mercoledì 23 luglio 2008

Maria, nostra seconda Venere

ELOGIO BRITANNICO DELL'URBE, DOVE CERTE STATUE SONO PIÙ VIVE DI CERTI UOMINI OTTOCENTESCHI. UN APOLOGETA DEL PAPATO SI ESERCITA SULL’«ANTICO PALCOSCENICO» A ROVESCIARE I LUOGHI COMUNI CONTRO ROMA

La cultura dispotica degli ultimi secoli si è accanita contro il papato, contro la religione romana. Sulle rive del Tevere, ci si difende a stento, mostrando rossori e imbarazzi, cercando vane giustificazioni mentre viene accettato il punto di vista avversario; si chiede scusa e si è aggrediti dalle richieste insolenti di sempre ulteriori scuse, per esempio di esistere ancora alla ragguardevole età di duemila anni. Qualcuno provò a rovesciare il gioco: mettiamo che a un certo punto della storia umana il papato fosse scomparso, che ne sarebbe stato di molte glorie dell’Occidente? A cominciare dall’arte. Altro che parlare di censure, di qualche mutandone – ma poi i Musei vaticani, dice l’attuale direttore, grazie alla cultura cattolica sono quelli che possono vantare il maggior numero di nudi, donne e uomini –, di eccessi di zelo ciclici e fuori luogo (ché il puritanesimo era la religione degli avversari protestanti), qui si tratta della stessa esistenza dell’arte, della sua forma, della sua sopravvivenza. «Mi basta affermare che se [il papa] ebbe torto, la civiltà europea nella quale viviamo è la trascurabile conseguenza del suo errore».

La citazione risale agli anni trenta del Novecento, oggi – punitivi come si è nei confronti della stessa civiltà europea – si insinuerebbe magari che si tratta di una denuncia della malvagità occidentale in chiave ironica. Ma Gilbert Keith Chesterton l’ironia la mise al servizio dell’apologetica cattolica. E durante un soggiorno a Roma nel 1928, il viaggiatore inglese provò, sull’«antichissimo palcoscenico», dove «certe statue cinquecentesche sono più vive di certi uomini ottocenteschi», a rovesciare le vecchie accuse dei suoi connazionali, difendendo la capitale mediterranea con argomenti anche pagani. Ne venne fuori un libro polemico, sovrabbondante di paradossi, The Resurrection of Rome, dimenticato in tempi di irenismo, resuscitato senza alcun clamore nel 1995 da un piccolo editore, il milanese Istituto di Propaganda libraria, ricondotto subito nel silenzio dei depositi delle biblioteche, nonostante l’esuberanza ciarliera, rintracciabile comunque nel web (se ne raccomanda l’acquisto e la lettura, stendendo un velo misericordioso sulla veste grafica).

Però una gazzetta romana delle arti non può lasciare sepolte le argomentazioni dello scrittore britannico a favore della iconofilia del vescovo di Roma, ne estrae alcune, un appunto appena, rinviando al libro per il piacere dei suoi ragionamenti. Chesterton non era un esperto accademico di storia dell’arte (ma Borges lodava le sue intuizioni in questo campo e ricordava i suoi esordi come pittore), né faceva mostra di intendersene, ma come Piranesi, preferiva la civiltà romana a quella greca. Magari nel suo caso intervenivano affinità di fede, scelte ideologiche si direbbe adesso, fatto sta che seppe cogliere nell’arte greca una severità sconosciuta ai romani (la Venere di Milo, diceva, è già «senza respiro»), severità che si sarebbe tramutata in ascesi, via via che il platonismo si irrigidiva nei vari misticismi dei plotiniani, fino a giungere al rifiuto di quella scultura che fu il suo massimo vanto, fino ad annullare la plasticità, a cancellare l’immagine, alla iconoclastia insomma. Il proibizionismo dell’ottavo e nono secolo d.C., pervaso di platonismo, fu anzitutto disumano. «L’astratto spirito greco aveva in sé qualcosa di duro; sotto un certo aspetto la stessa reale durezza della repubblica di Licurgo esisteva anche nell’ideale repubblica di Platone». Proprio come il proibizionismo americano del primo Novecento – sosteneva Chesterton – indifferente verso «le debolezze, i sentimenti e le abitudini umane». Il proibizionismo non fu creato dai sacerdoti, «ma di solito disapprovato da essi; il proibizionismo – divagava Chesterton alla sua maniera – venne introdotto da una democrazia politica moderna o meglio da una ancor più moderna plutocrazia. In maniera molto simile a quella con cui il potere laico di un intero continente proibì formalmente ogni bevanda alcolica, il potere secolare del grande impero greco proibì formalmente tutti i fantocci e le immagini scolpite. E Roma rifiutò di approvare tanto l’antico veto che il nuovo». Come avrebbe potuto respingere l’immagine umana, in cui si incarna il Verbo, e il vino che è parte integrante del banchetto eucaristico? Dall’altra parte, contrapposta a quella greca, la scultura della antica Roma: nella invenzione del genere di ritratto a mezzo busto c’era «un’aria umana, spiritosa e amichevole». Quando fu la volta dei cristiani nel governo della vecchia capitale imperiale, essi non temettero di incamminarsi sulla strada plastica dei pagani. I papi ordinavano la statua del predecessore, si formò «una processione di statue, quasi una genealogia marmorea». Se non fosse stato per loro, «questa città che mi circonda con vivacissime immagini, ottime, brutte o indiffererenti, sarebbe ora nuda come le piramidi».

Chesterton riteneva giustamente che fosse poco nota la storia di queste avventure delle immagini, della scelta fatidica del cristianesimo romano e quindi del mondo moderno – in cui anche chi critica il culto delle immagini si bea allo stesso tempo dell’immaginazione – e provava perciò ad accennarne i punti-chiave, naturalmente con un profluvio immaginifico, con un tono che ci ricorda il nostro Savinio quando parlava familiarmente degli dèi e trasformava le res gestae in soavi leggende ricche di figure. Risolvendo come lui i saggi in letteratura, narrava Chesterton: «Al tempo di cui parlo, la situazione era come segue: il ‘padrone del mondo’, il re dei re che quasi neppure la rivoluzione cristiana aveva fatto decadere dalla sua posizione semidivina, imperialmente prestava protezione e simpatia a questo nuovo e spoglio ebraismo d’oriente e appoggiava i nuovi puritani contro il papato. Avendo alla spalle Cesare e la civiltà, questi uomini scesero in campo per infrangere le statue d’Italia quasi fossero gli idoli di qualche barbara terra ai confini dell’Asia, condannati da un califfo dell’Islam». Si sentivano molto superiori culturalmente gli iconoclasti, sdegnosi verso l’umanità che venera le figure, con la medesima prosopopea che astrattisti e ogni sorta di avanguardisti ebbero nei confronti della tradizionale pittura figurativa, per via di una sottesa gerarchia dove lo spirituale svettava libero mentre il ricorso alla figura e la mimesis che comportava era un segno di soggezione alla materia, al corpo. Sennonché la Chiesa cattolica, corroborata dalla cultura romana, non respingeva il corpo, non lo reprimeva come voleva il pensiero stoico: liberazione del corpo prometteva il messaggio evangelico, non liberazione dal corpo secondo l’ascesi greca. Quel sì del papa alle immagini, dunque, quello schierarsi nella battaglia contro lo spiritualismo orientale, contribuì come poche cose a formare l’immagine dell’Occidente.

Anche le decisioni teologiche dei concili disegnarono il nostro immaginario con ben maggiore incisività dei trattati politici e militari. Chesterton provò a metterlo in luce: «la fruttivendola pensa a Cristo (se pur vagamente) come a qualcosa di umano e insieme di divino; ma sarebbe del tutto infruttuoso chiedere alla fruttivendola quali siano per lei i risultati pratici del trattato di Utrecht». Così come «quando i dogmatici tracciarono una fine distinzione tra la specie di onore dovuto al matrimonio e quello dovuto alla verginità impressero sulla cultura di un intero continente un definitivo disegno in rosso e bianco che a taluni può non piacere ma che tutti, pur odiandolo, sono costretti a riconoscere». Lo stesso si può dire per la gran parte dei nostri princìpi. Perfino le sottilissime suddivisioni tra venerazione e idolatrica adorazione dell’immagine ci entrarono in testa senza accorgercene, sottraendoci man mano al pensiero magico ma educando il contadino ancora brutale – come scriveva Novalis con commozione – a togliersi il cappello davanti al volto riprodotto di Maria, nelle edicolette votive sparse per la campagna sul modello pagano, a rendere omaggio devoto a una donna. Ed è soprattutto sulle conseguenze dell’iconofilia – a cominciare dal Rinascimento – che Chesterton studiava di suscitare attenzione: «Sono in una città affollata di chiese e ogni chiesa è affollata di statue. Le vie sono sbarrate da fontane circondate da tritoni e sormontate da santi. Ma è specialmente nelle grandi chiese disegnate come templi classici che troviamo quell’esuberanza del realismo classico ricco di tutto fuorché di classica serenità. Per certuni, e specie per coloro che amano il nordico misticismo del gotico, questi marmi tumultuosi e multiformi hanno qualcosa di opprimente e perfino di ripulsivo e quasi insopportabile […]. Ho conosciuto qualcuno che arrivò a odiare talmente tutto questo da finire con il considerarlo come una bianca lebbra marmorea che avesse colpito la città affollandola di figure di giganti lebbrosi che si divincolano e gridano come indemoniati, ma si trattava di gente dalla mente ristretta e un po’ pazza; e val la pena di notare che chi odia tanto la rinascita classica potrà essere un medioevalista ma non sarà mai cattolico». Perché cattolico, cioè universalista, significava aprirsi classicamente anche al paganesimo, faceva intendere GKC, disputando in tal modo con i filogotici, come erano da sempre i protestanti, che nel Novecento stavano facendo breccia nel cattolicesimo e suscitavano iconoclastie private e interiori, avversioni soffuse nei confronti della cultura romana, dello splendore materiale del Rinascimento, della finzione barocca. Fu un vero mistero della Provvidenza che a celebrare la bellezza di Roma venisse alla ribalta, grasso e solenne come Alfred Hitchcock (altro geniale cattolico), un britannico cresciuto tra gli estetismi moralisti ed esangui dei Ruskin, e che proprio per una esatta conoscenza del loro modo eretico di ragionare sapesse colpire tutti i bersagli d’oltremanica e in generale dell’Europa nordica.

Insegna e scandalo del cattolicesimo, la statua diventava l’«emblema del tutto umano dell’umanità», si ergeva «al centro del cristianesimo, prototipo della realtà che guarda in tutte le direzioni, che si può guardare da ogni lato». Un tale elogio della tridemensionalità cadeva a proposito mentre perfino da parte cattolica, con gusto esotico, scarsa conoscenza e intenzione antistorica, ci si innamorava delle icone orientali, icone la cui faccia «appare veramente quella di uno spettro che si può chiamare una apparizione: guardata di traverso è distorta e scompare». Qui come altrove, lo scrittore provava fastidio per «la malsana purità e quella raffinatezza ultraterrena tanto più blasfeme del virile materialismo di san Tommaso che Cristo onorò in una prova». Il materialismo romano chiedeva di «prestar fede ai nostri occhi». E l’arte barocca ricorreva ai più eccelsi artifici per privilegiare il senso della vista.

Per GKC la Chiesa ci fa divertire «con libri illustrati, per la ragione che non possiamo sopportare a lungo la fatica di comprendere ogni cosa per mezzo di diagrammi». In questo senso il barocco era una battaglia scatenata contro i luoghi elevati della città, della spiritualità troppo arida, per la fede sensuale del popolo romano. «È davvero come se dei giganti avessero incendiato pietre e bronzi e fatto rotolare nel fumo le colonne vacillanti e rovesciato cascate di marmi fusi come gli antichi combattenti facevano precipitare le colate di piombo. La chiesa usa e consuma gli elementi della terra bruciando l’oro e le altre materie sfarzose in un’unica furiosa battaglia alla conquista della popolarità». Una «splendida volgarità» per testimoniare la resurrezione dei corpi e anche la perpetua resurrezione di questa città. Ma nelle chiese romane, aggiungeva, vi si trova anche quella «leggerezza latina che non si deve confondere con la frivolezza». A causa della «leggerezza latina», della sapienza latina, «è perfettamente cattolico» considerare Maria come la seconda Eva ma anche la seconda Venere «e che essa comprende tutta l’umana tragedia della caduta e della infruttuosa ricerca pagana della felicità». Del resto, «le vesti del sacerdote all’altare sono essenzialmente le vesti di un uomo dell’antica Roma e persino della Roma pagana». Hofmannsthal aveva scritto che la Chiesa cattolica era l’unico legame diretto che ci restava con il mondo classico.

«Non credo quindi che il papato ebbe torto se, una volta deciso di andare incontro alla natura umana nel campo delle cerimonie, fissò un cerimoniale splendido. Non vedo quale vantaggio sarebbe derivato da un cerimoniale meschino o indeterminato o di infimo grado o logoro». Non era soltanto un mecenate delle arti occidentali il papato, sembra concludere GKC, ma l’autorità che ne stabiliva la forma, oltre naturalmente a offrirne il contenuto, le variegate storie orientali della salvezza. Roma testimoniava al più alto grado lo stile cattolico.

Qualcuno se ne accorse anche da noi: «Non cesserò mai di ripetere che il solo altissimo prestigio del nostro Paese nel mondo è dovuto alla presenza fisica della Chiesa cattolica e del suo Princeps, a Roma, in Italia. All’infuori di questo prestigio in Italia non c’è altro. C’è la mafia, alcuni prodotti alimentari, un po’ di canzoni. Ma questo non è prestigio internazionale, questa è bancarella [...]. Tra il prestigio internazionale della Chiesa cattolica e quello della bancarella di prodotti folkloristici c’è un’immensa, incolmabile differenza di stile. Anzi, non c’è nemmeno differenza, perché lo stile sta da una parte sola. [...]. Uno stile da così lungo tempo avvezzo al potere che si è fuso con esso, uno stile depurato con i secoli da volgarità e scorie, dall’esercito dei parvenus politici da cui siamo afflitti noi laici». (Goffredo Parise, Verba volant).

venerdì 18 luglio 2008

Idola / Soggettività

LA PRIMA DI UNA SERIE DI BREVISSIME RIFLESSIONI INTORNO AGLI IDOLI DELLA NOSTRA EPOCA, CON LE PAROLE DI TESTIMONI ECCELLENTI.
«Nulla era rimasto all’infuori degli stati d’animo»: la frase riecheggia una lugubre definizione del viennese Otto Weininger che, ventenne inadatto al mondo nuovo, di ritorno da un viaggio in Italia, si era tirato un colpo di pistola nella abitazione di Beethoven, all’alba del Novecento: «L’arte contemporanea – diceva infatti il suicida – non rappresenta che un sudario degli stati d’animo dell’artista». L’autore del nostro incipit era un altro abitante del sensibile Impero austro-ungarico, ebreo come Weininger. La frase continuava: «All’interno dei singoli e nei rapporti tra i singoli non c’eran che stati d’animo, tutti dello stesso rango e della stessa importanza. Tutto dipendeva dai punti di vista, esistevano solo delle congetture e delle opinioni individuali. […] Tutto aveva perso il suo carattere univoco, perché tutto era soggettivo; le informazioni avevano smesso di significare qualcosa e di escludere la possibilità di affermazioni contrarie; in questo mondo tutto riusciva a convivere, non esisteva nulla che fosse in grado di escludere alcunché». Un apocalittico che una volta tanto non si compiaceva del nichilismo in cui si stava sprofondando? Un critico letterario che sapeva cogliere nelle arti del tempo i sintomi della malattia che stava dissolvendo le arti: «Questo sentimento di vita doveva per forza esprimersi mediante un’arte basata sulle sensazioni, in cui si comunicano le esperienze vissute e si dà voce soltanto a ciò che è soggettivo e istantaneo». Letterati e artisti, espressionisti e futuristi si accendevano per i mondi legati ai soggetti, per i mondi proliferati, escrescenze del soggetto, e per la somma velocità contratta nell’istantaneo; il pensatore austro-ungarico se ne doleva nella gaia Budapest e nelle varie capitali europee in cui, rampollo della buona borghesia, faceva il suo apprendistato. Distante dalle mode – perfino a un loro critico come Karl Kraus, quando lo aveva invitato a scrivere sulla sua esclusiva Fackel, aveva detto di no per sprezzo di ogni giornalismo –, poteva sembrare un eroe della soggettività, un eroe romantico, ma della produzione caotica di quei soggetti sfrenati esprimeva il suo elegante rifiuto. «La libertà assoluta è il vincolo peggiore», si trattava dell’asservimento all’attimo. «Così – scriveva – tutto divenne arte delle superfici: superfici dietro le quali non si nasconde nulla, che non significano nulla, non esprimono nulla, si limitano ad esserci e, in modo indistinto e casuale, a produrre degli effetti in qualsiasi maniera, purché facciano effetto. L’arte delle superfici non poteva essere che l’arte delle sensazioni, un’arte che nega l’approfondimento, la valutazione, il discernimento. Sorsero delle nuove categorie, categorie paradossali: il nuovo e l’interessante, assunti a valore, in quanto soli valori esistenti, e destinati ad autoannientarsi nell’attimo stesso della loro realizzazione». Georg von Luckács, ancora con un von nobiliare concesso dall’imperatore alla ricca famiglia ebrea – o Lukács György, all’ungherese, prima il cognome e poi il nome – scriveva simili condanne dell’arte modernista che, a distanza di un secolo, acquistano ben maggiore lucentezza.

Non ancora marxista («il socialismo non possiede l’impeto religioso presente invece nel cristianesimo primitivo»), non più religioso, denunciava quella soggettività su cui si pretendeva fondare l’arte novecentesca e i suoi paradossali esiti: l’«interessante» e il «nuovo» che, a dire il vero, già Friedrich Schlegel e la sua schiera romantica aveva istituito come categorie dell’epoca a venire, ma che oramai stavano diventando una ossessione, «soli valori esistenti», appunto, «paradossali». Cento anni di ripetizione, la novità forzata che è diventata déjà vu, il vecchio del nuovo, dunque, il nulla come unico senso: anche queste contraddittorie parabole dell’arte sono chiare al ventisettenne Lukács quando scrive, nel 1912, Esztétikai Kultura, Cultura estetica come suona la traduzione italiana (Roma, 1977), da cui sono tratte queste lunghe citazioni. Intuendo come sarebbe andata a finire, il geniale ragazzo anticipava: «Tutto quanto è nuovo e interessante, lo è già meno nell’attimo stesso in cui si realizza; e ad ogni attimo che passa, di fronte a ogni somiglianza, a ogni ripetizione, lo è sempre di meno, fino a perdere del tutto il suo carattere sensazionale e il suo valore: non provoca più nessun effetto, è morto, non esiste». Sempre, uscendo da una Biennale o da Documenta di Kassel, si prova la medesima sensazione del giovane Lukács anche se pochi hanno voglia di ammetterlo (e di trarne tutte le conseguenze): non provoca più nessun effetto. Ma all’ingresso di simili esposizioni dovrebbe essere scritta, a caratteri di fuoco, la sentenza dell’ungherese: «è morto, non esiste».

Forse nulla infastidiva maggiormente il pensatore tedesco come la principale conseguenza del soggettivismo trionfante: «In quest’arte non esistono le forme, perché la forma è univoca ed esclude sia le forme diverse sia ciò che non ha forma; perché la forma è il principio della valutazione, del discernimento e della creazione di un ordine». Impressionismo e nichilismo andavano a braccetto e provocavano un disordine mortifero. «Una percezione del mondo che non conosca la resistenza della realtà, che non si renda conto della forza in sé delle cose estranee all’io» è roba da esteti. E gli oggetti cessano di esistere, vengono «ridotti a occasioni»: Carl Schmitt, nel suo Politische Romantik, del ’19, centrava a sua volta quelli che considerava gli inganni del romanticismo soggettivista proprio nell’occasionalismo. Contro questa tendenza percepita dai più come innocuo varietà delle metamorfosi dell’arte, Lukács leva un appello accorato: «Abbiamo un grande desiderio di continuità, di riuscire a misurare i nostri atti, di rendere univoche e controllabili le nostre affermazioni…». Se la follia della avanguardie rende la vita impossibile, se il surrealismo si spingerà a idolatrare anche la malattia mentale come se fosse un gioco, egli all’opposto testimonia «la fede nel fatto che esiste qualcosa di tangibile e di costante nel turbinìo degli attimi, la convinzione che esistono delle cose e che queste posseggono una sostanza», basta tale fede «a escludere l’impressionismo con tutte le sue manifestazioni». Gli scettici ridono da tempo di simili affermazioni che smontano i loro miseri loisirs, negano con tutte le forze che tali argomenti possano avere ormai - sentenziano sempre a colpi di ormai - una qualche rilevanza.

Più grande stima sembrano avere tutti, avanguardisti compresi, per Franz Kafka che, all’incirca in quegli stessi anni, scriveva Beim Bau der chinesischen Mauer (Durante la costruzione della muraglia cinese) dove l’autore, in opposizione alla dominante idolatria dell’io, alla teologia dell’ego, si nascondeva nell’anonimato di un cronista, riduceva la letteratura a scolio, a umile glossa di una scrittura sacra, parlava di artisti al servizio della casta dei capi, celebrava l'epica impresa del popolo, dava per scontata la possibilità che il vecchio ordine fosse insensato, che il suo massimo garante, l’imperatore/Dio, magari moribondo o addirittura morto come voleva Nietzsche, mostrasse la parabola chenotica, epperò il singolo era sorretto dalla coscienza di far parte del corpo mistico della comunità: «Petto a petto, un cerchio del popolo, sangue, non più racchiuso nel meschino circuito del proprio corpo, ma sangue che scorre dolcemente e scorrendo ritorna attraverso la Cina infinita».

Lukács si ritirò ben presto da questo mondo all’insegna della soggettività. «L’unica speranza che potremmo ancora avere […]: che sopraggiungano dei barbari i quali mandino brutalmente in frantumi tutte le raffinatezze…». Mise allora le sue carte in un caveau di una banca svizzera e andò a iscriversi al partito comunista, forse per affrettare tale barbarie apocalittica. Si piegò allo stalinismo pur di fuggire alla dittatura dell’impressionismo; altri, come Carl Schmitt, per cancellare ogni traccia di individualismo romantico, finirà per qualche tempo nel partito nazional-socialista. L’abbaglio delle scelte estreme, della militanza nei partiti totalitari, nasceva anche dalla nausea per il futile mondo soggettivo. Fu una tragedia moderna.

martedì 8 luglio 2008

Il vizio nel museo. L'accidia


«DAL MOMENTO CHE NON DIAMO PIÙ ALCUNA IMPORTANZA AL SENSO, AL VALORE, AI POTERI E AI PERICOLI DELL’IMMAGINE, CONCEDIAMO ALL’OPERA D’ARTE LA LICENZA DI ESSERE INSIGNIFICANTE». JEAN CLAIR SCRIVE IL SUO UNBEHAGEN IN DER KULTUR E MEDITA SUI MUSEI, ORMAI «LUOGHI DI CULTO PER PERSONE INCOLTE».

In origine furono i dandy a preferire i cimiteri ai musei contemporanei, poi fu la volta di Paul Valéry, maestro di rarissima eleganza del pensiero, a mostrare aristocratica indignazione per i rituali popolari dei pellegrinaggi alle quadrerie, ora è Jean Clair a parlare del disagio in simile luoghi: Malaise dans les musées, (Flammarion), l’Unbehagen in der Kultur dell’estetica, saggio «nato da un disincanto» e significativamente datato «Pentecoste 2007», quasi a invocare lo Spirito Santo e i suoi doni per affrontare la grande questione dell’arte oggi e delle sue dimore.

Nelle sue celebri Considérations sur l’état des beaux-arts, tradotto da noi in Critica della modernità, aveva già sfiorato la faccenda: «all’alba del secondo millennio il monaco Glaber guardava con meraviglia ‘il bianco mantello delle chiese’ distendersi sull’Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l’Occidente». E offriva dei numeri su cui riflettere: «Nel corso degli anni settanta, è stato costruito in media in tutto il mondo un nuovo museo per settimana». Trend che si è intensificato nell’ultimo ventennio. «Nell’XI secolo il culto delle reliquie aveva accelerato la costruzione delle abbazie e stabilito nuove vie di comunicazione. Oggi è il culto delle opere d’arte che spinge a costruire i nuovi templi e regola le grandi transumanze culturali del turismo occidentale». L’opera d’arte si secolarizza, anzi pretende banalizzarsi insulsamente, mentre procede la museificazione del quotidiano.

Da oltre un secolo l’Occidente proclama ‘la morte dell’arte’ e spende molto per i suoi cimiteri, i musei. Se ne era già accorto Ernst Jünger, approfondendo la questione nelle meditazioni di Das Abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso, 1929). In quella raccolta di «Figurazioni e capricci», come recita il sottotitolo, c’è uno scritto intitolato «Nei musei». L’occhio addestrato di Jünger si posa su tali luoghi enigmatici. Non si tratta di un saggio, brividi di terrore ne accompagnano la lettura. Andrebbe riportato per intero, riprendiamone almeno l’essenziale, ma anche taluni dettagli, come l’incipit: «La visita dei musei ha sempre qualcosa d’inquietante e spesso di angoscioso». Talvolta, le avanguardie avversarono il museo come spazio ‘borghese’, salotto della città per riti festivi, Jünger ne afferra l’aspetto labirintico. Conoscitore dei meccanismi religiosi, sa individuarlo anzitutto come il tempio degli atei: «A volte ci permette di osservare tratti commoventi, come il contegno che il libero pensatore ateo assume dinanzi al calco dell’archeopteryx». D’altra parte, se il museo diviene il tempio dell’ateo, la chiesa cristiana si trasforma in museo. Jünger prevede quello che, nella fine Novecento, sarà un processo completamente dispiegato: «c’inganniamo facilmente anche a proposito della forza e dell’ampiezza che l’impulso museale ha assunto e continua ad assumere di giorno in giorno. Si può avere un’idea della mostruosa bramosia che domina in questo campo di attività, quando si pensi al modo in cui le chiese si stanno trasformando in musei. Innumerevoli sono oggi coloro che indagano la realtà partendo da un punto di vista tendente a conferire ad ogni oggetto la fisionomia di un oggetto da museo, e anche le chiese rientrano in tale prospettiva». La faccenda è centrale nella storia del Novecento, riguarda la concezione del tempo ma anche la concezione della natura: «La zona centrale in cui l’impulso museale agisce è la protezione della natura e dei monumenti, e qui si crea un’area tabu sempre più estesa, coinvolgente una quantità sempre maggiore di oggetti, dal più piccolo insetto fino a parchi nazionali grandi come intere regioni. Oggi esistono alberi, boschi, stagni, case, villaggi, città, uomini, posti sotto il manto protettivo di un tabu da museo, e neppure la più ardita fantasia può individuare nei suoi giusti termini questo sforzo di circoscrivere in una zona intangibile una tale massa di cose viventi e morte». Neppure i filosofi abituati da Marx a scrutare il potere dell’inanimato sul vivente si accorsero di questa zona intangibile. «Degno di nota – aggiunge Jünger – è anche lo stretto parallelismo tra questo mondo conservato sotto campane di vetro e un altro mondo in cui la selvaggia crudeltà e l’ampiezza della distruzione quasi non conoscono più limiti». Il mondo nella teca, della conservazione, e quello della distruzione assoluta sono, oltre che paralleli, guidati ambedue da una stessa scienza. «Un segreto rapporto lega questi due mondi […] lo spirito da museo rappresenta forse una sorta di assicurazione contro le deviazioni della civiltà». E rivela «la parentela che il nostro regno dello spirito da museo ha con i grandi culti mortuari e tombali; essa diverrebbe anche più evidente se si trasportasse parte delle collezioni in stanze sotterranee». Con parole quasi identiche a quelle con cui i marxisti descrivevano il vampirismo del capitale sulla forza-lavoro, Jünger scrive: «Nell’impulso museale si esprime la parte mortifera della nostra scienza: una tendenza cioè a collocare ciò che è vivente nell’ambito dell’immobile e dell’invulnerabile, e forse anche il desiderio di compilare un enorme catalogo di materiali, penosamente ordinato, tale da lasciare ai posteri un fedele specchio della nostra vita e dei suoi più ramificati interessi. Ciò ricorda l’inventario trovato nella tomba di Tutankhamen». Nelle nostre sovrintendenze operano dei sacerdoti egizi. (La ricostruzione di questi frammenti jüngeriani è ripresa quasi integralmente da Il classico violato. Per un museo letterario del Novecento, Roma 2004)

Jean Clair parla invece di accidia, il vizio dell’indifferenza che procura melanconia, il cinismo dei pigri. Nel frattempo, il visitatore avvenuturoso è diventato uno del gregge turistico, senza più brividi, anzi chiassoso e insolente, che neppure si accorge di essere penetrato in un mondo tombale. I musei si trasformano in «luoghi di culto per persone incolte», a cominciare da coloro che se ne occupano per professione. Non si incontrano più uomini di cultura bensì funzionari culturali, una immensa schiera al servizio della economia dell’immateriale (ci vorrebbe il sarcasmo di Marx per flagellare questa nuova religione del Capitale, la più ascetica). Traffica con moda e affini, la pletora dei funzionari culturali, secondo la lezione perniciosa dell’entertainment business del Guggenheim (ma allora, se si tratta di immensi showroom di merci e nient’altro che merci, sia pure estetiche, perché mai lo Stato o le altre istituzioni dovrebbero contribuire anche con un solo euro?). Ad Abu Dhabi, gli emiri insieme alla rubinetteria d’oro si concedono naturalmente un Guggenheim – questi Diseneyland (ma quanto meno amabili) del nostro tempo – e addirittura un Louvre, nonostante le proteste dell’illustre storico francese contro il «simonismo» dei funzionari, un Louvre fatto di prestiti, di quadri sempre imballati e imbarcati, trionfo del provvisorio, che circolano come ogni merce che si rispetti, girano come i mulini di Novalis, vieppiù estranei alla cultura del nuovo pubblico, che li accoglie solo come griffe di una misteriosa, un po’ noiosa quanto lucrosissima azienda di creativi: l’arte. C’è già chi si è dato esplicitamente alla prostituzione: l’Ermitage di San Pietroburgo, diseredato dal regime postcomunista, per pagare gli impiegati, mette sulla strada le sue opere, le affitta a mezzo mondo, si svende in particolare ai potenti di Los Angeles. Un giorno forse sarà Las Vegas, tra un casinò e un Caesars Palace per incontri mondiali di boxe a rappresentare il luogo di arrivo delle vecchie tele, tirate a lucido dai lenocini dei restauratori (anche se per adesso un simile tentativo del Guggenheim è fallito). Ha ragione Jean Clair, se «le divertissement est la satisfaction rapide d’un désir immédiat», la visita attuale ai musei, lo sguardo fulmineo, il bigotto passar davanti a quello che si crede riconoscere, «la ghiottoneria oscena dello sguardo», sarà il preferito dei divertimenti di massa, anzi il principale divertimento pornografico. Antonio Paolucci, appena salito alla carica di direttore dei Musei Vaticani, mostrava subito il suo stupore: si era accorto che le truppe dei visitatori, guidate dalle urlanti guide, Erinni novelle (torce e fruste sembrano infatti agitare nelle mani, e forse puniscono con tali visite la tracotanza moderna degli umani), accorrevano da Michelangelo, saltando, anzi ignorando quelle divine Stanze raffaellesche che furono la meta prediletta di tutti i viaggi in Italia che contano. «Quale uomo di scienza ammetterebbe all’Istituto Pasteur […] tanti profani nei suoi laboratori?», si chiede Clair, e perché allora si propaganda l’invasione delle masse nelle sale dei musei? Nel migliore dei casi, questi pubblici «amano quello che non sanno neppure guadare». Dall’altra parte, il museo appare impotente a far comprendere al suo pubblico il senso di quel che contiene.

Per carità, non si immiserisca la questione buttandola nel sociologico. Clair insegna che la cancellazione del significato originario dell’opera d’arte – prima ancora che per ignoranza, o per la supponenza di chi scarabocchia su queste solenni testimonianze della tradizione con il punteruolo della psicoanalisi o della antropologia – sta nella «reductio ad aestheticam», ossia in quello che sintetizza con «l’arte per l’arte, il gusto di moda, la sensazione, fin nelle sue forme degenerate che sono il sensazionale, lo choc, la sorpresa, per finire con l’immondo». Ecco allora il museo diventare lo spazio dell’accidia. Come sottrarsi a questa estetizzazione universale, alla feticizzazione della forma? L’apologeta di Duchamp stupisce qui i suoi lettori, pure abituati con lui al ragionare mai scontato. Jean Clair parla della radice religiosa dell’arte. Perciò, per non ridursi all’approccio estetico, è necessaria «una sottomissione […] prima di ogni forma di ammirazione» poiché «l’arte rinvia sempre a una trascendenza, guarda verso un Dio senza speranza di raggiungerlo. Ciascuna figurazione è il crogiolo della contemplazione divina».

Il disagio dei musei ha la sua radice nel problema delle immagini. «Dal momento che non diamo più alcuna importanza al senso, al valore, ai poteri e ai pericoli delle immagini, concediamo all’opera d’arte la licenza di essere insignificante. La pseudo libertà d’espressione dell’arte moderna, l’audacia dei suoi soggetti, l’autonomia presunta delle forme che la compongono non sono altro che i resti di una funzione che non è più distinguibile». L’accidia, uno dei sette vizi capitali nel catechismo cattolico, non riguarda soltanto quei lunapark che chiamiamo musei contemporanei, si diffonde ormai anche nei templi dell’arte passata: «Ma la nostra impunità nei riguardi della fabbricazione di immagini, la paghiamo con il prezzo della nostra impotenza. Le immagini che creiamo, riproduciamo, diffondiamo, esportiamo ed esponiamo sono infinite, senza limite e senza legge, ma è nella misura in cui esse sono diventate ai nostri occhi inoffensive e insignificanti». Se la cosiddetta arte contemporanea è «un idiotismo che esprime i capricci infantili di un individuo che crede di non dovere niente a nessuno», l’unico senso dei capriccetti degli adulti risiede nel gioco economico, nella macchina museale per far soldi. Anche questa è una forma di iconoclastia, che si estende ai quadri del passato: oggetti leggeri, estetiche deboli, appena un fremito per effimere emozioni.

venerdì 4 luglio 2008

Il Nuovo Mondo e l'antica Roma

IN OCCASIONE DEL 4 LUGLIO, INDEPENDENCE DAY, FESTA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA, CI PIACE PUBBLICARE LA TRADUZIONE DI UN SAGGIO DI ROGER CAILLOIS, «DAVANTI AL NUOVO MONDO», USCITO IN FRANCESE NEL 1946 E, CREDIAMO, ANCORA INEDITO IN ITALIANO

Invece di rassicurarlo, il Nuovo Mondo inquieta l’antico. Le riviste culturali più serie e più importanti annunciano volentieri dei numeri speciali dedicati agli Stati Uniti. Non so che cosa contengano. Ne prenderò conoscenza con la più viva curiosità, ma non senza apprensione. Di solito, infatti, si riconosce a questo paese tutti i meriti che si ritiene avere il diritto di poter disprezzare: l’efficienza tecnica in primo luogo, quindi quelle qualità secondarie che, procedendo dal metodo, dalla pazienza o dall’applicazione, non sembrerebbero generare altro che dei risultati a loro immagine, utili e mediocri come queste, finalizzate soltanto a una buona e saggia e serena organizzazione delle competenze e dei lavori.
Si ammette così che gli Stati Uniti rappresentino una sorta di barbarie meccanica in cui il denaro sarebbe la misura di ogni cosa e da cui si troverebbe naturalmente bandito ogni slancio, ogni poesia, ogni autentico raffinamento e anche ogni sentimento disinteressato. Si pretenderebbe in qualche modo che le stesse passioni d’amore siano, se non totalmente sconosciute, almeno rare e bonarie. Si citano certe lezioni che nei collages son destinate a mettere in guardia le giovanette sui pericoli e sulle suggestioni di quel che, senza benevolenza, viene chiamato lo choc emozionale. Si rivelano loro molto crudamente gli aspetti intimi dell’affare e di che cosa si tratti in ultima analisi. Qualche principio di igiene completa l’insegnamento. È abbastanza per fare comprendere a queste adolescenti che farebbero proprio male a commettere delle sciocchezze o ad abbandonarsi alla disperazione per una cosa così semplice e così volgare. Sembra che lo capiscano a meraviglia. Mi ricordo, a questo proposito, di uno studio in cui Rachel Besaloff spiegava come le fosse difficile far comprendere Racine ai suoi studenti, che rifiutavano per partito preso lo spirito stesso delle tragedie: «Al fondo del proprio cuore, ciascuna di queste ragazzine pensa che se Ermione si mostrasse più ragionevole e Alcesti meno stravagante, la catastrofe sarebbe evitata».

Che argomenti per condannare la civiltà americana come senz’anima! Proudhon le indirizzava già la medesima accusa. Gli dispiaceva che tale nazione fosse mercante e pacifista. La vedeva precipitare nel materialismo più sordido. Le augurava pertanto il suo riscatto: «Dio voglia allora, egli scriveva, che la guerra la salvi, se è ancora in tempo di darsi attraverso la guerra una legge, una fede, una costituzione, un ideale, un carattere» . Si sa che per Proudhon è la capacità di fare la guerra che distingue gli uomini dagli animali. Senza di essa, egli afferma, la civiltà rassomiglierebbe a una stalla (o a una banca).
Proudhon formulava il suo voto augurale prima della Guerra di Secessione. Da allora, gli Stati Uniti hanno subìto diverse volte la prova sanguinosa che, secondo lui, abilita alla grandezza. Tuttavia non per questo li si stima rigenerati attraverso i loro sacrifici o attraverso i loro trionfi. Si teme maggiormente la loro logora potenza. Si assicura che essa mette in pericolo i valori più delicati e più preziosi della civiltà occidentale, ogni giornalista francese proveniente da New York si dà arie da ateniese che fa ritorno dalle terre della Scizia. Non ignora sicuramente che rientra da Roma, ma enumerando con compiacenza le prove di barbarie che ha accuratamente annotato, egli fa un ritratto dei romani che li rende in ogni caso simili agli Sciti. Eppure vi sono delle differenze che egli si ostina a trascurare.

La prima di tutte è sicuramente la potenza, che la forza non basta a ottenere e tanto meno a conservare, e a cui un popolo non perviene mai senza eminenti qualità; la seconda è l’attitudine a raccogliere l’eredità delle culture precedenti; la terza è la presenza di un capitale morale di energia, di franchezza, di fiducia in sé, di tenacia e di altre qualità tutte positive che, congiunte a un territorio che una nazione controlla e alle risorse di cui essa dispone, le garantiscono una presa profonda e durevole sulla storia; la quarta consiste nell’invenzione, l’adozione o il perfezionamento di tecniche numerose e diverse, capaci di segnare sufficientemente l’esistenza quotidiana e di darle la sua particolare fisionomia; la quinta differenza consiste nel poter creare attraverso i costumi, attraverso la legislazione e attraverso la prosperità un modo di considerare la vita, di gioirne e di avervi un ruolo particolare, che provocano l’invidia di coloro che ne restano fuori, mentre appare a coloro che possono valersene un privilegio di nascita allo stesso tempo che un motivo di giusto orgoglio; la sesta… ma ecco che basta; mi sembra d’altra parte che questi caratteri suppongano o contengano una infinità di altri, che contribuiscono necessariamente alla formazione di un gusto, di uno stile, di una urbanità, di una saggezza, di un gioco originale di onori e di debolezze, di attrazioni e di rifiuti. Ne nascono presto tutti i tesori che lentamente maturano quando una civiltà si afferma.

Immagino che andasse più o meno così in altri tempi e che i greci che soggiornavano nella capitale del giovane impero romano si sentissero abbastanza spaesati. Rimpiangevano il fascino e la bellezza della loro città natale. Sicuramente non notavano altro che degli zotici in una clientela troppo indaffarata che, senza grande discernimento, voleva lezioni dai loro filosofi e collezionava le opere dei loro artisti. Questa scelta, dopo tutto, non era la peggiore. Non onorava gli autori meno dei beneficiari. Questi ultimi tuttavia non sapevano fare altro che denigrare gli uomini rudi che rendevano loro un tributo di ammirazione. Li trattavano come dei nuovi ricchi, dei villani rifatti. A sentir loro, soltanto sulle rive dell’Illiso [Fiumiciattolo che scorre ad Atene, n.d.t] fiorivano la misura, la finezza e l’eleganza. Roma pertanto aveva già i suoi poeti e i suoi architetti. E già l’abbagliante splendore di Atene era quello di un museo. Essa dava rifugio soltanto a dei pensatori sprezzanti che si preoccupavano dell’avvenire della cultura, minacciata – dicevano – da una barbarie inedita: aspra, industriosa e brutale. Parlavano cioè di quella civiltà che stava dando al mondo Virgilio, Tacito e Marco Aurelio, la pace secolare e i fondamenti solenni del diritto, attraverso la quale inoltre la Grecia stessa sarebbe sopravvissuta, trasmettendo la sua meravigliosa opulenza a degli imprevedibili eredi.

giovedì 3 luglio 2008

Libri / La carne, la morte e il diavolo nascosto nell’artista

In tempi di linguaggio anoressico, leggere in un titolo due parole ormai insolite come La pittura carnale, può far sobbalzare, riandando magari con il pensiero al felice ossimoro per mezzo del quale Antonio Paolucci ha svelato in una mostra recente l’opera di Guido Cagnacci: «anima carnale». Purtroppo qui, sotto l’inganno del bel titolo, si tratta piuttosto delle elucubrazioni di Merleau-Ponty, dove tutto viene rovesciato in un solipsistico discorso per cui, ad esempio, non è il pittore che guarda le cose bensì, schema assai allucinato, son le cose che guardano il pittore. Perfino i termini più materialistici come corpo e carne prendono a trasformarsi fino a volatilizzarsi nella prosa manierista della fenomenologia francese. Scende una nebbia fastidiosa che dovrebbe togliere la pesantezza ai corpi, la confortante pesantezza dell’essere che proibisce di dissolversi nelle futilità soggettive, entra in scena la terminologia psicoanalitica a disturbare la calma delle donne di Botticelli, ci si inebria con Klee a cancellare le figure in uno scherzo seriosissimo. Su queste orme del francese husserliano (che è già una vera disarmonia), l’autore della Pittura carnale riesce a farne una apologia dei prodotti estetici contemporanei, quanto di più inutilmente ascetico si possa fantasticare, senza neppure avvertire il piccolo dramma della «meravigliosa carnalità della vita divina», secondo l’espressione di Cristina Campo, ferita dalla Riforma e dall'Illuminismo. Però, in appendice a simili verbosissimi trompe-l’œil tradotti in italiano da il Saggiatore, si pubblica un prezioso racconto di Honoré de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu, quasi a conferma delle teorie esposte nel libro. Verrebbe voglia di dire: saltate le pagine che lo precedono, correte a leggere una invenzione letteraria tanto paradigmatica.

Siamo nei primi del XVII secolo, il giovane Poussin bussa speranzoso allo studio di Porbus e qui, insieme al maestro riverito, incontra una singolare figura di artista: Frenhofer. Sarà l’uomo dal nome tedesco a iniziare gli altri due a uno straordinario esperimento che sta conducendo in segreto da lunghi anni. Si tratta di oltrepassare la pittura come la si è concepita in Occidente da tanti secoli, per non dire da sempre. L’artista esce dai suoi canoni per cercare l’Assoluto, la pittura pura. Ora siccome la pittura è sporcata dalla materia, le tele, gli olii, le tempere, i diluenti, i grassi, le colle, i pennelli, tale purezza cancella proprio la tecnica del dipingere che diventa tanto immacolata da non apparire più. Ma che cosa è un’arte visiva che non è visibile? Un esperimento mentale, una notte mistica, una riflessione indicibile. Tale è l’avventura di Frenhofer che anticipa quelle di tutti coloro che pretendono di fare un’arte che non vuole più rappresentare la realtà. Balzac sembra allora trasformarsi nel santo cavaliere di tutte le avanguardie, il patron dei contemporanei. E, a sua volta, sembra pure riprendere temi e tormenti di letterati romantici tedeschi, in primis Hoffmann, che volevano contrapporre una esoterica e astratta arte nordica, tedesca, protestante, a quella tradizionale, carnale, pagano-cattolica. Senonché Balzac è un conservatore, geniale scrittore dell’assennatezza, e fedele alla Chiesa di Roma: «Scrivo alla luce di due verità eterne, la Religione e la Monarchia… verso le quali ogni scrittore di buonsenso dovrebbe cercare di ricondurre il nostro paese» (Avant-propos del 1842). Come è dunque possibile che egli sia l’autore di questo «catechismo estetico» dei moderni?

Il fatto è che l’inventore di Frenhofer non sembra volere abbracciare i suoi personaggi finiti nel gorgo del sogno prometeico di reinventare l’arte, anzi Le chef-d’oeuvre inconnu è il doloroso racconto di un impazzimento. «È più poeta che pittore» fa dire a Poussin di lui: in quel tempo – nel secolo barocco che i francesi intitolano classico – Pascal colloca la poesia, la letteratura, su un gradino gerarchicamente superiore all’arte di dipingere, che comincia lentamente, ancora ammantata dallo splendore di Rubens o di Piero da Cortona, a perdere colpi. La parola si emancipa da tutto e conosce il suo maggior trionfo, l’alfabetizzazione che mette in riga i popoli renderà sempre più inutile la Biblia pauperum della pittura. Il gramo omaggio alla parola rappresentato dai rebus di Magritte e compagni in cabbale burlone, per non dire del meschino abbarbicarsi ai discorsi aggrovigliati dei cataloghi e delle didascalie con cui le gracili immagini del nostro tempo tentano di tenersi in piedi, sono un segno di tale sconfitta storica. D’altra parte, già gli artisti romantici si rigirano in concetti e oziosa indeterminatezza piuttosto che nelle messe in scena su tela o su parete di idee pittoriche. Non dimentichiamo che anche il giovane Werther fa il pittore che non dipinge mai, legge sempre, dipende dai libri, costruisce un unico capolavoro: la propria morte.

Si incammina verso un probabile suicidio, o morte per sofferenza troppo acuta, anche Frenhofer. In balia dell’arbitrio soggettivo, della instabilità che perseguita l’autore mai soddisfatto e che si ripercuote sull’opera destinata a non concludersi mai, a non trovare per definizione un suo punto di arrivo, e quindi una sua perfezione, diventando eterno work in progress (dove lo spaventoso non risiede soltanto nell’interminabile progresso, che non conosce quiete, ma anche nel lavoro, che non diventa mai opera realizzata, restando sempre esperimento, laboratorio, elaborazione interminabile, fatica…).

Prima della sua morte, al termine di una scena madre in cui le innumerevoli intenzioni di Frenhofer vanno a cozzare con gli esiti desolanti o quantomeno impossibili, concludono i due testimoni: «Là, riprese Porbus toccando la tela, finisce la nostra arte su questa superficie. – E di là va a perdersi nei cieli, dice Poussin». Anche della nostra disastrosa bancarotta si sta parlando, quella che si ripete da oramai quasi due secoli. Lo spirituale nell’arte, ma senza paradiso, con un po’ d’inferno ridicolo. Solo l’olimpico Picasso poteva spingersi a disegnare il racconto balzachiano della pittura impossibile, e a rivestire i panni dell’illustratore, abbastanza superbo per il talento immenso da non temere alcun ruolo artigianale.

Il povero pittore dell’Assoluto si disperò con i due sodali che non vedevano nulla: ma come, anche tu Porbus, che sei un mio buon amico – implorava – dici che non c’è nulla? Quindi, accecato nella ragione e nei sentimenti, urlava che aveva speso dieci anni della sua vita per creare un quadro invisibile. Si vogliono realizzare opere estremamente sofisticate ma poi si invoca sempre una qualche complicità. Magari ci si taglia il lobo dell’orecchio e lo si porge in omaggio amicale. Frenhofer si sedette e pianse: «sono dunque un imbecille, un pazzo… Non ho prodotto nulla!». Sempre più folle, parlò allora in nome di Cristo, come tutti gli invasati si sentiva ormai sacerdote, angelo di Dio invece che pittore, forse addirittura un Dio impotente, chenotico. Questo l’eroe balzacchiano della non-arte contemporanea, secondo i suoi esegeti.

Se ci fossero molti dubbi su come la pensa Balzac a proposito del capolavoro impossibile, l’autore stesso potrebbe aiutarci a disperderli. Per esempio, quando afferma che «se l’artista contempla le difficoltà invece di vincerle una a una […] l’opera resta incompiuta e perisce […] mentre l’artista assiste al suicidio del suo talento» (La Cousine Bette). Probabilmente è un tentativo di esorcizzare le ossessioni che pur dovettero cogliere Balzac nel suo progetto iperrealista. Goethe scrisse il Werther per non soccombere alle pene amorose, il romanziere francese per non lasciarsi stregare dai sempiterni rimorsi estetici. Con tale racconto filosofico, con la rappresentazione di un tentativo di arte sperimentale che fallisce di fronte a due grandi testimoni, due pittori fedeli alla committenza, al lavoro onesto, spesso servile, è l’equilibrio che vince. Così Balzac «si è salvato dall’abisso del perpetuo ricominciare, è sfuggito alla disaggregazione che provoca l’analisi. […] Frenhofer, Balzac lo ha sottolineato, è diabolico: posseduto dalla ‘spirito che tutto nega’» (Pierre Laubriet)

Per fortuna che è ancora rintracciabile una edizione Passigli dello Chef-d'oeuvre inconnu, datata 2001: ci eviterà di dover leggere Balzac attraverso lo specchio opaco delle nostre scempiaggini contemporanee. Di fronte a un capolavoro, gli schemi comunque che cosa contano? Frenhofer ci può apparire inviso fin dalle prime scene, con la sua teorica insistenza per far scomparire il disegno dall’arte, in questo rivelandosi precursore prodigioso dell’informe prodotto nell’ultimo secolo, quindi procedendo in un irragionevole Kunstwollen. Eppure, proprio perché estranei agli schemi militari dell’avanguardia, si sapranno evitare gli schieramenti, perfino compatire l’ardente sforzo di ogni Lucifero umano, che oltrepassa nel patetismo l’angelo ribelle. Il giudizio sui defunti del resto non ci appartiene. Georges Bernanos ha lasciato scritto: «Être d'avant-garde c'est savoir ce qui est mort; être d'arrière-garde c'est l'aimer encore».

martedì 1 luglio 2008

La distruzione simbolica di Roma. In un libro

Sfogliando il volume L’invenzione del quadro del rumeno Victor Stoichita, pur devoto all’arte del periodo aureo, viene da pensare che l’accumulo di dettagli davvero marginali, senza mai una zampata intelligente, un’osservazione abbagliante, stia nei libri solo per consolare gli stolti dell’oggi e confermarli nelle loro credenze; così se il discorso sull’arte di Velàzquez si costringe nell’estenuante analisi dell’inventio in un bodegone, il saggio colmo di strutturalismi variamente post finisce col significare – senza mai dirlo – che non vi è differenza tra il creatore del Siglo de Oro e un povero concettuale del nostro Siglo de Plàstico. Però anche in un libro vago si incontra un passo giusto, ove si legge: la ‘bellezza’ dell’anti-immagine è un paradosso della modernità fondato soltanto sulla Riforma protestante. E tale iconoclastia conduceva direttamente – scrive il Rumeno – alla distruzione simbolica di Roma, la Babilonia infernale, l’immane Prostituta. Ecco, tutte le anti-immagini, tutta la storia dell’anti-arte fino al nostro frastornante presente, sono nel segno dell’avversione a Roma, vogliono annientare con furia lo splendore dell’Alma Città. Se si vuole una prova schiacciante di tale secolare ostilità, basta vedere come il massimo apologeta delle avanguardie artistiche, magari filoneista per esoteriche strategie, l'Adorno cultore straordinario della forma, non trovasse nulla di meritevole in Roma, ostentasse anzi nel Diario la più completa indifferenza alla sua beltà. Si dovrebbe reagire a simili oltraggi - nessun Vangelo obbliga a porgere l'altra guancia agli schiaffi estetici - impedendo che questo antichissimo spazio pagano sia eccessivamente invaso dagli eventi della post-modernità o della modernità post, già agonizzante.

Viene in mente un grande e onesto avversario, quel Friedrich Schiller che, protestante e diffidentissimo verso gli italiani, scrisse però nella Maria Stuarda queste battute troppo dimenticate dal mondo latino:
«Avevo vent’anni, regina, ed ero stato educato nella rigida osservanza del dovere, ed avevo assorbito col latte della nutrice un odio senza limiti per il papato, quando un desiderio impetuoso mi attrasse verso il Continente. Lasciai le umili stanze dove predicano i puritani, abbandonai la patria, e percorsi a volo d’uccello la Francia. Desideravo ardentemente giungere in Italia, di cui avevo sentito tanto parlare. Era l’epoca del Grande Giubileo, le vie erano affollate di pellegrini, le immagini sacre erano cinte di fiori, e si aveva l’impressione che tutta l’umanità avesse iniziato un mistico pellegrinaggio in direzione del Cielo. Io stesso rimasi coinvolto nella folla dei fedeli che mi trascinò fino a Roma. Cosa non provai allora, regina, quando vidi innalzarsi davanti ai miei occhi nel loro fulgore le colonne e gli archi di trionfo, quando la sublime maestà del Colosseo abbagliò il mio sguardo, e il meraviglioso spirito dell’arte mi svelò i suoi incanti e i suoi prodigi! Non conoscevo il potere ammaliatore dell’arte. La Chiesa riformata che mi aveva educato detesta l’allettamento dei sensi e rifiuta le immagini, tributando onore alla nuda parola priva dell’involucro del corpo. Cosa non sentii in seguito, una volta penetrato dentro le chiese, quando dal cielo scese ad avvolgermi l’onda divina della musica, quando una schiera tumultuosa di immagini si staccò veemente e prodiga dai muri e dal soffitto e di fronte ai miei sensi sopraffatti dall’estasi io vidi fremere ed agitarsi ciò che di più sublime e nobile esiste sulla terra! Quando ammirai i simboli e le immagini del Divino, il saluto dell’angelo, la nascita di Nostro Signore, la Madre di Dio, la Trinità scesa in terra, la Trasfigurazione che ardeva del suo stesso fulgore, e il Papa nella sua magnificenza cantare la messa solenne e benedire le folle! Paragonato a questo, cos’è lo splendore dell’oro e delle pietre preziose di cui si addobbano i sovrani della terra? Solo lui è cinto dall’aureola divina. Il Cielo, regno della verità, è la sua dimora, perché quei simboli e quelle visioni non appartengono a questo mondo».

Oggi l’estetica del mentale, del concettuale come ama definirsi, prosegue questa educazione volta a reprimere l’allettamento dei sensi, tributando onore alla nuda parola. Ma nella capitale della cultura dedicata alla parola incarnata, sono anzitutto i sensi a vendicarsi. Inibiti dallo spiritualismo delle varie forme di astrattismo, inibiti comunque dalle estetiche che rifiutano l’aspetto materiale della pittura e la rappresentazione della natura, essi producono isteria, follia, disagio. Anche il sentimentalismo, il tripudio delle emozioni tanto diffuso, è il frutto avvelenato dei conati di spiritualismo artistico.