venerdì 24 dicembre 2010

Natale

«Invece di credere in Dio, si crede provvisoriamente nel nulla», inebriandosi di destino e di lavoro, a volte anche di politica. Karl Löwith nel suo corpo a corpo con Nietzsche, arrivava a queste conclusioni. Il nulla può essere anche il Natale, una distrazione assai colorata nell’inferno quotidiano dell’acromia. Un luogo temporale dove concentrare per qualche settimana i pensieri, ottenendo in cambio sdolcinature e nostalgie che dovrebbe mitigare la celere violenza del tempo (sull’argomento si rinvia a «Natale romano», un post di questo blog del 2009). Tutt’altra faccenda è l’annuncio «Puer natus est»: per i cattolici dà senso alla vita e alla storia, riscatta anche coloro che sono già morti. Rimanda all’incarnazione del Verbo, al Dio che prende le forme umane e che a sua volta conferma una umanità «a sua immagine e somiglianza», in un sublime gioco di specchi intorno al medium del corpo, tanto sprezzato dalla sapienza extracristiana. Di questa incarnazione ha testimoniato l’arte occidentale. Ne resta traccia nella rappresentazione del presepio. Che i pochi lettori dell’«Almanacco» provino la gioia – è il nostro migliore augurio – di ascoltare l’introito della messa di Natale nella melodia gregoriana, naturalmente in latino: «Puer natus est nobis,/ et filius datus est nobis:/ cuius imperium super humerum eius/ et vocabitur nomen eius,/ magni consilii Angelus./ Cantate Domino canticum novum: quia mirabilia fecit». (Se nei pressi non troveranno una chiesa dove, secondo i dettami di Benedetto, si celebri in rito romano antico, che lo rinvengano almeno riprodotto questo «canticum novum» che gli angeli intonarono nella notte santa. Le canzoncine natalizie, anche le più commoventi, impallidiscono di fronte a un tale strabiliante proclama.)

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mercoledì 22 dicembre 2010

Una domenica senza Messiaen

~ LA DECADENZA DELLE BUONE MANIERE CATTOLICHE ~

Messa dell’Avvento in una parrocchia romana a pochi passi da San Pietro. Sotto l’altarino dove si celebra il sacrificio, le luci intermittenti di un presepio improvvisato danno il ritmo isterico delle discoteche, distraggono i fedeli e offendono il sacro rito. A un lato dell’altare, un alberello secco dove sono appesi foglietti con i desideri auguranti dei parrocchiani, come è d’uso ormai nelle grandi stazioni ferroviarie: lo spirito natalizio che scivola nelle mode adolescenziali dei lucchetti a Ponte Milvio, tradizioni inventate per ragazzi senza liturgia. All’altro lato dell’altare hanno trasportato addirittura un pianoforte, dove una volenterosa giovinetta e dei suoi amici con chitarre elettriche e acustiche strimpellano nenie che non sarebbero consentite neppure nel più paesano dei palchi rock. Questa dunque la modernità della Chiesa di Roma? Una sottospecie di una sottocultura? Modi luterani senza la serietà della forma tedesca? Veniva allora da pensare, anche per l’organo che stava lì accanto imponente e muto, a Olivier Messiaen, uno dei massimi musicisti del XX secolo, che per sessant’anni fu organista nella chiesa parigina della Trinité. Alla fine degli anni Trenta compose per il Natale il ciclo La Nativité du Seigneur: nei tempi tradizionalisti, preconciliari, in cui la Chiesa non si arrendeva al moderno, Messiaen accompagnava la liturgia con suoni dell’altro mondo (si ascolti il brano Dieu parmi nous, il più famoso del ciclo, che sommovimenti d’aria, che strabilianti ritmi), la Catholica sapeva tenere le redini di quell’impetuoso moderno che aveva inventato; oggi si deve umiliare la comunità dei fedeli con musichette e immaginette che nulla hanno a che fare con la grande cultura. Piuttosto, un surrogato povero della televisione più cheap. La decadenza delle buone maniere cattoliche rende tristi anche i ferventi giorni dell’Avvento.

mercoledì 15 dicembre 2010

Fiamme su Roma

~ GLI SQUADRISTI DELLA CULTURA
E LA SAGGEZZA DI CERONETTI ~

Ieri coloro che si battono contro i tagli alla «cultura» e alla scuola hanno ricevuto il battesimo del fuoco nel corso di una battaglia decisiva e suprema: mentre i congiurati agivano nel Palazzo contro il governo legittimamente eletto, con studiata sincronia i vezzeggiati studenti devastavano l’alma città di Roma, ne incendiavano le sue piazze più belle, ne manomettevano il delicatissimo cuore barocco. La cultura, quanto di più fragile, sfigurata da ben altro che dalle questioni dei finanziamenti, diventava una causa di tumulti, alla stregua del pane per le plebi affamate di una volta. Nelle medesime ore, Guido Ceronetti, una figura di fronte alla quale scompaiono tutti i pupazzetti idolatrati dai giovani devastatori (gazzettieri del culturame, televisivi pro morte, installatori sboccati…) inviava alla «Stampa» un articolo in cui, con la saggezza di certi vecchi, diceva il suo amen di fronte ai soldi che scarseggiano per le imprese culturali. Anzi, rovesciando i cliché dei piccoli conservatori, che non sanno concepire il sapere e la bellezza se non nei modi in cui li hanno appresi a scuola da insegnanti senza fantasia, Ceronetti provava a immaginarsi un’Italia priva della Scala, evitando le nostalgie delle soubrette in pensione. Quest’«Almanacco», che ricorda spesso come l’arte pittorica languisca da molti decenni, non si commuove per un museo che deve risparmiare o che chiude, anzi nei mesi scorsi ha ripetuto che ben vengano i tagli, ovvero i progetti per sottrarre i soldi pubblici ai party e alle inaugurazioni. Oggi perciò è lietissimo che anche Ceronetti scriva: «non chiamiamo ‘cultura’ un evento turistico estivo, costosamente mondano»; ed è lietissimo che il Maestro delle marionette, evitando di cadere nei trabocchetti feticisti, possa addirittura proporre delle scelte, discutibili come tutte le scelte, certo, ma ancorate al dato assai prosaico che i fondi dello Stato non sono un pozzo di san Patrizio: «Se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. […] L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile». Per concludere con una frase scandalosissima all’orecchio dei bigotti: «se la Scala chiude, che male c’è?».

Anni fa, lo scrittore aveva riportato nella sua rubrica la frase letta su un cartello inalberato da un giovanotto che era stato allontanato con violenza da un corteo di sinistra: «Sono un precario felice. L’idolatria del posto fisso è voglia di schiavitù». Un altro dogma della protesta attuale veniva così destrutturato. Nemico giurato del Luogo Comune, recentemente aveva bollato il nome che si erano dati i congiurati neofuturisti: «futuro è un tarocco che porta sgarro, mai adottare una parola così vacua, così flagellata dai venti del Nulla. Il futuro non lo puoi conoscere, non sai dove siano le sue stive, non esiste: la politica lavora (se è un lavorare) sul presente; se è saggia, il prossimo giro di presente ne ricaverà mirabilia, (forse)...».

lunedì 13 dicembre 2010

Schegge di dolore

~ L’ARTE DI UN MONDO IRREDENTO ~

L’arte di oggi – non gli inganni dei ciarlatani –, quella che pur esiste e resiste, ma che si addentra per la strada a senso unico, conducendoci nei meandri dell’angoscia – immagini che si negano il volto, versi che anche mirabili nella costruzione ritmica rinunciano alla punteggiatura, alle pause che smorzano le ossessioni, musiche che rifuggono impaurite da qualsiasi accenno melodico –, l’arte dell’asperità perseguìta ormai da eremiti alquanto nobili, lontani da mondanità e mode, somiglia impressionantemente alla religione protestante. Contraria alle consolazioni facili, finisce per rigore un po’ diabolico con l’ignorare qualsiasi consolazione. L’artista come il sacerdote universale luterano deve incaponirsi ad avvelenare la dolcezza del mondo per mostrare soltanto l’aspetto tragico. Nessun cibo per i sensi, nutrimento amaro invece per l’intelletto affinché demistifichi ogni illusione, testimoni con mistica scabra della vuotaggine del reale, anche se la mistica un tempo provava a dire la contentezza traboccante per ogni alba che si ripete. Quel forzare i confini del dicibile per eccesso di amore, da parte della creatura che prova a intonare un Magnificat straripante, era la sua gloria e talvolta la sostanza del linguaggio speciale dell’arte. Oggi, festa di santa Lucia, protettrice della vista, gli artisti che si denominano ‘visivi’ dovrebbero meditare sullo sguardo cattolico posato sul mondo redento e bellissimo. Nelle tenebre di quello che era, fino alla riforma gregoriana del calendario, il giorno più oscuro dell’anno, la Chiesa celebra la santa che richiama la luce anche nel nome: nella «valle di lacrime» terrena, l’occhio deve saper vedere lo splendore.

mercoledì 1 dicembre 2010

Sulla soglia del museo

~ RIFLESSIONI DI UN POETA INTORNO ALL’ARTE. ~
PAUL VALÉRY PARLA DELLA «SUPERSTIZIONE DEL NUOVO» E LE SOTTRAE GLI UOMINI «NATI PER CREARE», I MECENATI «INCORRUTTIBILI», GLI ARTISTI CHE «NON OFFRONO INTENZIONI MA MIRACOLI». ~

«L’art délicat de la durée…»
PAUL VALÉRY

«Ai miei occhi, l’arte appare come un combattimento contro quello che non è. […] Tutte le potenze umane devono impegnarsi per sostenere e mantenere in vita ciò che nasce e tende a ricadere nel nulla». Paladino dell’aspirazione all’eterno si presenta dunque, nella citazione riportata, l’ingegnosissimo Paul Valéry che meditò a lungo, e in modo elaborato, su quella singolare attività umana, la creazione, alla vigilia del suo totale stravolgimento a opera degli ultimi moderni. Il poeta ligure-francese, si sa, non era un tipo ingenuo, diffidente anzi verso le bonarie concezioni del bello, all’arte assegnava procedimenti intellettuali assai articolati, alla pari con la filosofia, considerata anch’essa «una questione di forme» (un po’ come i rinascimentali italici non distinguevano l’arte dalla scienza): artisti del pensiero, perciò, i suoi adepti – e la scrittura tentacolare dei filosofi francesi del Novecento dipende forse un po’ da questa lezione, e molto dalla soggettività sfrenata dell’esistenzialismo, per cui si confondevano con i letterati, talvolta trescando con l’ermetismo lirico. L’autore del Cimitière marin li incalzava con una domanda retorica: «Forse il filosofo pensa che un’Etica o una Monadologia siano cose più serie di una suite in re minore?». Non per questo sarebbe stato soddisfatto dal «concettuale» dei nostri contemporanei che esibisce con soverchia gravità pensieri pedestri, didascalie di immaginette primitive: lui cercava l’intelligenza nella pittura. L’appassionato di Leonardo sapeva anche che l’arte del suo tempo si andava sviluppando accanto all’«industria dell’utile», un sistema economico dell’inutile, con una propria stampa, un proprio mercato, una propria borsa e anche delle «grandi banche di deposito, dove si vengono ad accumulare gli enormi capitali» prodotti nei secoli: i musei. Antica del resto era l’avversione per il museo da parte del poeta che lavorava al ministero della Guerra, nulla a che vedere con il disprezzo avanguardistico per gli archivi, ben più elegante idiosincrasia lo muoveva, infastidito dal gesto del custode che gli sottrae all’ingresso il bastone da passeggio e dal cartello che gli vieta di fumare. Luogo senza voluttà, lo definì, dove ci si sente come a scuola.

Di fronte alla produzione estetica contemporanea, quel che appare più irritante è senz’altro la facilità delle sue trovate, di quelle che si ha l’impudenza di chiamare ‘opere’; mancanza di metodo, avrebbe sentenziato Valéry. L’inventore di Monsieur Teste, modello di lucidità asperissima (ispirato, sembra, al severo quanto scontroso Degas, maestro di rigore), risulta il più crudele fustigatore delle scempiaggini che già si intravedevano nella sua epoca. Ma non combatte i canoni sociali, fa brillare la perspicacia mentre oscura le teorie circolanti. Prevede senza volerlo, poco interessato al futuro, intuisce da subito quel che sta accadendo nel campo dell’arte. Sfogliando i suoi innumerevoli scritti sull’argomento ne abbiamo estratto delle piccole citazioni per accennare alle disavventure della Bellezza nell’Occidente che si pretende post-cristiano. Parigi, nella prima metà del Novecento, era ancora un ottimo osservatorio.

I l.. m i t o.. d e l l ’. o r i g i n a l i t à

«Non si vedono quasi più i prodotti scaturiti dal desiderio di ‘perfezione’. Osserviamo di passaggio che questo antiquato desiderio doveva svanire davanti all’idea fissa e alla sete insaziabile di originalità». Perché per ricercar la perfezione sono necessari «l’eredità, l’imitazione o la tradizione, gradi nella ascensione verso l’oggetto assoluto», mentre la spasmodica caccia all’originalità respinge il passato e i suoi gradi di perfezione, risiedendo «la sua essenza nel differire» (Lettera a Leo Ferrero, 1928).

L a ..n o v i t à

«Il nuovo è uno di questi veleni eccitanti che finiscono con il risultare più necessari di ogni nutrimento; una volta che ci padroneggiano, bisogna sempre aumentare la dose e renderla mortale. È strano che ci si attacchi in questo modo alla parte più deperibile delle cose, che è proprio la loro qualità di esser nuove. Voi non sapete allora che alle idee più innovatrici bisogna dare una certa aria di nobiltà, priva di fretta, piuttosto matura; tali idee devono apparire non insolite bensì in circolazione da secoli; e non fatte e trovate stamattina, ma soltanto dimenticate e ritrovate. Il gusto esclusivo della novità segnala una degenerazione dello spirito critico, dal momento che nulla è più facile dello giudicare la novità di un’opera» (Choses tues). «Nulla è più facile»: ecco perché i ‘critici’ d’oggi ci riempiono gli occhi con l’aggettivo nuovo nelle loro pagine anodine. Ma siccome hanno bisogno di «una certa aria di nobiltà» ricorrono ancora alla parola ‘arte’ e a tutto quel che di tradizionale evoca.

L a ..r e a l t à ..e s t e r i o r e

La strana mistica di sapore gnostico che conquista gli artisti del XX secolo viene giudicata con severità da Valéry. «Secondo un’opinione diffusa e fuori del tempo esiste una ‘via interiore’ da cui le cose esteriori sono escluse in quanto le risulterebbero nocive, e dunque i profumi, i colori, le immagini e forse anche le idee sono d’impaccio e di scompiglio alla sua perfezione; si pretende pertanto che gli esseri che vi si consumano nel desiderio, nella gioia o nel commercio segreto dello loro percezioni incomunicabili li sentano tanto più vivi e ne traggano i frutti più vivi quanto sono maggiormente avanzati nella loro profondità e nel loro disprezzo, più distaccati dall’esterno, da quello che considerano l’esterno. Alla vita che fa uso di sensi definiti e che si accontenta dei loro fantasmi, si oppone facilmente una certa ‘vita della mente’, o dell’anima, ovvero una vita dell’intelletto puro; l’una e l’altra sottratte alla agitazione superficiale che compone quel che si tocca e che si vede. In molti saggi si trova l’avvertimento formale di considerare i sensi come complici dell’Avversario, e di trattare gli organi essenziali come mezzani. ‘Odoratus impedit cogitationem’, dice tra l’altro san Bernardo. Non sono così sicuro che la meditazione sigillata e la deviazione interiore siano sempre innocenti, né che chi sta isolato in se stesso si perfezioni in purezza. […] Perché si vuole che il fondo, il preteso fondo di noi stessi, l’apparenza del fondo che troviamo in noi, per degli strani accidenti, o per una indefinita aspettativa, sia più importante da osservare […] che la figura di questo mondo? […] Una vita dedita ai colori e alle forme non è a priori meno profonda né meno ammirevole di una vita trascorsa tra le ombre ‘interiori’» (Berthe Morisot). Questa conclusione è la base morale della storia dell’arte in Occidente. Il Beato Angelico guida in Paradiso la schiera dei cantori della beltà terrena.

L a ..r e s i s t e n z a.. d e l.. m o n d o

Secondo lui, i successori degli Impressionisti avevano definitivamente eliminato l’Avversario, l’oggetto esterno, per impotenza o perché sedotti da scorciatoie che facevano a meno della rappresentazione. Suonano allora magistrali quelle righe celebri di Monsieur Teste che dicono bene anche della resistenza che l’autore, l’artista, trova nel forgiare le opere: «Non è vivere il vivere senza obiezioni, senza quella viva resistenza, quella preda, quell’altra persona avversaria, resto individuato del mondo, ostacolo e ombra dell’io – altro io – intelligenza rivale, insopprimibile – nemico il miglior amico, ostilità divina, fatale – intima».

L a ..s o m i g l i a n z a

Accordava una certa importanza alla somiglianza e alla rappresentazione. E diverse somiglianze sapeva cogliere: naturale, sociale e intellettuale. «Il problema del ritratto è uno dei più sottili dell’arte. Si tratta in effetti di eseguire un’opera che, per definizione, è assoggettata a una condizione non esclusivamente ‘artistica’, la somiglianza, la quale è soddisfatta dal confronto di una immagine con un modello, ovvero il richiamo non equivoco del ricordo di questo attraverso quella. La constatazione necessaria, e sufficiente, non ha alcuna relazione che si impone con il piacere dell’occhio […] Mi accorgo che l’epoca che ha visto deperire il gusto e la cura di rappresentare scrupolosamente il volto dei viventi vede trascurare altrettanto, se non abbandonare del tutto, la pratica secolare di copiare nei musei le opere dei maestri» (De la rassemblance et de l’art).

D e s c r i z i o n i

«Un’opera puramente descrittiva (come se ne fanno tante) non è altro in verità che una parte di opera. […] Inoltre, ogni descrizione si riduce alla enumerazione delle parti o degli aspetti di una cosa vista, e questo inventario può essere fatto in un ordine qualsiasi, fatto che introduce nella esecuzione una sorta di casualità. (Autour de Corot).

R e a l i s m o

Sì, il realismo pecca di ingenuità, la volontà di raffigurare realisticamente tradisce la realtà. Molto in anticipo sui neorealismi italici, non sembra esser stato granché citato nei dibattiti fumosissimi dell’intelligencija dei caffè di Piazza del Popolo. «Le arti di ‘imitazione’ si muovono tra l’idea ben definita di rappresentare ‘esattamente’ la ‘realtà’, di cercare di eguagliare ciò che si ottiene da una buona fotografia o da un’impronta, e gli effetti dell’intervento dell’organismo vivente che deve eseguire tale rappresentazione. Ma questo organismo vivente è ben lungi dall’essere simile a ogni altro della sua specie. Esso è fatto di collegamenti» (De la ressemblance et de l’art).

L’.i n f l a z i o n e.. d e i ..c o m m e n t i

«Gli artisti moderni si fanno dei sistemi che resistono per un po’ di tempo soltanto grazie all’ausilio di una letteratura appropriata. Ma né Tiziano, né Veronese, né Robusti detto il Tintoretto avevano bisogno di qualcuno che li ‘presentasse’. Bastava imporsi. A loro si dedicavano dei sonetti, non li si spiegava. Essi non offrivano delle intenzioni, ma dei miracoli […]. Che cosa c’è di più certo nelle sue intenzioni e di più certo nel suo effetto di un ritratto del puro Raffaello?» (L’art italien). L’arte dell’ultimo secolo invece è come un criptogramma, un rebus che ha bisogno di mozziconi di parole. Jean Clair ha scritto: «Poche epoche hanno conosciuto come la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare». Per forza, si appoggiano alla parola dal momento che l’immagine è abortita.

E l o g i o ..d e l l a.. l e n t e z z a

Davvero scandaloso in anni post futuristi: «Che si tratti delle Lettere o delle Arti, la fretta di pubblicare o di mettere in mostra ciò che si è fatto sembra generale. Vi è la pressione delle esigenze della vita, ma non si tratta della sola potenza in gioco. La nostra epoca è molto dura con tutte le virtù che ricorrono alla durata. Essa sprona, minaccia, stordisce, non tollera più che si passino vent’anni a provare a vivere dei secoli. Il lavoro del puro esercizio senza speranza di frutti immediati, la lunga preparazione di se stesso allo scarto del mondo, la volontà di sottomissione a delle costrizioni che sembrano inutili o che sono fastidiose: ci sono divenute impossibili o insopportabili. Al tempo in cui il tempo non costava nulla, poteva esistere un ideale di perfezione […]. Più io so, più io sono: ecco quel che fan dire attraverso tutte le loro grandi opere tutti i maestri. Queste opere sopportavano un esame prolungato. Esse valevano tanto da essere copiate. Non si pensava ancora che il disegno o l’arte di scrivere fossero, per un privilegio speciale, dispensate da quello che esige ogni nostra azione indirizzata verso qualche dominio dei nostri mezzi naturali. Il pianoforte, la mistica stessa, richiedono degli anni di formazione, le lungaggini, le riprese, la noia e i rancori di ogni apprendistato» (De la ressemblance et de l’art).

I n ..n o m e.. d e l l ’. a r t e ..i t a l i a n a

Raramente fu così critico verso la «superstizione della modernità» come nell’articolo dedicato all’esposizione dell’arte rinascimentale italiana del 1935, dove pensando ai nostri pittori dei grandi secoli esclamava: «Beati quegli artisti, viene da pensare, cui nulla impedì di consumarsi nel divenire grandi». In quel tempo che correva verso la guerra, scriveva: «I giorni che viviamo non sono meno difficili, né le circostanze meno inquietanti, né l’avvenire meno incerto nell’ordine delle creazioni superiori dello spirito di quanto lo siano nel campo politico e in quello delle necessità materiali. Possiamo davanti a questa smagliante raccolta di pitture e sculture incomparabili non riflettere assai amaramente sullo stato attuale delle nostre arti? […] Noi osserviamo attorno, negli uomini e nelle loro opere, come anche in noi stessi, gli effetti di confusione e di dissipazione che ci infligge il movimento disordinato del mondo moderno. Le arti non si accordano con la fretta. (L’art italien).