sabato 29 agosto 2009

Totenlandschaft

~ PAESAGGIO DI MORTI, UN MONDO DI GHIACCIO TRASFORMATO IN CIMITERO: ALLE ORIGINI NORDICHE DELLA STORIA DELL’ARTE MODERNA, OVVERO COME PASSARE DALLA RAPPRESENTAZIONE DELLA NATURA DEI ROMANTICI AL VUOTO SPINTO DEL NICHILISMO ESTETICO. ~ SU UN VECCHIO LIBRO DI ROBERT ROSENBLUM ~
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Avendo dedicato qualche puntata al decisivo passaggio tra Neoclassicismo e Romanticismo, là dove il paesaggio prende il posto del crocifisso e in quello scorcio cupo si gioca la suprema scommessa metafisica, ci piace a questo punto rammemorare e discutere uno storico dell’arte statunitense, Robert Rosenblum (1927-2006) che, qualche decennio fa, deviò dalla strada affollata che conduceva tutta l’arte moderna a Parigi e andò a indagare nei mondi gelidi del Nord Europa, tra gli antenati degli espressionisti, luoghi parecchio periferici rispetto alla capitale francese, addirittura agli antipodi di Roma, Siena, Firenze, Venezia, cuore della tradizione, mondi a lungo sconosciuti che ambirono poi nel Novecento a egemonizzare l’umanità, compiacendosi dunque di misurarsi con i tesori classici conservati agli Uffizi o al Louvre, opere tanto disprezzate, e in modo rozzamente moralistico, al momento della loro affermazione. A questi sentieri che si perdono nel bosco, agli Holzwege della storia dell’arte dedicò una serie di conferenze che risalgono all’inizio dei Settanta, poi raccolte in un volume: Modern Painting and the Northern Romantic Tradition: Friedrich to Rothko, tradotto in italiano dalle edizioni 5 Continents di Milano nel 2005, La pittura moderna e la tradizione romantica del Nord. Da Friedrich a Rothko. Spiace l’accostamento tra l’artista della Pomerania e l’ebreo-lituano suicida: se si deve mostrare una genealogia, rintracciare le cause della svolta, ossia dello svuotamento del quadro, dell’annichilimento della scena, della negazione dell’immagine, è giustissimo ritrovare nei deserti bianchi di Caspar David Friedrich, il pittore che voleva rompere con la tradizione artistica, la causa prima della degenerazione dei nostri tempi, ma risulta urticante vedere sul medesimo piano il solitario artista protestante e i nostri esteti senza opere. La degenerazione dell’arte, prima ancora che una trovata propagandistica dei nazisti, era evidente agli occhi dei più severi: così per esempio veniva bollata dall’apostolo del sionismo, Max Nordau, che già sul finire dell’Ottocento parlava di Entartung.
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Su queste origini romantiche del Nord, sul ritorno dei tedeschi a dettar legge nel campo dell’arte alle soglie del moderno, dopo una eclisse di secoli, dissero esemplarmente, fuori dei confini germanici, Marcel Brion e il nostro Mittner soprattutto delle Ambivalenze romantiche, più recentemente in terra tedesca Werner Hofmann, ma Rosenblum colse nel segno quando scorse anzitutto un fenomeno religioso. Nel primo capitolo del suo volume scrisse della «resurrezione di Dio» (naturalmente contrapposta a quella «morte» annunciata da Nietzsche) per opera di alcuni pittori nordici, non tutti di area germanica. Da questa ‘resurrezione’, da questo Dio alquanto astratto, snodò il filo rosso dello spiritualismo che addirittura, all’inizio del Novecento, si pervertì in spiritismo, nei circoli di Madame Blakatskj che attrassero i Kandinskij e i Mondrian. Se è condivisibile allora la collocazione dell’origine di quella che abbiamo chiamato la religione dell’arte nelle speculazioni pittoriche di Friedrich come di Turner, nelle cosmogonie di Asmus Jacob Carstens, di William Blake e di Runge (su quest’ultimo v. «Almanacco Romano» del 18 luglio 2009), sembra azzardato tuttavia considerare ancora dei sacerdoti del culto estetico i protagonisti della deriva americana nella metà del Novecento, piuttosto rappresentanti delle loro personali nevrosi, adoratori dei loro modesti capricci.
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Il fatto è che i primi, benché spingano al massimo il soggettivismo nell’atto di rappresentare, mantengono poi il legame con l’oggetto rappresentato, ne cercano anzi una fedeltà più sottile, condannando il manierismo degli inganni, dei trompe-l’oeils. I novecenteschi, invece negano la rappresentazione stessa, sostituita dall’espressione: un animalesco trasmettere delle emozioni. Ove Friedrich lavorerà niente di meno che sulla pittura di genere, appena torcendo in chiave introspettiva i paesaggi sinistri che si rifacevano, già in un cliché secolare, agli scenari aspri e severi di Salvator Rosa, con le figurine che vi si perdono. In luogo delle rocce che si immergono nelle marine capresi, quelle che scivolano nel Baltico, gli abeti invece dei pini ombrelliferi, cieli bianchi turbolenti al posto del sempiterno azzurro d’Italia, considerato ormai stucchevole.

Nel Monaco in riva al mare, opera cui Rosenblum dedica parecchie pagine, le radiografie hanno rivelato che inizialmente Friedrich dipinse diverse barche, poi via via le cancellò, così come uno scrittore procede togliendo personaggi e aggettivi in un racconto, ma senza per questo rinunciare al racconto, senza trasformarlo in un lirico delirio. Turner calcò la mano sull’aspetto soggettivo della rappresentazione, scarnificò come Friedrich l’episodio narrativo al suo significato più essenziale, eppure tutto ciò non intaccava il fatto che il quadro rappresentava appunto una scena spoglia, un episodio scabro, niente a che vedere, cioè, con le tautologie di Rothsko.

L’ascesi di Friedrich, le voluttuose percezioni di Turner non rovesciano il senso della pittura. Magari – a causa del sublime innalzato da Kant a nuova fede, diremmo noi – per gli spettatori moderni il dipinto del Monaco evoca una esperienza religiosa, «come se i misteri della religione avessero abbandonato i rituali delle chiese e delle sinagoghe e si fossero trasferiti nel mondo della natura», però è piuttosto negli occhi del pubblico che si è già consumata l’esperienza romantica del sacro e si è pienamente abbracciata la religione dell’arte. Nella pittura di Friedrich, ha ragione Rosenblum, si può rinvenire il cristianesimo di Schleiermacher, che Barth esalterà come un moderno riformatore della teologia protestante. Ma mentre Lutero voleva contrapporre il crocifisso agli splendori romani, i suoi seguaci, dopo appena due secoli, rimuovono anche il crocifisso e si fissano su un triste paesaggio panteista («nulla di più triste», notò subito Kleist a proposito del Monaco friedrichiano), una contemplazione della natura che surroga il Dio torturato nel corpo. «Nuove religioni prendono il posto del cristianesimo», osserva Rosenblum, nuovi martiri sono celebrati: «quando l’ateismo vorrà dei martiri, non ha che da dirlo: il mio sangue è qui pronto», fa dire alla sua libertina il marchese de Sade nella Nouvelle Justine. Sia pure esulando allora apparentemente dal tema, bisognerebbe riflettere su questi riformatori protestanti che non sono mai in grado di reagire adeguatamente all’anticristianesimo che marca il moderno, al massimo offrendo una via malinconica e dolorosa alla rassegnazione, una accettazione luttuosa dell’attualità che fa a meno di Cristo…
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Il problema è che – come si accorge Rosenblum – «nei paesi cattolici e protestanti la trasposizione dell’esperienza cristiana si fonda inevitabilmente sulla corporeità ereditata dall’iconografia religiosa». Ma «nel Nord protestante, assai più che nel Sud cattolico, avvenne un altro genere di passaggio dal religioso al secolare durante il quale ci accorgiamo che i poteri divini hanno abbandonato i drammi di carne e ossa dell’arte cristiana per penetrare nel regno del paesaggio». Cristina Campo parlava di «meravigliosa carnalità della vita divina» ferita dalla Riforma e dall'Illuminismo.
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L’Inchiesta filosofica sul Bello e sul Sublime di Edmund Burke dimostra che anche un conservatore tanto equilibrato da non lasciarsi irretire dall’ondata rivoluzionaria che viene dalla Francia, si fa ammaliare dalla natura selvaggia e prova languore e tremore nei confronti di questo sacro vegetale. Figlio di una cattolica e di un protestante, il Cicerone britannico sembra ondeggiare tra i due poli, tra realismo politico e mistica estetica. Il culto della natura nell’isola britannica si diffonde al di là delle confessioni religiose. Il «landscape painting» si tramuterà nell’inscape, paesaggio interiore, neologismo inventato da Hopkins, il gesuita poeta delle nuvole. Chateaubriand, romantico latino, conosceva bene questa mania del sublime per aver abitato la Gran Bretagna negli anni dell’esilio, e la criticò con forza nella Lettera sul paesaggio in pittura, datata Londra 1795. In nome del pittoresco se la prendeva con le «folli» dismisure del sublime, invitando a «rettificare l’immaginazione», a ridimensionare le montagne che toccano il cielo, i flutti che si alzano nei nostri pensieri, i venti e i tuoni, «Un million de choses incohérentes presque ridicules». Che il pittore insomma guardi attentamente l’oggetto della rappresentazione, lo studi, lo conosca, prima di fantasticare tanto.
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Il Werther dolorante, una specie di Cristo dei pittori irresoluti con la sua passione e morte, scrive nel diario: «mi sentivo esaltato da questa pienezza traboccante fino a percepire la divinità […]. Montagne stupende mi circondavano, abissi si spalancavano ai miei piedi…». Il saggio Goethe sa che questo suo giovanotto sentimentale si inebria di sensazioni che lo condurranno alla triste fine. Allora, fa meditare il fatto che la «pienezza» dello spirituale, il sublime del paesaggio, trascini all’autodistruzione, nascondendo la morte ancora più subdolamente dell’Arcadia di Guercino e di Poussin. A furia di sentirsi – come scriveva Carl Gustav Carus nelle sue Lettere sul paesaggio – «insignificanti» rispetto alla immensità della natura, ci si convince della propria nullità. Tutto il contrario della cultura cattolica che dà autentica pienezza all’individuo, a cominciare dal corpo, a sua immagine, come viene raffigurato nella stagione aurea del Rinascimento.
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Nel 1907 apparve la tesi di dottorato di Wilhelm Worringer, Abstraktion und Einfühlung: l’astrazione si rifaceva all’arte islamica ma doveva incrociarsi con le sperimentazioni del Cavaliere Azzurro; l’Einfühulung era invece quell’empatia, quell’espandersi nel mondo, quel fondersi in un oggetto esterno che rompeva i ponti con la logica e la razionalità della rappresentazione. Il termine proveniva da Friedrich Schlegel e da uno stuolo di altri romantici. «La storia dell’arte – commenta Jean Clair – diviene così la storia delle pulsioni primitive, dei bisogni primordiali di esprimersi, come se creare e gridare, per esempio, come se cantare e comunicare, come se ‘esprimersi’ e ‘dire’ fossero una sola e identica cosa». Il passaggio segreto tra romantici del Nord ed espressionisti di tutte le risme risiede qui. L’importante è aver sempre presente le differenze che pure si mantengono tra i due movimenti.

Friedrichs Totenlandschaft, un paesaggio di morti di Friedrich, secondo un verso di Karl Theodor Körner: vi si raffigura esclusivamente la morte. Rosenblum lo paragona a Die Winterreise di Schubert, «un mondo gelato trasformato in cimitero». Un viaggio di morte infatti scrisse il musicista trentenne prima di concludere la vita terrena, una via crucis laica di ventiquattro stazioni – o della medesima religiosità di Friedrich, appunto –, un viaggio interiore sicuramente, allucinato anche, una estrema metafisica dell’assiderazione, ma c’è il canto che si dispiega – come nei quadri di Friedrich si raffigura ancora –, Lieder dolcissimi mitigano il cammino sotto l’egida di Saturno, melodie che gareggiano con l’infinito dolore del pittore del Nord, lacrime ghiacciate, marmoree scene, che riecheggiano i paesaggi del pittore, l’algido mondo della bianca luce, mentre gli epigoni sapranno solo trafficare con la morte come necrofori, senza più produrre alcunché di buono.
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Magistrale era stato l’intervento del giovane Rudolf Borchardt sulla natura nordica e in specie tedesca, spiegata a contrasto con quella italiana, e in specie toscana, cui lo scrittore aveva dedicato il prezioso saggio «Villa» (1907). Riassumendo la lezione di Goethe e il tourbillon romantico, Borchardt scriveva: «nella religione del Sud si è sempre santificata la natura, già resa domestica e ferace di beni utili, mentre in quella del Nord ci si abbandona a una natura selvaggia, senza impronta di sé e a se stessa bastante. […] L’uomo di questa religione ama andare errando a inerpicarsi dovunque, calzato e attrezzato, su per rocce, neve e ghiacciai, ‘incontro alla tempesta, alla pioggia e al vento’; gli piace sostare in solitudine, anzi anela di trovarsi solo e di avere intorno a sé le foreste, sopra di sé le montagne, terre colte e case ai suoi piedi, distanti; quello dell’altra vuole abitare in un qualche posto. L’uno è insofferente a qualunque dimora; l’altro sta di casa in antichissime, bianche masserie, tra campi e armenti, pensoso dei suoi morti, e dalle mani delle divine stagioni compiacenti riceve i simboli della campagna: bianca farina e pani d’oro per i campi in piano, olio dorato per le ulivete, vino bianco o nero per le vigne, castagne per i boschi montani, una cornucopia di frutta per i frutteti – tributi della terra, ieri nemica, oggi suddita soave…». Schematizzando le parole del Giardiniere appassionato – come si autoritrarrà in un titolo – , del signore che abita la villa della Lucchesia, dell’ebreo che idealizza i regni tirrenici e sulle rive di questo mare incontra i suoi eletti amici, a cominciare da Hofmannsthal, da una parte la cultura cattolica, dall’altra non tanto quella luterana bensì la più evanescente religiosità dei Friedrich, dei Novalis, dei Jean Paul. «La sofferenza degli antichi arii – proseguiva Borchardt – per l’individuo, l’angoscia per la sua insana inquietudine, le contraddizioni che fanno ressa nell’anima sua, risvegliano nell’uomo del Nord il ricordo di un’esistenza più elementare, ormai perduta, e lo spingono verso una misteriosa fratellanza con ogni albero o fiume o roccia, verso ciò che vive come Dio ha stabilito e non conosce contraddizioni; la sua è nostalgia dei puri istinti […]; egli fugge se stesso e può chiamare Dio quello che cerca: anche lui è un fiume e cerca la sua foce». Eterno annaspare verso le origini, ritorni a quell’arcaico che nel Novecento si affermò nella pittura espressionista e nella poesia ‘dorica’ di Benn, mentre l’animo meridionale «non può risalire verso una primigenia condizione che già più non esisteva quando i latini si affacciarono alla storia, anzi era anteriore ai loro stessi miti. In fondo, il latino torna col desiderio a un’epoca intermedia…». Per il resto, si pasce dell’eternità divina. Ecco perché «il suo doloroso contrario – la condizione nel tempo opposta a quella eternità, la maledizione opposta a quel paradiso – egli non potrà mai sentirlo col mistico dissidio dell’anima del cui paradiso, il mondo selvaggio e smemorato, egli ha ormai perduto ogni ricordo» (da «Villa» in Città italiane, Adelphi, 1989, pp. 46-50 passim). All’inizio del Novecento, ancora lontani dalla generalizzazione del «globetto», come lo chiamava già Leopardi, gli italici rappresentati da Borchardt non potevano deliziarsi di una pittura tanto estranea e senza garbo, o meglio di una religione tanto selvatica come quella messa in scena da Friedrich.
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L’aspetto antropologico che ancora nei coevi pittori francesi sapeva affermarsi, tra i nuovi mistici tedeschi è travolto dal «dominio della natura in cui l’uomo svolge il ruolo di un intruso malvagio e sfortunato». Lo stesso che si affermerà nei nostri tempi, nei quali l’uomo che attraversa una spiaggia o una foresta è visto come un profanatore, quasi la terra non fosse più ai suoi piedi. Il culto di Gea è la nuova religione pagana e oscura, che prese le mosse con il conte di Shaftesbury, con i giardini devotamente selvaggi all’inglese, che consacra la natura. Oggi più che mai il confuso pensiero neopagano sacralizza terra e ambiente, le si prostra devoto. Già ai tempi di Friedrich comunque sembrano attribuirsi sentimenti umani agli elementi del paesaggio.
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L’Europa cristiana presenta paesaggi che contengono campanili, cupole, croci, città turrite, rovine classiche, «macerie gotiche» (Chateaubriand), ma ormai nei quadri di questi monaci dell’interiorità sono appena uno spettacolo, un pretesto pittoresco, un punto d’appoggio per spiccare il volo spirituale. Uno po’ come nel nostro tempo diventano sfondo per offrire valore aggiunto di suggestione a concerti e recital di poesie che evidentemente ne sono privi. Spiritualità spicciola a paragone con quella degli antichi credenti. Runge si sentiva ormai «al margine di tutte le religioni che sono nate dalla religione cattolica». Ed era convinto che ogni residuo religioso, ogni eclettismo estetico, «tutto cerca il paesaggio». Si passa «dai tradizionali temi cristiani ai loro surrogati» dice Rosenblum.

(È curioso che in una paradossale ed eccentrica scrittura di un post-moderno come Derrida si scopra come il filosofo ebreo francese ideando una mostra per ciechi, che produce a sua volta un testo, Memorie di cieco, ricorra a svariati esempi della tradizione – la Guarigione del cieco, i Ciechi di Gerico, Tobia e l’Angelo, Omero con gli occhi spenti, gli occhiali di Chardin o quelli che si scorgono in un disegno di Pisanello, allegorie sacre e profane – mai utilizzando gli occhi interiori della pittura romantica nordica e men che mai quelli dei contemporanei.)

Dalla «sopravvivenza e rinascita del romanticismo nel tardo ottocento» Rosenblum trae un altro capitolo. Il romanticismo come «potere originale di evocare il divino e il misterioso». Visioni e atmosfere di santità si placano nella metà dell’Ottocento mentre si afferma il Biedermeier e il realismo di marca francese. Si alterna pertanto l’addomesticamento della natura e l’addomesticamento dell’uomo.

Al contrario di quel che pensa Rosenblum, l’arte e la letteratura protestanti non traggono dalla natura una «umanizzazione del divino», bensì il divino perde così il più sottile tratto personificante e perfino il panteismo dimentica l’aspetto provvidenziale, riducendosi tutto a meccanismo cieco e oppressivo. «Se ci si allontana da Parigi», comunque, si scopre che questa ricerca religiosa nel naturale, volgendo le spalle all’Art pour l’art, prosegue il suo cammino eretico per l’intero secolo diciannovesimo. «L’opera di Vincent van Gogh – sostiene l’autore del libro – è il migliore esempio di questa sopravvivenza, o forse rinascita, nel diciannovesimo secolo postimpressionista, delle questioni sollevate dai romantici del Nord». Riesce l’accostamento tra i paesaggi desolanti con rovine gotiche, talvolta con figurine angosciose, di certi dipinti di van Gogh, e i paesaggi di Friedrich. Così come è accattivante il confronto tra alcuni ritratti di van Gogh e quelli di Runge: in ambedue le opere i bambini appaiono impressionanti «per dimensione e vitalità», «costringendo la madre a un ruolo subordinato, quello dell’albero vecchio e debole…». Segno ancora più eloquente di una tendenza spirituale dell’epoca, va detto che nulla ci autorizza a sospettare che il pittore olandese abbia mai visto anche una sola opera dei due artisti tedeschi.

Scendendo verso altri epigoni del pittore di Greifswald, l’autore dedica un capitolo a Munch. Il norvegese voleva dipingere immagini che costringessero gli uomini «a togliersi il cappello come se fossero in chiesa». Compose opere che piuttosto provocavano la compassione come in un ospedale psichiatrico. Anche nei quadri di Munch ci sono figure solitarie in tensione con la natura. In essi la contrapposizione degli umani-lillipuziani alla potenza della natura diviene contrasto violento tra le figure umane (femminili spesso) e la terrificante (agli occhi del pittore) potenza sessuale. Un magnetismo che si diffonde, un erotismo che però sembra voler fare a meno dei sensi e si trasforma in religione dei fantasmi. Paesaggi psicologici che denunciano delle patologie; geografie dell’anima inquieta. Questo il moderno che si distacca dalla religione di Roma. Ecco allora un trionfo della morte affidato a scarabocchi ossessivi, a caricature, a mostriciattoli, a visioni di adolescenti truci che riempiono i quaderni di segni sinistri, allusioni suicidarie, di morte e sesso sognati, di curiosità insoddisfatte per i misteri della vita.

C’era chi si immedesimava negli alberi e chi negli animali. Franz Marc fu uno di questi. I temi perciò restavano romantici, magari aggrovigliandosi maggiormente, ma le forme si immiserivano. I paesaggi non presentavano soltanto nero e morte, bensì puro niente. Lo aveva preannunciato Basilius von Ramdohr, politico conservatore, diplomatico prussiano, critico d’arte che aveva visto Napoli e Roma, vivendo nelle città mediterranee e studiando l’arte di quaggiù, quando partì all’attacco di Friedrich, in particolare della sua Croce in montagna e, in base a quest’opera, profetizzò sconvolto: «la sfortunata cova del periodo presente è l’orrendo presagio di una barbarie che velocemente si avvicina». E in un articolo per la «Zeitung für die elegante Welt» del gennaio 1809: «Quel misticismo che ora si insinua ovunque e che, dall’arte come dalla scienza,dalla filosofia come dalla religione, esala verso di noi come un fumo narcotizzante! Quel misticismo che spaccia simboli e fantasie per immagini pittoriche e poetiche, che vorrebbe scambiare l’antichità; classica con l’intaglio gotico, con rigide calcografie e con leggende! Quel misticismo che, al posto dei concetti vende giochi di parole…».

Strada facendo infatti – ma questo Rosenblum non lo dice –, man mano che i quadri diventavano verbosi, predicatorî, oracolari e sintomatici dell’estremo male esistenziale, le immagini si impoverivano. Ridotte all’essenziale nei romantici e post-romantici di fine Ottocento, sfiorando la naïveté figurativa dell’infanzia, finiranno per rinnegare se stesse, per diventare iconoclaste, segni iconoclasti; si bloccheranno (e baloccheranno) in una contraddizione mortale che è quella presente. Rosenblum invece vi cerca ancora una fertile discendenza.

Da parte di certi pittori, insomma, c’era il rifiuto del loro ruolo di decoratori del mondo, che non era cosa di poco conto: completare l’opera della creazione, rendere più evidente la bellezza dell’universo, un affare divino; considerando questa attività millenaria come un’opera servile, si inventarono una nuova missione, presero a vantarsi di scoprire i misteri, di rivelare le cose nascoste (o quantomeno di costruire un clima misterioso e segreto senza risolvere alcunché), di promuovere riti di incantesimo, di suscitare magie facili, di agitare simboli scontati. C’era dunque, e non solo in Munch, «l’ambizione romantica di ideare nuovi sistemi iconografici». Mancava loro però l’Iconologia di Ripa e mancava un qualche personaggio che, alla sua altezza, sapesse redigere un codice della simbologia moderna. Più che altro, sembravano rifarsi alla teosofia di moda nei salotti mediocri.

Invece di meditare sui tormenti umani del Dio incarnato o di sbizzarrirsi sui piaceri del Cielo, dando una direzione alla mistica anche estrema, un luogo figurato, un recinto concettuale, una silhouette individuale, una linea di contorno che permetta di distinguere, ci si immerge in una pittura di allusioni vaghe, di percezioni incerte, di pretese somme, di emotività senza alcun controllo. È la forma a essere sacrificata insieme ai sensi repressi. Giardini senza profumi, alberi carichi di simboli; non spira da queste parti la brezza sensuale.

Le opere di tali artisti dimostrano come la più profonda laicizzazione dell’arte religiosa sia avvenuta per opera dei romantici, proprio distruggendo l’antica separazione tra arte sacra e profana, sacralizzandola tutta in chiave che potremmo definire gnostica. Sbagliava il pur acuto Florenskij quando, con i sospetti russo-ortodossi per la tecnica della prospettiva che credevano d’ordine satanico, accusava il Rinascimento italiano di aver annientato l’arte sacra: era proprio quella armonia tra il cielo e la terra, tra lo spirito e la carne, che rispecchiava al meglio il cristianesimo romano e metteva in fuga le visioni eretiche. Quella eccelsa pittura latina era la gloria cattolica. E i più duri colpi le furono inferti dal romanticismo tedesco.

L’onnipotenza della natura diverrà una forza apocalittica che tutto distrugge: una natura sottratta alla lezione biblica e una morte sottratta al conforto cristiano si trasformano in un’unica, mostruosa, potenza. Una forza catastrofica. Talvolta anche la guerra parteciperà di questa energia annientatrice. La visione degli artisti volontari nel primo conflitto mondiale può così ricordare il sublime della fine Settecento, «un sermone religioso volto a ispirare terrore», dice Rosenblum. Questa la religione che annienta il creato.

Una religione che rifiuta il mondo sensibile e si libra nell’astratto è però ancora più spaventevole. Bisogna proprio averci fatto l’abitudine per non essere più sconvolti da certi titoli e affermazioni che costellano il libro: distruzione apocalittica, fine del mondo, mondo subumano, ritorno al primitivo, all’arcaico…

Rosenblum ricorda che soltanto perché orientati all’Art pour l’art di parigina origine possiamo considerare l’astrattismo come mosso da impulsi di carattere estetico. Piuttosto un terremoto spirituale, misticismo senza religione, cosmogonie personali, rivelazioni prêt-à-porter. I sogni romantici, ancora dentro una forma, divengono adesso informi conati di assoluto. Se si vuole capire quant’è lungo il cammino e triste la parabola: Runge si ispirava alle teorie di Goethe, Mondrian a quelle miserabili di Rudolf Steiner.

Gli eredi moderni del romanticismo del Nord abbandonavano il mondo secolare per manifestare – si dice – un sentimento religioso. Ma questo non era più, appunto, il sentimento cristiano che crede nel mondo creato da Dio e ne gioisce, bensì un’impressione dualistica che separa il corpo dall’anima, che proclama la propria estraneità al cosmo, che denigra la realtà materiale a frutto di un cattivo demiurgo, da respingere e da fuggire.

L’iconoclastia protestante costrinse quasi gli artisti romantici a una nuova iconografia. I loro seguaci, dal protestantesimo ben più tiepido o del tutto assopito, privi anche della cultura dei maestri, ripiegarono sulla negazione dell’immagine. Perché non considerare allora la Cappella di Rothko soltanto come una parodia delle concezioni di Runge? Sì, l’angoscia potrebbe essere comune ma la forma da darle si è persa per strada.