venerdì 4 dicembre 2009

minima / La caduta

Càpita di entrare, in occasione di un ‘evento mondano-artistico’, nel mega-garage dove hanno sistemato l’Ara Pacis e di scoprire che, come fossimo a Disneyland, dei fasci di luce colorano virtualmente i rilievi del monumento augusteo. Un piccolo affronto alla libertà dello spettatore di interpretare e di immaginare le reliquie del passato. Eppure le rovine attraggono in quanto «opera d’arte incompiuta», diceva Simmel nel suo celebre saggio sull’argomento. Non si potrebbe offrire questo sussidio didattico puntando i riflettori su un calco da collocare negli inutili spazi che attorniano la teca?

Càpita di alzare gli occhi sopra i marmi romani e di scoprire una volta a vetri che riprende fedelmente le forme di una fabbrica berlinese inizio Novecento. Perché mai, di grazia, simile accostamento? È una spiritosaggine?

Càpita di entrare con un’amica nel recinto dell’altare per ammirare i fregi marmorei che ispirarono gli artisti del nostro Cinquecento e un istante prima di infilarvi il piede essere raggiunti dall’avvertimento di un custode: «Attenti al gradino!». Càpita poi che, uscendo dal magico quadrato, l’amica non faccia in tempo a sentire il monito di un altro solerte custode, inciampi quindi e cada rovinosamente sul marmo. Senza neppure i «balsami beati» delle Grazie invocati da Foscolo. Il responsabile del suo acuto dolore è l’autore americano di questa offesa alla storia di Roma. Non si tratta soltanto di bruttezza, di faccende di gusto: un architetto che, forse per calcoli sbagliati, si ritrova un piccolo dislivello intorno all’opera per la quale ha costruito tutto l’edificio e, invece di pareggiare il pavimento là dove il flusso è maggiore, costringe le folle dei visitatori a rischiare gambe e piedi, impegnando inoltre ben quattro custodi – nei quattro angoli dell’ara – a ripetere perennemente la raccomandazione ai malcapitati, è al contempo un incapace e un mascalzone.
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