno politico nel partito liberale, all’alba del ventesimo secolo: «Signori sono un cattolico. Fin quando mi è possibile vado a messa tutti i giorni. Questo [e tirava fuori dalla tasca una corona] è un rosario. Fin quando è possibile, mi inginocchio e recito questi grani ogni giorno. Se mi respingete a causa della mia religione, ringrazierò Dio di avermi risparmiato l’indegnità di essere il vostro rappresentante». Se i trainers del candidato hanno trovato lo spunto per questo finale di comizio nelle pagine di Belloc dimostrano una conoscenza delle spigolature letterarie rara tra i pubblicitari politici. Se invece gli è venuta su dal cuore l’idea di una sfida affine a quella del prode autore dell’Anima cattolica dell’Europa meglio ancora. In ogni modo promettono bene.

venerdì 19 ottobre 2012

Ridestare i padri

~ LA CULTURA DEI BECCHINI E QUELLA DEI SANTI INVISIBILI.
 ~ DUE FRAMMENTI DI UN RUSSO A ROMA ~

Venceslao Ivanov – così semplicemente lo chiamavano e lo stampavano in Italia dove visse una stagione lunga un trentennio –, poeta simbolista, filologo e filosofo che i nostri contemporanei trascrivono dal cirillico con maggior precisione e completezza: Vjačeslav Ivanovič Ivanov (Mosca 1866 - Roma 1949). Timoroso di visitare la città eterna, rinviò a più riprese il viaggio a Roma e, una volta qui, il discepolo ideale di Nietzsche si convertì al cattolicesimo, aprì casa di fronte al Campidoglio (l’aprì davvero a una cerchia italo-russa di eletti) e insegnò slavo ecclesiastico al Russicum, luogo dell’anima di Cristina Campo nel bailamme dell’Esquilino. È sepolto all’Aventino, nel piccolo ‘cimitero degli artisti’ accanto alla Piramide. Papa Karol Magno ricorse più volte a una sua metafora per indicare la Chiesa universale che ha bisogno di due polmoni per respirare bene, ovvero dell’Europa occidentale come di quella orientale, della cultura latina e di quella bizantina.

Ivanov aveva studiato a Berlino con Mommsen la Roma antica, per via di Nietzsche prese ad appassionarsi alla religione di Dioniso, quindi superò il culto bacchico nel misticismo cristiano. Vladimir Solov’ev, il maestro mistico di una generazione, lo influenzò da lontano e gli disvelò Dostoevskij, mentre il filosofo Nikolaj Berdajev lo consacrò come «il rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa del XX secolo».

Dopo la Rivoluzione bolscevica, nell’estate del 1920 Ivanov si ritrovò in un ricovero con un amico, Michail Osipovich Geršenzon, uno storico della vita poetica in Russia. Oppressi forse dalla coabitazione forzata, si scrivevano piuttosto che parlarsi e un epistolario, Da un angolo all’altro, come poi si intitolò quella corrispondenza, finì col diventare un libro, tradotto pure in italiano dall’editore Carabba nel 1932 e rivisto dal medesimo Ivanov che padroneggiava la nostra lingua appresa dai versi di Dante. All’interlocutore che si tormentava sui postumi del nietzscheanesimo, sul rifiuto della cultura, sui veleni del decadentismo, sui sospetti dello psicologismo, sulla mistica nichilista della gnosi, Ivanov prospettava un cristianesimo forte, una cultura della grazia, della salvezza, della vittoria sulla morte. Vale la pena riportarne due frammenti. L’«erede di Bisanzio e del Barocco», come lo definirà Averincev (e del Barocco fu mediatrice Roma), ammonisce i disorientati e titubanti di oggi sul ruolo dei padri e della tradizione. Lo sradicamento attuale ha lasciato in ombra anche il suo nome, lo studioso che Martin Buber e Benedetto Croce andavano a trovare reverenti è ormai cancellato dai cataloghi della nostra editoria. Ci si è dimenticati di quell’amico di Roma e per lo più intradotti o introvabili restano le sue opere, tra le quali i Sonetti romani e un Diario romano in versi del 1944 (una mostra burocratica nelle sale della Biblioteca nazionale, foto e riproduzioni di scritti addossati alle pareti esterne di una latrina non sono certo un affettuoso ricordo).

La prima di queste citazioni è tratta da una lettera datata 4 luglio 1920 e affronta il problema della tradizione: «La cultura, nel suo vero significato, per me non è affatto una superficie, senza altra estensione che in lungo e in largo, né un piano di rovine o un campo sparso di ossa. C’è in essa qualcosa di realmente sacro: non è solo il ricordo del volto esteriore e terreno dei padri, ma è pure il continuamento delle iniziazioni da essi raggiunte. È una memoria viva, eterna, che non muore in coloro che si immedesimano in queste iniziazioni. Poiché le ultime sono state trasmesse attraverso i padri ai loro lontani discendenti; e nessun iota delle lettere, una volta nuove, segnate sulle tavole dello spirito umano che è sempre uno, svanirà. In questo senso la cultura non è soltanto monumentale ma anche iniziatrice dello spirito. Poiché la Memoria, sua divina sovrana, fa i suoi veri servitori partecipi alle iniziazioni dei padri e, risuscitandole in essi, comunica loro la forza iniziativa, quella di osare e di procreare cose nuove. La memoria è un principio dinamico: il dimenticare è stanchezza, interruzione del movimento, ritorno a uno stato di relativa stasi».

E riferendosi allo spirito nietzscheano, da cui pure era stato sedotto in gioventù, Ivanov scriveva: «Per lo psicologo ‘l’antico vero’ non è che una vecchia psicologia. Per lo meno tutto ciò che è spirituale e oggettivo viene da lui sospettato come una cosa psicologica e soggettiva. E di nuovo ricordo le parole di Goethe che stimmatizzano una ricerca sterile: ‘con avida mano egli fruga nella terra cercandovi un tesoro, e gioisce trovandovi i vermi’. Non assomiglia ciò al modo in cui il nostro amico nostalgico dell’acqua viva eseguisce le sue inquisitorie psicologiche e denuda la vanità delle ‘speculazioni’ la tirannica presuntuosità di qualsiasi penetrazione nel senso dell’essere, di qualsiasi affermazione teorica o normativa? Bisogna lasciarlo al suo demone: che i morti seppelliscano i loro morti. Io so bene che egli è un credente e mistico a modo suo (alquanto affine al metodo della cosiddetta teologia negativa, o apofatica); ch’egli stesso non è quindi morto affatto: tuttavia la sua opera è mortifera. Prestargli fede significa lasciar penetrare le carie nel proprio spirito: ciò che non diminuisce, beninteso, la nostra ammirazione del suo ingegno, né il nostro amore verso di lui, né la nostra pietà per lui e per la sua vocazione di tragico seppellitore di morti. Noi vogliamo invece credere alla vita, alla Grazia, all’accrescimento dello spirito, agli invisibili santi che stanno intorno a noi, alla schiera sconfinata delle anime in lotta continua per la trasfigurazione spirituale del mondo, e andremo avanti baldanzosi, senza guardare né attorno né indietro senza misurare la strada percorsa, senza ascoltare le voci degli spiriti della stanchezza e dell’accidia, che parlano del ‘veleno del sangue’ e del ‘deperimento delle ossa’. Si può essere gai viandanti sulla terra, senza lasciare la città nativa, e si può diventare poveri in ispirito senza affatto dimenticare la stessa sapienza. […] Qualunque sia il nostro atteggiamento gnoseologico, la linfa vivificante della sapienza ereditaria, degli antichi intuiti, il loro spirito e il loro logos, la loro energia iniziatrice e fecondatrice, aspiriamo tutte queste virtù in noi in nome dell’‘antico vero’ del Goethe! E così, spregiudicati e desiderosi di sapere, come stranieri passeremo accanto agli infiniti altari della cultura monumentale, che in parte giacciono in abbandono, in parte sono rinnovati e di nuovo ornati, fermandoci a nostro piacere, e portando sacrifizi in luoghi dimenticati, se scorgeremo qui dei fiori che non appassiscono , invisibili agli uomini, fiori cresciuti dall’antica tomba»

La seconda citazione è del 15 luglio di quella stessa estate. Vi si parla del ritorno al primitivo, che tutti gli espressionismi del tempo celebravano: «Ritorno alla primitività è tradimento, oblivione, scampo, fuga; è una reazione suggerita dallo sgomento e dalla stanchezza. È insostenibile il pensiero del ritorno al primitivo, altrettanto nella vita civile, quanto nella matematica, che non conosce che l’operazione formale di ‘semplificazione’: la quale consiste in un riportare la molteplice complessità a una forma più perfetta di semplicità. Semplicità come suprema coronante conquista, è superamento di ciò che non è compiuto per mezzo di una definitiva compiutezza, dell’imperfetto per mezzo del perfetto. Il cammino alla desiderata e amabile semplicità passa per la complessità. Essa si raggiunge non uscendo da un dato ambiente o da un dato paese, ma superandosi ed elevandosi. […] È vuota la libertà rubata per mezzo del dimenticare. Coloro che non ricordano il loro lignaggio e la loro stirpe, sono schiavi fuggiaschi, o liberti: ma non nati liberi. La cultura è culto degli avi e, certo, (essa ne è oscuramente conscia, perfino oggidì) un ridestare i padri» (da Corrispondenza da un angolo all’altro, Carabba editore, Lanciano, 1932, pp. 97-101 ; 137-138).

domenica 23 settembre 2012

La felicità di un frate

~ CARLO FRUTTERO RACCONTA PADRE PIO ~

Il 23 settembre del 1968 moriva padre Pio da Pietrelcina, a quasi mezzo secolo di distanza egli è più vivo che mai: il più amato dei cattolici, il più implorato come mediatore di grazie, il più acclamato dalle folle di pellegrini, il più vicino ai sofferenti nei letti d’ospedale e nella solitudine domestica. Gli si può adattare per l’ultimo secolo lo slogan che Ruggero Bonghi coniò per Francesco d’Assisi: «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani». Oggi la Chiesa universale ne celebra la festa liturgica con grande scorno degli intellettualini che lo temono come l’ultimo medioevale. Ma il «popolo di Dio» tanto evocato da loro resta insensibile alle celebrazioni del mezzo secolo del Vaticano II e si inginocchia commosso davanti alle reliquie del nostro santo che fu fedele fino in fondo alla messa in latino.

Un letterato che sapeva raccontare l’Italia profonda, Carlo Fruttero, in un libro che scrisse prima di morire, appoggiandosi al giornalista Gramellini dopo aver perduto la sua ‘spalla’ storica, tracciò in poche righe la vita del taumaturgo del Gargano. In La Patria, bene o male, che porta il sottotitolo «Almanacco essenziale dell’Italia unita in 150 date» (Mondadori), ricorda: «20 settembre 1918. Mentre prega nella chiesa del suo convento a San Giovanni Rotondo, un frate cappuccino si sente invadere da un indicibile senso di felicità. Ma un attimo dopo è a terra e un dolore fortissimo alle mani, ai piedi e al costato lo trafigge. Si trascina fino alla sua cella, lasciandosi dietro una striscia di sangue. Si fascia le mani e i piedi, tampona alla meglio la ferita del petto, ma ai confratelli e ai fedeli non può nascondere del tutto il fenomeno. Scrive al suo superiore, che accorre a constatare le piaghe. Appare così sulla scena del mondo padre Pio da Pietrelcina, umile fraticello prima, poi beato, poi santo.

Chi dei cappuccini si è fatta un’idea dai Promessi sposi, dovrà dimenticare la grande figura di fra Cristoforo, omicida pentito, ma rimasto uomo d’azione. Questo frate del Sud è tutt’altra cosa: è un mistico, ha avuto la visione di un misterioso personaggio che gli infliggeva le ferite che continuano a non cicatrizzarsi, gettano sangue, gli provocano dolori intollerabili. Sono le stigmate di Cristo che hanno già segnato nei secoli nobili figure come san Francesco d’Assisi e santa Teresa d’Avila, mentre in piena epoca giansenista, Gesù stesso è apparso alla francese Maria Alacoque, per esortarla a celebrare la festa del suo corpo martoriato: il Sacro Cuore di Gesù.

La notizia non può restare segreta e in poco tempo una folla crescente di fedeli circonda il frate, assiste alle sue celebrazioni della messa e chiede di essere confessata da lui. Un gruppo di giovani donne si forma intorno al religioso che ne diventa il padre spirituale, ma la Chiesa procede con molta cautela. Il Sant’Uffizio manda diversi ispettori a controllare le stigmate e tra questi c’è padre Gemelli, illustre genetista che padre Pio rifiuta di ricevere.

‘Psicopatico, autolesionista e imbroglione’, scriverà lo scienziato nel suo rapporto e la condanna peserà sempre sul frate, che è visitato e venerato da milioni di fedeli d’ogni paese e ceto sociale, dai principi ai contadini ma è anche oggetto di campagne calunniose […].

La Chiesa gli toglie la facoltà di dir messa in pubblico e di confessare, riducendolo quasi in stato di prigionia, ma numerosi sono i suoi difensori e dopo anni di dispute più o meno segrete padre Pio riacquista la sua dignità. Finché sulla base di centinaia di testimonianze, i ‘miracoli’ vengono riconosciuti: dal profumo di violetta e gelsomino che emana dal suo corpo ai cosiddetti ‘viaggi in bilocazione’, ossia il dono dell’ubiquità.

Muore nel 1968. Là dove ricevette le stigmate sorge la chiesa di San Pio. Chissà se gli piacerebbe: sembra uno stadio».

Così Fruttero. Una sola imprecisione storica. Padre Gemelli volle curiosare dall’alto della sua scienza medica e psicologica in una visita di sua iniziativa a San Giovanni Rontondo ma padre Pio, obbediente  alle autorità di Roma che gli avevano vietato di mostrare a chicchessia le sue stigmate, rifiutò di farsi visitare dal noto scienziato. Il professorone stizzito replicò con una diagnosi calunniosa. Oggi nell’ospedale romano che porta il suo nome nessun paziente ricorda più il pomposo luminare, il rettore dell’università, il cantore sgraziato del «volto fascista di maschia bellezza», mentre decine di immagini di san Pio venerate in ogni reparto dimostrano che al momento opportuno la Provvidenza sa rovesciare le fortune, anche accademiche, ed esaltare i semplici.

mercoledì 19 settembre 2012

San Pio dei letterati

~ UN FIORETTO ITALICO ~

Lo si incontra nelle pagine eleganti dei diari di Giacinto Scelsi, nei libri di Cesare Garboli, nelle lettere di Cristina Campo; appare quando meno te lo aspetti perché fa parte integrante del paesaggio italico e magari da uno scorcio si intravede il frate dei miracoli come in antiche tavolette devote che le immagini mercificate non sanno riprodurre. È il «Cristo italiano» diceva per mania di eccesso il giovane Malaparte con un’abbreviazione concettuale; si sarebbe detto in modo pedestre: è la più italiana delle rappresentazioni dell’imitatio Christi. Altrettanto si disse nei secoli di Francesco d’Assisi. Leggi La stanza separata di Garboli, ti inoltri con quel fine critico tra i miti del Novecento, senti risuonare Dante, Leopardi, Collodi, e mentre «si risolleva una questione antica, perenne, circa la responsabilità e i compiti della cultura, anzi della ‘letteratura’, riproponendo il tema ‘impegno-disimpegno’», a una certa riga trovi queste parole: «’Siamo ancora a questo punto?’ pare esclamasse Padre Pio da Pietralcina rivolgendosi a uno scrittore cattolico, il quale, recatosi al Gargano per visitarlo, additava al sant’uomo una fila di cipressi lontani anneranti le brume del crepuscolo, definendoli ‘foscoliani’». Il frate proveniente da un paese tanto oscuro da essere quasi sempre scritto male, anche dai colti – Pietrelcina con due ‘e’ il nome del borgo nel beneventano –, l'amatissimo personaggio del burbero benefico diventa qui un aforistico fustigatore di gusti estetici in un fantasioso piccolo aneddoto che forse rimanda al realismo del santo meridionale. Quanto alla questione di Garboli, questa sembrava la soluzione proposta dall'autore: «Basta esprimersi, e il mondo cammina, non c’è altro modo di cambiarlo» (La stanza separata, Scheiwiller, p. 206). Buon motto per un'arciconfraternita segreta di letterati che si glorierebbe di un protettore come il santo barbuto.

domenica 2 settembre 2012

Il sindaco

~ L’OMETTO CON LA FASCIA TRICOLORE
CHE NON RIUSCIVA A SCONFIGGERE L’ETERNITÀ ~

 Un lettore che vuole restare anonimo ci invia questo scritto. Naturalmente ne condividiamo lo spirito.

Il sindaco della mia città è un parolaio (non si frequenta invano il parlamento) che si mangia le parole. Non è efficiente né riveste un po’ di dignità come vorrebbe l’ufficio che ricopre e la stanza che occupa con affaccio sul Foro romano, neppure una punta di eleganza nell’eloquio, soltanto un’agitazione frenetica che lo rende buffo. È l’immagine triste di un politico d’oggi. Spesso parla intorno a questioni assai difficili ma non sa fare funzionare nemmeno gli autobus. Preferisce proporsi come un futurista in ritardo di un secolo, fino a qualche anno fa aveva anche un assessore che propagandava il culto di quei signori velocisti: per simile passatismo (la devozione nei confronti di un’avanguardia d’altri tempi), i sodali di Marinetti con le loro furibonde maniere li avrebbero maltrattati tutti e due e magari sarebbe volato pure qualche schiaffo.

Agitavano antichi vessilli il sindaco e il suo predecessore, «si ispiravano» (come i pittori della domenica) rispettivamente al fascismo e al comunismo che da parecchie stagioni non esistevano più al mondo. Uno che conosceva gli anfratti del pensiero dell’attuale borgomastro mi disse che nell’intimità della sua cerchia si rifaceva al socialismo nazionale, vagamente prussiano e vagamente bavarese, ma un tedesco vero avrebbe provato le vertigini di fronte a tanta cialtroneria mediterranea.

La domenica in particolare il sindaco mi ruba molto tempo, è un ladro del tempo dei suoi concittadini. Nelle altre città europee ci sono cartelli luminosi o senza lume che annunciano gli orari dei mezzi di trasporto e nessuno sgarra mai, a Roma non usa così, «non si può fare», si dice, c’è troppo traffico, come se fosse un destino, una condizione ineluttabile, ma almeno la domenica o i giorni d’estate, quando le strade son vuote e i bus dimezzati, non sarebbe male sperimentare un orario fisso, una indicazione che sottraesse la gente a un’attesa vaga, a sonnolente soste, buttata sulle panchine a sperimentare la Gelassenheit heideggeriana o in piedi a fissare l’orizzonte vuoto. Forse si preferisce che i romani siano alla mercé dei misteriosi capricci dell’azienda, e così nei giorni di festa il mio sindaco escogita dei sequestri di persona, ci affida al caso, ci imprigiona nei quartieri lontani dal centro, e saltano gli appuntamenti e i programmi. Da molti anni comunque gli abitanti borghesi non prendono più i ‘mezzi pubblici’ (taxi a parte) perché i viaggi in bus sono ormai roba da africani con i sacchi delle mercanzie e da badanti liberate per qualche ora dai loro vecchi, gente il cui tempo non vale niente per l’autorità, mentre a Zurigo pure i banchieri vanno in tram perché se il loro sindaco rubasse il tempo ai zurighesi come fanno ai romani, loro con il vantato rigore calvinista lo caccerebbero a pedate. Quanto ai piccoli imbrogli del culturame distribuito alla plebe onde confondere con un po’ di fuffa i votanti sulla capacità dei votati a risolvere i problemi essenziali, basterebbe una seria indicazione di Karl Kraus, severo censore della sua Vienna imperiale: «Il fatto che esistano delle vetture pubbliche che conducano il poeta rapidamente e comodamente al suo tavolo di lavoro è per lui più importante del sapere che nel museo della sua città è appeso un autentico Correggio. Per il filisteo invece il Correggio è indispensabile anche se non è in grado di distinguerlo da un autentico Knackfuss». Alle fermate romane il poeta viene incatenato, la scrivania una mèta lontana, i versi restano nella testa; gli ultimi soldi delle casse capitoline sono impiegati per tappeti rossi da far sporcare dalle scarpe dei divetti, feticismo popolare per la goduria dei filistei di borgata.

Non soffrono solo i poeti. Una gentile coppia di provincia, anziani con i loro guai, chiese sommessa al guidatore del bus ancora fermo al capolinea quanto ci volesse per arrivare alla stazione Tiburtina da dove partiva, un’ora e mezza più tardi, un pullman che li riportava a casa. «Mo’ mi collego col satellite e ve lo dico», fece quello beffardo. «Ma che ne so – aggiunse cercando un sorriso complice tra gli altri passeggeri adusi alla faccenda – un’ora, due, secondo il traffico, le manifestazioni, la gente che sale». Il servitore pubblico, come tutti i suoi colleghi,  i suoi capi, il suo sindaco, guardava con irritazione a chi chiedeva un dato preciso, un numero.

Il sindaco mi ruba anche il mare, la spiaggia romana di Castel Porziano, un luogo unico al mondo, lo diceva anche de Chirico che di siti divini se ne intendeva, non come le sciurette che conoscono solo i tropici tutto compreso. Un posto da re, dunque, che un tipo che aveva preso il posto del re al Quirinale donò (anche se non era suo) al popolo romano (che ne era comunque il più legittimo proprietario, visto che anche il re aveva rubato la reggia al papa). Come nelle fiabe, il gesto prodigo fu accompagnato da alcune disposizioni (pena, nel caso di violazione, la fine dell’incanto): il dono era perpetuo ma nessuno avrebbe dovuto mai chiedere una lira per l’ingresso, anche le docce sarebbero sgocciolate senza spesa e così i servizi, guai a chi si fosse impadronito di un metro di quel litorale di dune, autorizzato appena lo spazio per banchetti con un qualche panino e bibita, ma gli addetti municipali avrebbero dovuto impiantare le fontanelle romane in ghisa per far sgorgare l’acqua freschissima gratis et amore Dei, e se uno proprio non sapeva fare a meno dell’ombrellone o della sdraio che se li portasse da casa. Per alcuni decenni gli ordini dello pseudo-re generoso furono osservati e Roma potette vantare una spiaggia da dolce vita, ma il sindaco di prima si comportò da strega cattiva, violò le prescrizioni del donatore e annullò il dono, gelò il paesaggio, lo riempì di merci, ciarpame cheap, privatizzò la spiaggia. Così nell’eden apparvero migliaia di lettini tutti uguali e gente allettata come in ospedale, e scritte burine di «beach» ovunque, e fontanelle secche per fare arricchire bar e ristoranti grandi e invadenti come in un centro commerciale, e rumori d’ogni genere, anzi il sindaco attuale si mise a finanziare palchetti e ballerini che vi sculettavano sopra mentre gli amplificatori diffondevano il techno suono fin tra le onde a disturbare e confondere i pesci.

Di giorno i principali monumenti della città sono circondati da uomini e donne mascherati da antichi per chiedere soldi, il «primo cittadino» è dalla loro parte, a rovesciare la storia di Roma in farsa commerciale, ad allestire la quotidiana atellana triviale. Di notte il sindaco fa imbrattare le strade con le sue scritte e i manifesti del suo partito. Anche sulle tabelle dei bus mettono la pubblicità personale del boss capitolino e dei suoi compari. Lui, equanime, non cancella neppure quella degli avversari e Roma appare tutta una bruttura.

Di tanto in tanto mi irrito perciò con un simile personaggio, gli impreco contro, da solo o in compagnia di altri snervati. Poi mi dico che questa gente infelice, come quasi tutti i politici, non deve rovinarci le ore fulgide che il Cielo concede agli abitanti di Roma. Provano a deturpare, offendere, intralciare, immalinconire la città eterna ma l’eternità non si lascia coinvolgere troppo dai gesti arroganti: ne ha visti innumerevoli ed è sopravvissuta loro allegramente. Né gli abitanti, scetticoni come sono, presterebbero mai fede alle ipotesi tedesche secondo le quali l’Italia amministrata da menti germaniche sarebbe perfetta. Anzi, questa idea di perfezione ci turba, il paradiso in terra sembra blasfemo e innaturale. Per una valle di lacrime come è questo mondo lo splendore di Roma suona già abbastanza eccentrico. Che i bus scorazzino pure selvaggiamente, che i tempi si allunghino in una parodia di eternità, che gli ometti con la fascia tricolore provino a ridurre l’urbe alle loro misure: non servono neppure da contrappeso a quella gloria, non pareggiano con tali miserie la fortuna incredibile che abbiamo, il piacere di essere qui.

lunedì 30 luglio 2012

Il bello come viatico

~ LE STELLE DI SAN PIO ~

Gli stiliti, mistici del cristianesimo orientale, passarono la vita sulle colonne senza contemplare la terra e neppure il cielo. Performances negative asservite all’ineffabile che rimaneva tale, silenzioso, sfuggente, neoplatonico. Altrettanto astratti furono i furori della mistica germanica, quella dei maestri di Lutero, i teologi del sine modis che respingevano l’arte per amore di un buio divino. Narrano invece i testimoni che, sentendosi morire, san Pio da Pietrelcina chiese ai suoi confratelli di essere condotto sul terrazzino del convento per guardare un’ultima volta il cielo stellato. Colui che aveva impressi i segni fisici di Cristo nel corpo, che mescolava il miracolo della santità con le assai prosaiche questioni del sangue, volle vedere lo spettacolo del creato qualche istante prima di varcare la misteriosissima soglia del Paradiso. Il bello come viatico per il cielo: ‘fioretto’ di un santo meridionale, di un seguace di Francesco d’Assisi. Nel cattolicesimo il firmamento notturno o il mare luminoso sono anticipazioni del Paradiso, immagini create da Dio, un dono celeste per gli umani. Il nostro maggior santo contemporaneo, in mancanza di artisti, ce lo ricorda, riconsacrando il senso della vista tanto bistrattato dai teologi post-conciliari.