domenica 3 agosto 2008

Feticci in mostra

AL CENTRE POMPIDOU DI PARIGI UNA MEGA-ESPOSIZIONE DI OGGETTI VAGHI PER TESTIMONIARE IL SACRO. A ROMA C’È CHI SI RALLEGRA DI QUESTO RICHIAMO ALL’ORDINE ESTETICO SENZA CAPIRE CHE SI TRATTA DEL TRIONFO DELLA GNOSI

Dicono i giornali, con il tono pettegolo di vecchie ladies, che oggi la religione ‘fa tendenza’ in campo artistico. Prova ne sarebbe la mostra nel caravanserraglio parigino del Centre Pompidou – quel lunapark precocemente invecchiato, eretto per onorare la memoria di un umanista conservatore – intitolata Traces du sacré (7 maggio-11 agosto). Roma drizza le orecchie, la capitale delle arti spodestata nell’Ottocento dalle innovazioni parigine (e dal saccheggio delle truppe francesi) vede, dopo le sperimentazioni insolenti d’ogni tipo, un rappel à l’ordre, una resa al Cielo. Così annunciano i giornali italiani, persino l’organo vaticano si rallegra, Dio non è morto dunque, si consola il critico del quotidiano «Europa» (persistono tuttavia le credenze sulla morte dell’arte). C’è davvero da intonare un Te Deum di ringraziamento?

Una lunga sfilata, centinaia di pitture, sculture, video e naturalmente quegli strambi oggetti che chiamiamo, con linguaggio da idraulico, installazioni. Si parte da Goya e da un drappello di romantici, Friedrich in primis con il quadro del crepuscolo che si spegne sulle rovine di una chiesa, seguono gli isolati fine-ottocenteschi, i Gauguin, van Gogh, Munch (di cui si espone la Croce vuota), quindi gli avanguardisti del Novecento, un figurativo quanto geometrico e spettrale trittico di Mondrian, cui succede l’angoscia espressionista e la blasfemia surrealista, le maschere africane, il magico, i sortilegi, l’informale visto come reazione alla guerra, perfino il pop ridanciano come consolazione del dopoguerra, il sangue bovino rappreso sulle pareti del museo per la Passione paraliturgica di Nitsch, infine tutti i capricci estetici del nostro tempo; con un’appendice fragile sull’‘arte sacra’, scaduta definitivamente a pompierismo, non senza le terribili eccezioni sempre più diffuse di uno stile pompier che strizza l’occhio allo sperimentale, ma qui sono esposti solo quei patetici doni di artisti miscredenti alle suorine fiduciose, come nel caso delle vetrate di Matisse per la cappella provenzale di Vence, nient’altro che una curiosità. (L’arte sacra di Gaudì per i modernisti è uno scandalo, meglio ignorarlo.)
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Trecentocinquanta opere, duecento autori, ripetono i comunicati da ogni parte. Tanto «vagabondaggio mentale» è a maggior gloria di Dio? A gloria dell’uomo suo specchio? No, serve casomai per enfatizzare i dubbi, i vacillamenti, la debolezza della fede. Sotto il termine di ‘spirituale’ si nascondono le diffidenze, il rifiuto della bellezza del mondo, la rinuncia a sfiorare commossi le sue superfici, il miracolo sostituito dall’effettaccio da circo, dal ghigno satanico, la impronunciabilità della parola decisiva, l’ineffabile senza mistica e molta impotenza, insomma lo scacco elevato a emblema. In tale esposizione, Nietzsche fa la parte di un padre della Chiesa.

Spirali, fumi, scritte, mandala, mobili psichedelici, il solito armamentario degli ultimi tempi, con titoli delle diverse sezioni: ‘dionisiaco’, ‘invisibile’, ‘dubbio’, ma si parla anche delle ‘risonanze dell’arcaico’ (con le evocazioni dei peggiori anni tedeschi che esso comporta), degli orientalismi arrangiati dalla beat generation, dei misticismi prodotti dalle droghe, insomma «il grande barnum del sacro», come osserva la rivista «Esprit», che se la prende giustamente con chi, in maniera hegeliana, seleziona ciò che si oppone al religioso e lo iscrive di ufficio nella linea del religioso. Ci si potrebbe riferire pure alla negazione freudiana, a quella specie di trappola che vuole inchiodarci a tutti i costi al rimosso, fatto sta che chi si è ribellato furiosamente contro la Chiesa, chi ha posto il Triumphus Nihili in luogo della croce, diviene automaticamente un angelo del sacro, un annunciatore della nuova èra. Si diffonde nel vitreo contenitore parigino l’occultismo tardo ottocentesco, la stregoneria di svariate epoche, la magia fuori del tempo, soprattutto di derivazione africana, in cui Picasso seppe cogliere e rielaborare la sinteticità delle forme senza lasciarsi catturare dalle divinità malvagie, a differenza di molti epigoni che si tuffano nella maledizione del primitivo (ma i pagani dell’Africa che in questi giorni hanno soppresso gli albini per paura della malia saranno da considerare ‘fuori dei recinti ortodossi e dogmatici’ e quindi associabili a questi spiritualissimi araldi dell’arte nuova?).

Avrebbe benissimo potuto far parte della rassegna la Rana crocifissa – che a Bolzano provoca scioperi della fame di chi prende sul serio le faccende estetiche –, sarebbe con tale metro generico del sacro un’ospite d’onore di questa manifestazione di santa blasfemia. Pendant del pupazzo crocefisso alla sua scrivania, prodotto di un goliardico giovanotto che già irrideva Karol Magno con mosse da briccone scolastico e che in questa rassegna è collocato nei piani alti. Qualche tempo fa addirittura i libri vennero crocefissi in un film strampalato di un vecchio regista, mentre da sempre le copertine delle riviste che inseguono lo ‘scandalo’ mettono in croce donnine, ragazze gravide che vogliono abortire, disperati in genere, giocando per mezzo di fotomontaggi sull’effetto ossimorico (ma anche un po’ pornografico). E sarebbe ‘spirituale’ – secondo i teologi della mostra – uscirsene con una ideina già collaudata e ottenere un risultato oltremodo redditizio grazie al ricorso a quel martirio divino? Il crocefiggere altri che il Cristo è l’ultimissima tendenza – direbbero le ladies osservatrici della cresta dell’onda –, mentre il Dio appeso all’albero infamante è tolto dai luoghi pubblici per volontà laica degli islamici. Gli autori di tali imposture in questi casi fanno a gara per mantenere «il monopolio dell’anticonformismo», come osservava scherzosamente in un lontano libro René Girard, passando il tempo «a sfondare delle porte aperte letteralmente da secoli. È la guerra moderna contro le proibizioni, già ridicola al tempo del surrealismo».

I curatori della kermesse invece parlano di fine della secolarizzazione, di tramonto dei Lumi, nutrendosi delle contrapposizioni della moda, degli schemi binari, mentre sembrano ignorare la «dialettica dell’illuminismo» riportata all’attualità anche dal papa tedesco. Quel che è più grave, gli storici dell’arte non mettono in luce che proprio nell’epoca della secolarizzazione e dell’eclissi della religione rivelata furono gli artisti ad autoproclamarsi sacerdoti di una religione sempre meno segreta, anzi vieppiù popolarissima, che ormai richiama masse di fedeli ignoranti nei templi-musei davanti a oggetti insensati: la religione dell’arte. Ma è un’arte disumana, frutto di una religione disumana come quei culti aztechi che esigevano sacrifici di prigionieri, di vittime innocenti, decorate con nastri e colori, che tra musiche assordanti e balletti e pantomime, multimediali si direbbe, placavano le divinità ingorde di sangue con i loro cuori ancora caldi e palpitanti, mentre i fedeli sbranavano braccia e gambe dell’olocausto.

Spira da tempo il vento del Nord, e non solo in campo estetico. Dall’affermazione della Riforma protestante in poi è scomparso il livello oggettivo e ontologico, tutto si svolge sul piano morale, affettivo e sentimentale (mi sentivo peccatore, ora mi sento salvato); la ragione e la volontà restano fuori dal convertito. La salvezza insomma è ridotta a un’esperienza sostanzialmente individuale ed emozionale. «Con il protestantesimo – dice un buon teologo d’oggi – è l'uomo che giudica la fede e non viceversa. La religione diventa un problema moralistico, il problema di fare del bene, che interessa solo chi avverte il problema del proprio peccato. La fede ‘protestante’ non è più un avvenimento che giudica il mondo e lo salva, bensì un messaggio che non mette in discussione il mondo così com'è, ma, anzi, deve trovare il suo posto nel mondo e precisamente nel cuore di coloro che, vivendo il problema del loro peccato, vogliono cambiare. La fede, cioè il sentimento di essere salvati, a cui ci si abbandona senza possibilità di comprendere fino in fondo, coincide con una posizione di assoluta fiducia, che non coglie la totalità dell'uomo come intelligenza e volontà, ma solo il suo aspetto affettivo e sentimentale. Il credente è ridotto a un tipo di uomo che ha il problema di vivere rettamente…». Ormai anche molti cattolici si muovono in questo modo; mezzo Occidente si sente mancare il terreno (oggettivo) sotto i piedi.

«L’arte – scrive il direttore del Pompidou in questa ghiotta occasione – non può essersi liberata della spiritualità o del sacro. Il quale, preso in senso metafisico, è sua parte integrante». Tanto ovvia da apparire sospetta l’affermazione. I motivi cristiani degli espressionisti e, prima ancora, di Gauguin e di van Gogh sono noti anche ai profani. E il sacro dei primitivi nel Novecento è materia di studio della scuola dell’obbligo ormai. Così l’esotismo extraeuropeo, il buddismo zen, lo zen ridotto a ornamento giardiniero, la teosofia degli astrattisti, lo steinerismo che detta consigli su diete e destini da oroscopo, il demonismo dei surrealisti: sappiamo, sappiamo. Del resto, in pochi hanno tentato di tradurre esteticamente lo scetticismo del pensiero liberale o hanno creduto a Wittgenstein quando annunciava che i limiti della nostra lingua sono i limiti del mondo: gli sforzi eroici degli artisti stanno lì a smentire questo iperrealismo positivista. E in pochi, costretti per lo più, hanno celebrato sulle tele o nelle sculture il materialismo dialettico. Anche le dozzinali opere del realismo socialista tradivano una religiosità naïve, una venerazione del popolo di ascendenza russa, tolstoiana.

Del resto, nel carcere della secolarizzazione, cioè senza alcuna piacevolezza trascendente, è difficile soggiornare a lungo. Si tratta di rimasugli di altri secoli. Buffi come i partiti neo-monarchici nel Novecento, quando i migliori artisti e pensatori erano schierati sul fronte della aristocrazia ma non più di sangue bensì dello spirito. Anche i comunismi politici erano già sepolti e casomai andavano letti con Baudelaire, «Avis aux non-communistes: tout est commun, même Dieu...»: soltanto per equivoco sopravvissero in un generico ribellismo. L’arte del positivismo borghese o dell’ateismo bonario invecchiò rapidamente, travolta dagli spiriti inquieti.

I russi del Novecento, innovatori forsennati, prima della rivoluzione operaia fecero quella dell’anima. Kandinskij predicava lo spirituale in arte e praticava lo spiritismo, Malevic profetizzava alquanto. Basta con l’illustrazione degli aneddoti, gridava, ed è la condanna ricorrente che interrompe la narrazione tradizionale composta appunto di aneddoti, di storie, per sostituirla con illuminazioni improvvise e accecanti. «Della mia epoca – dirà – non ho altro che un’icona nuda», cantando «la forza di andare oltre nella nudità del deserto. Poiché là è la trasfigurazione». Pensierini ascetico-mistici onde non riprodurre ma creare una forma nuova. Pretendevano perciò tali innovatori non di essere sicut Deus bensì il medesimo Deus. Solo che al posto dell’universo meraviglioso, dalle mani di questi pietosi demiurghi, escono quadretti malinconici. Si parla di «creazione assoluta»: prima che blasfemo è ridicolo.

La storia dell’arte sotto il segno del sacro sarebbe, a parere degli entusiasti della mostra parigina, l’altra faccia della sequenza trista di avanguardie e sperimentalismi, la smentita dell’ateismo. Ma quel che è accaduto in campo estetico dopo l’avvento della modernità rende questa storia meno semplice. I curatori della mega-esposizione sembrano dimenticare come le avanguardie abbiano trasformato l’artista in sacerdote e, soprattutto con Nietzsche, il filosofo in profeta. Rivadano a leggere la premonitrice intuizione di Novalis: «Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola, e soltanto i tempi successivi li hanno separati. Il vero poeta però è sempre anche sacerdote, così come il sacerdote autentico è sempre rimasto poeta. Ora perché mai non dovrebbe l’età futura ripristinare questo antico stato di cose?». L’arte come succedaneo della religione: il ritornello risuona negli artisti romantici e in quelli avanguardisti del XX secolo. Colui che al massimo era stato un demiurgo abilissimo pretende di divenire un redentore non sempre amoroso e un Dio onnipotente, a costo di legarsi all’estremo Negativo, Faust docet, ma troppo diffidente per stabilire patti con il Maligno, si lascia andare all’estetica, venera la manifestazione estetica del demoniaco, il deforme, il mostruoso, l’horror. Si vedano gli scritti degli artisti tedeschi che, filosofando assai, finirono per porsi questo problema fin dai primi anni dell’Ottocento, in particolare Philipp Otto Runge, «teologo del colore». Nel suo epistolario con i familiari viene fuori l’appassionata volontà di creare un’«arte nuova», si badi bene non un nuovo stile, una nuova tecnica, bensì una definitiva rottura con la tradizione artistica occidentale, un appello affinché le arti della parola e quelle visive e sonore si intrecciassero per dare vita a un universo estetico mai visto, dove l’umanità avrebbe scorto l’alba della redenzione. Allora, il colore sarebbe stato l’equivalente della nota nelle trombe apocalittiche… Più o meno nel medesimo tempo, Caspar David Friedrich sentenziava: «da un’opera d’arte io esigo elevazione dello spirito e impeto religioso». La religione che viene dannata nelle chiese e nei monasteri deve rispuntare nei musei. Una religione protestante, certo, avversaria della sensualità dei «migliori italiani», che si afferma mentre i pastori del gregge luterano perdono peso intellettuale e morale, contestati dall’illuminismo. Una libera interpretazione della natura che prende il posto di quella del testo sacro, una ricostruzione soggettiva della spiritualità affidata ai pittori. E fuori dalle chiese Friedrich dipinge il suo Crocefisso, icona di un nuovo culto.

Il responsabile della impresa parigina, trafficando con i luoghi comuni, dice che non è Dio che è morto, né la spiritualità a esser stata uccisa bensì i dogmi. Apriamo una parentesi su questa faccenda dei dogmi contrapposti alla fantasia scatenata, alla religione dell’animismo occidentale. Ammonisce George Steiner, che pure è un credente nell’arte della religiosità: «i decreti esplicativi e legislativi pronunciati da Roma e dai custodi dell’ortodossia nella Parigi medioevale, la clausura dottrinaria e metafisica della Summa di Tommaso d’Aquino possono essere compresi come un tentativo di mettere un punto ‘finale’ ermeneutico. Proclamano essenzialmente che il testo primario può significare questo e questo, ma non quello. Le equazioni che collegano la comprensione razionale e l’autorità esplicativa alla rivelazione sono complesse ma alla fine possono essere risolte. È lecito quindi definire il dogma come una punteggiatura ermeneutica, come la promulgazione di un blocco semantico. L’eternità ortodossa è esattamente l’opposto della revisione e del commento di un’interpretazione senza fine. Nella fede, nella logica e nella grammatologia scolastiche (come più tardi in Hegel), l’eternità è una forma ordinata e chiusa. Ciò che non ha fine è caos satanico» (Real Presences, trad. it. Garzanti 1992). Di quel ‘caos satanico’ è intriso il movimento interminabile etico-estetico dei nostri giorni.

Senza dogma, senza Dio, il caos satanico risulta tanto ambiguo da essere scambiato per religiosità. Nel frattempo, l’assenza divina che aveva causato i migliori drammi moderni, anche nei più sarcastici acuti, adesso sembra scatenare soltanto risate e satire sguaiate. Si consacra tutti i giorni la dissacrazione. Il flautista magico trascina il suo pubblico come un presentatore di cabaret, un barzellettiere. La caricatura, «negativo del bello ideale», «equivale a perfetta deformità» (Werner Hofmann), e quante caricature ossessive appaiono nella esposizione parigina. Il grottesco del mondo, la piccola sapienza che si costringe a sogghignare su tutto, è l’unica tonalità accettata. Per far tornare la memoria agli organizzatori della mostra si dovrebbe fornire loro l’intera bibliografia di Hans Sedlmayr su arte e satanismo, o semplicemente – in sede di bilanci – il perspicace rilievo dello storico austriaco sull’enfatizzazione nell’arte novecentesca dell’esprit de géométrie a discapito dell’esprit de finesse, segno inequivocabile della malattia estetica moderna. Se ne troverà poi una specie di sunto nel saggio di Jean Clair, Du surréalisme considéré dans ses rapports au totalitarisme et aux tables tournantes, che affronta, pur senza mai citare Sedlmayr, la spiritualità dei tavolini a tre gambe negli astrattisti, il cristianesimo sospetto dell’Espressionismo, il sacro dei surrealisti cambiato di segno e tendente al demoniaco, frequentando Trotsckij di giorno e Madame Blavatskij di notte (ma tra i libri ancora sui banconi dei negozi, c’è per noi un raccomandabile saggio di Enrico Castelli sul medesimo tema, appena riproposto da Bompiani, Il demoniaco nell’arte: «La nausea non è che il modo di distinguersi, un modo di distinguersi. Si ha la nausea quando buttiamo fuori di noi qualche cosa che non è assimilato. Ci separiamo. La nausea è un separarsi, o il principio di una separazione. Quindi la nausea è un aspetto del demoniaco, nel simbolismo dei pittori-teologi».

Con onestà, Carlo Ossola, in un libro concepito in francese, dunque a disposizione dei teorici del bilancio sacralizzante del Pompidou, chiariva bene: «Après la mort de Dieu, s’ensuit la mort de ses copies: l’art, la poésie, la musique, tout ce qui était ordre et beauté» (L’avenir de nos origines. Le copiste e le prophète). Perché l’ordine e la bellezza non possono essere messi nel calderone del sacro. Perché per l’ortodossia cattolica, «non c’è arte se non c’è incarnazione, e in che cosa del resto si incarnerebbe se non nell’immagine dell’uomo e in quella del mondo quale si è rivelata all’uomo?» (la citazione appartiene al leggendario russo Wladimir Weidlé, Les Abeilles d’Aristée, Paris, 1936, su cui «Almanacco» promette di tornare). Sacramento non è altro che manifestazione di Dio nella carne, non nella astrattezza fantastica. Teodoro Studita sosteneva d’altronde che poiché Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre, e se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non da Maria. Perché il cristianesimo annuncia che la rivelazione si può «vedere e toccare». Perché, sulla scia di von Balthasar, Ratzinger ripete che l’arte cristiana è fatta di annuncio «nella perfezione della bellezza», tentando di arginare la seduzione del Brutto che, totem dei romantici, sembra stregare lo spettatore attuale.

A Parigi, come in tutti i musei contemporanei del mondo, si rivendica un rapporto individuale con la divinità, ma poi con un cachinno si informa che la divinità è introvabile. Sacro nella sua ambiguità corrente – sottratto cioè alla eccezionalità cristiana che libera dal sacrificio, che riscatta la vittima – è allora una violenza che si abbatte sui deboli, è una forza di morte che puntualmente ritroviamo in quei feticci modernisti che riempiono i musei. Sacro è mescolamento tra vita e morte, mentre per Cristo «la morte non ha più nulla a che vedere con la vita» (ancora Girard ci aiuta), anche per il carattere naturalista della sua morte, nient’affatto simbolico. La demistificazione cristiana, lo strappo con una mitologia che giustifica la violenta repressione della vittima, viene rovesciata nelle nuove mitologie gnostiche, nelle piccole mitologie surrealiste che cedono all’antinomismo di successo, alla facilità del vizio. Se un gestore di bordelli mettesse come insegne delle sue imprese commerciali la frase di san Paolo sulla fine della Legge, lo annovereremmo per questo tra gli eroi spirituali?

In un solo colpo l’aura tanto bistrattata dal povero Benjamin viene reintrodotta con trombe e timpani. L’aureola spirituale brilla intorno a qualsiasi prodotto estetico contemporaneo, a prescindere dalla sua qualità, dai suoi risvolti metafisici, è quasi un marchio per crescere di valore sul mercato. Qui invece tornerebbe saggio l’ammonimento del pensatore ebraico-berlinese che a sua volta riprendeva da Geremia e dai grandi insegnamenti biblici: non fatevi idoli, non mettete loro intorno l’aura dello spirito divino, l’opera d’arte è sempre umana molto umana, può rinviare al Cielo, ma è roba terrena, che parte dai sensi, che non deve saltare la barriera dei sensi, che punta al cuore prima che alla mente. Geremia ridicolizzava il culto delle immagini presente negli altri popoli: «si taglia un albero dalla foresta, opera di chi lo lavora con l’ascia. Lo adorna d’argento e d’oro; lo rafforza con chiodi e con martelli affinché non vacilli. Sono come spauracchi in un campo di cocomeri, non possono parlare. Bisogna portarli, poiché non camminano. Non temeteli poiché non possono nuocere così come non è in loro potere fare del bene». Quel bizzarro oggetto innalzato, un idoletto addobbato, fissato con chiodi al pavimento, rigido da apparire come uno spauracchio: quasi una installazione modernista.

La «Nouvelle Théologie» la chiama Alain Besançon nel suo L’image interdite (Fayard), teologia di impostazione gnostica, per vincere l’attaccamento a questo mondo come avrebbe voluto Schopenhauer: quale migliore addestramento di una visita a un museo contemporaneo per deprimersi in questo modo? Quale luogo più ideale per la demoralizzazione dell’Occidente? L’arte come sedativo, come narcotico. Impressionante la somiglianza degli ospedali con tali musei. Oggi il museo è uno spazio dell'inquietudine esattamente come l'ospedale, dove non si grida più dal dolore ma ci si sente soffocati da una angoscia compressa, un'angoscia farmacologica.

Siamo giunti così alla parola-chiave: gnosticismo. Per gli gnostici tutto è bassezza in questo mondo perfino l’anima, figuriamoci la carne. L’antropologia degli gnostici chiede una disincarnazione dell’uomo, una tendenza verso la distruzione del corpo. L’estetica pretende dunque l’abolizione della figura. Ci voleva la sfrontatezza moderna che corre impassibile il rischio dell’insensato e del ridicolo, per potere mettere a punto un’arte gnostica. Nell’ubriachezza del mondo predicata da tutta la gnosi, l’uomo è dispensato da ogni sforzo morale e l’unica azione valida per lui resta il rifiuto del mondo, della sua bellezza sensuale, un rifiuto così radicale da non escludere l’immoralità libertina, senza piacere: il vizio in sé dei carpocraziani, per esempio. O gli estremismi dell’encratismo che negano la famiglia, il vino, i godimenti materiali, il futuro del mondo. Sulle tracce dello gnosticismo era il titolo veridico per la mostra parigina.

La verità sensuale di Tiepolo

Onde smascherare agli occhi del papa i cortigiani che avevano calunniato la sua arte somma, il pio Gian Lorenzo Bernini ideò e scolpì una giovinetta sorridente, gioconda e interamente nuda per personificare la Verità svelata dal Tempo, secondo quanto insegnavano i Greci, che la chiamavano Aletheia, con il negativo dell’alfa iniziale per catturare quello che c’è di sfuggente e nascosto, da disvelare appunto all’infinito come una cipolla. Senza alcun papa da convincere, anche Tiepolo concepì in una villa veneta una sua Verità pittorica, anzi più di una, ma – come voleva il clima illuminista dell’epoca – piuttosto che drammaticamente nuda, vezzosamente discinta. Trascorsi alcuni secoli, i cortigiani di Palazzo Chigi, trovandovi una copia dell’affresco, poi distaccato e trasportato in un palazzo di Vicenza, collocarono questa copia come immagine dell’eloquio del Primo ministro italiano, in modo che risultasse onesto e verace, sistemata dietro al suo tavolo da cui dialoga con i giornalisti. L’idea dell’allegoria era buona, la scelta di Tiepolo, l’ultimo grande della gloriosissima storia dell’arte italiana, altrettanto sagace. Ma i cortigiani, fini analisti dell’immagine pubblica del loro capo, trovarono che il dettaglio del petto, piccolo e leggiadro, offerto nudo agli spettatori dello schermo domestico, ingrandito e puntinato dalla riproduzione elettronica, risultasse troppo licenzioso o sembrasse alludere alle caratteristiche puttaniere dell’uomo; trattandosi appunto di una copia, non si lasciarono intimidire: commissionarono a un braghettone post-moderno, magari uno scenografo del mondo tv, un velo che coprisse almeno la bianca coppa del seno. Subito la televisione, con il suo alone di fissità mortifera, rese il trucco palese. Tutti si accorsero allora dell’intervento e in molti ne risero come fanno i semplici quando scoprono gli imbrogli del potere. Però quelli che semplici non sono ripeterono come un sol uomo osservazioni che la dicono lunga sullo stato dell’arte (o della sua ricezione). Proprio come sosteneva Jean Clair nelle citazioni riportate dal nostro «Almanacco» (Il vizio nel museo, 8 luglio), «le immagini sono diventate ai nostri occhi inoffensive e insignificanti» al punto che i loro presunti esegeti diventano paradossali: negano anzitutto che una simile nudità possa colpire i telespettatori, l’arte di Tiepolo insomma sarebbe meno lussuriosa di quella delle aspiranti sgambettatrici; anzi, in molti si chiedono perché mai, con tanti corpi svelati che si vedono in giro, dovevano censurare proprio Tiepolo? Si conceda almeno che è più eloquente lui che tutte le immagini correnti. Ma, come ammonisce Clair, non si afferra più il potere dell’arte e quindi neppure il suo pericolo. E infatti, «l’arte evidentemente spaventa», scrivono con rammarico i giornalisti prendendosela con i 'censori'. A loro parere, dovrebbe essere innocua, rassicurante come uno spot pubblicitario. Una agenzia arriva a formulare una frase decisamente comica: «Può uno splendido dipinto settecentesco del Tiepolo, che ritrae una giovane donna che rappresenta la Verità, “toccare la sensibilità di qualche spettatore” solo perché mostra un seno nudo?». E perché no. A che servirebbe allora lo splendore se anzitutto non atterrisse? Ma in un sondaggio online vince al 90% il parere contrario, è ovvio che i paladini della libertà artistica non sanno nulla di chi difendono generosamente. Tutti insensibili si dovrebbe essere ai corpi dipinti? Tutti sublimati dall’arte, come si giustificavano un tempo le attrici di nudo?Non pare vero che qualcuno resti turbato da un seno dipinto e lo consideri eccessivamente godurioso. Da quanto tempo non si sentiva più parlare del possibile godimento fisico prodotto dall’arte pittorica. Scriveva Guido Piovene che, essendo di Vicenza, magari era cresciuto avendo negli occhi l’immagine della Verità dipinta dall’artista veneziano: «La sensualità del Tiepolo è davvero totale, imbeve tutto ciò che appare, arriva per tutte le vie… si dissimula sotto gli involucri più diversi». Si dissimula deliziosamente anche sotto le chiacchiere degli anestesisti dell’arte.