domenica 23 febbraio 2014

Beauty is difficult

~ SANREMO SECONDO GIORGIO DE CHIRICO, 
LA «PICCOLA BELLEZZA» DI RAFFAELE LA CAPRIA,
PIÙ UN GESTO DI STIZZA DI PARISE E UN VERSO DI POUND:
PER ESORCIZZARE LE CHIACCHIERE ALLA MODA ~

L’Italia melanconica di questi tempi è tormentata da un’orda di comici che esonda dai palcoscenici, non limitandosi a metter su spettacolo come a loro si confà. Moltiplicatisi alla maniera delle cavallette, sono dappertutto ad avviare una risata meccanica e scontata, a rincorrere il linguaggio coatto, a portare in scena il realismo digitale (quello che già ci urta continuamente nella vita). Forse sarebbe meglio piangere. Ma fossero almeno soltanto corrivi stimolatori di riso: si presentano anche come guide politiche, statisti, moralisti e perfino estetologi. Il calembour diviene l’aforisma fatale. I pastori della Chiesa di Roma danno per primi il cattivo esempio. In odio alla forma, si affidano alle battutacce. Manca però quasi sempre la gioia del cuore. 

Saccenti, privi di ironia, allucinati nella fede nichilista. Nell’epoca dell’armonia proibita, del maggior scempio della bellezza in nome della giustizia, quando cioè il pensiero unico rivendica la vendetta storica della sofferenza, della imperfezione, della miseria materiale, sulle elevate sfere della bellezza, sulla sua aristocratica aura, un festival di canzonette imbastisce monologhi screanzati, apologie sospette di un bello che è già una merce, non a caso destinata a essere messa in vendita alle masse di turisti. Si spaccia per «grande bellezza» il rimbombo della peste quotidiana, e la sua ipertrofia è scambiata per barocco. Diventa senso comune quella che dovrebbe essere una aberrazione. Incapaci di accostarsi alla difficile e sfuggente «piccola bellezza». Sanremo che intratteneva con le melodie e le rime popolari gli italiani semplici diviene un pulpito per sermoni laici e saputelli. Ma il genio di Giorgio de Chirico, che non aveva certo paura di sfiorare simili manifestazioni, vi individuava, mezzo secolo fa, una tribuna pateticamente modernista e scriveva nell’ultima pagina delle Memorie della mia vita (Rizzoli, 1962): «Proprio ieri alla televisione ho seguito la terza ed ultima serata del Festival della Canzone a Sanremo. […] Assistendo a quella trasmissione pensai che in fatto di Festival della Canzone si assiste allo stesso fenomeno della pittura astratta. Come per la pittura astratta, vecchia di più di mezzo secolo e che i moderni critici sostengono e presentano, sia per ignoranza sia per malafede, come una tipica espressione del tormento e dell’ansia della nostra epoca, così anche le canzoni monotone in cui una parola viene non cantata ma urlata e ripetuta innumerevoli volte le si vuol presentare come un fenomeno ultramoderno, forse pensando che anche esse esprimano il tormento e l’ansia del nostro tempo…». Intanto è passato il pop a rendere pari arte e canzonette. Una risata le ha seppellite. Ora, nell’epoca della insensatezza compiuta e ricercata, le compagnie di comici si accingono a insegnare il verso giusto del mondo. Pop anche il nuovo primo ministro e addirittura il vescovo di Roma. 

Di che stupirsi? Sono decenni che la forma comica ci accompagna in quella corsa affannata che chiamiamo progresso. La democrazia non può che prediligere il tono basso e greve. Non la farsa che trascina corpi e menti in una mistica gioconda, bensì la burla intellettuale e verbosa di un popolo che è passato per la scuola dell’obbligo sempre più ampliata, capace di esaurire l’antica vis. La forma del volgare agghindata con astruserie. Già negli anni settanta c’era chi se ne turbava. Raffaele La Capria rievoca il suo amico Parise nel ritrattino Ricordo di Goffredo: «Mi sembra di sentire ancora la sua voce una sera che mi diceva: “Sai, c’è da essere seriamente preoccupati. Hanno letto tutto Proust! Parlano di Joyce, di Freud! Citano Heidegger! Sono moderni. Rimbaud l’hanno preso alla lettera, il faut être absolument moderne!, e loro lo sono, assolutamente, ciecamente, costi quel che costi. Ieri al tavolo di De Feo una se ne esce con la sineddoche e la metonimia, e De Feo tutto rosso: Questo no, per favore questo non me lo dovete fare! Sono moderni e aggiornati, hanno letto Barthes, sanno tutto sullo strutturalismo sulla lingua e la parola…”. Ma di che stai parlando, gli domandavo. “Dei cretini. Ha ragione Flaiano, oggi sono pericolosi perché sono intelligenti…”». Sono moderni e preparati i presentatori di festival. Sono cretini e pericolosi. In special modo quando parlano della bellezza. «Cultura» è il nome del brand popolarissimo. 

Su questo tema assai delicato accostiamo l’orecchio ad altre parole di La Capria, maestro della discrezione. «Siamo abituati ad accontentarci del surrogato in luogo della cosa (del design in luogo della bellezza, della moda in luogo dell’eleganza, della copia in luogo dell’originale)», scriveva in Letteratura e salti mortali. Il surrogato è il principale feticcio. Un tabù l’avvolge. Solo l’inserviente di una ditta di pulizie ha la forza ingenua di portare alla discarica una installazione cartacea spacciata per opera d’arte, come è accaduto nei giorni scorsi a Bari. L’imbarazzo di assessori e curatori suscita risate omeriche. 

Che è successo alla bellezza? È forse andata irrimediabilmente perduta? Lo scrittore napoletano, il creatore di una «piccola bellezza», si è posto tali domande in un breve testo che ha il coraggio di intitolarsi «Nostalgia della Bellezza» (con tanto di maiuscola). Una espressione di un poeta apre la riflessione: «“Beauty is difficult”, lo ha scritto Pound. Ed è difficile perché contiene, come sapeva bene Baudelaire, un elemento eterno e invariabile la cui percentuale è indefinibile, e uno relativo (all’epoca, al gusto, alla morale, alla sensibilità del tempo) senza il quale il primo non potrebbe essere percepito». Ai nostri tempi, purtroppo, il secondo annienta il primo. Se tutto ciò che è bello «sembrava toccato dalla grazia divina», adesso sembra sformato dal relativo. L’«Ideale della Bellezza» si sperde così in mille rivoli, in mille sentieri che non portano più da nessuna parte, e i custodi di tali misteri affermano allora, «come capi di una setta suicida», che in fondo a quei sentieri «c’è solo la morte, la morte dell’Arte, e con competenza, con distacco, dottamente disquisiscono di quando “il vecchio accademico regno del Bello crollò”». In verità negli ultimi tempi dottrina e competenza sono diventati un gergo, e modi rozzi accompagnano gli annunci mortuari degli estetologi. 

Però è vero che un qualcosa di mortifero, di luttuoso, si percepisce. «Nello scontro tra una tradizione consunta e una modernità insolente ha vinto la Bruttezza». Giusta la maiuscola per questa potenza che si impone, anche con varie maschere seducenti, nelle nostre esistenze. «La Bellezza per essere apprezzata richiede doti e disposizioni che i nuovi arrivati non hanno». Ragion per cui i musei contemporanei, le mostre, le performanze, come le curatele, i trattati, le critiche, le réclames, finiscono per diffondere la Bruttezza, per renderla amabile. Per confondere in maniera tragicomica il gusto. Tutto l’apparato sembra ispirarsi a una grande beffa boccaccesca. Terribile però pensare che i burlatori sono la gente di lettere e d’arte mentre vittima ne è il popolo consumatore. 

Non passa giorno che il venditore di merci estetiche non citi la celebre frase di Dostoevskij sulla redenzione per via estetica. La Capria ritiene che lo scrittore russo non si riferisse all’estetismo dei suoi tempi e tanto meno a quello di oggi, tutt’altro: egli «aveva intuito in anticipo il rapporto da restaurare tra la Bellezza e la morale, cioè tra la Bellezza e la difesa della profanata sacralità del mondo. e tutto questo faceva parte della sua religiosità». Non è semplice per noi, abituati alla bellezza rinascimentale che contiene cinismo e amoralità, seguire Dostoevskij e la cultura russa ortodossa. Ma anche i più perversi dei nostri manieristi sapevano di quella sacralità del mondo che solo il moderno osò profanare e sradicare. «Chi divide non potrà mai contemplare in tutta la sua pienezza la misteriosa armonia che regge il mondo e lo sottrae alla non-esistenza, al nulla». Bisogna tener fermo questo armonico universo ‘cattolico’ quando si parla di bellezza. «La scienza non ammette il mistero, la poesia sì. Perciò è divina, perciò ha a che fare col sacro. E con la Bellezza». Se l’arte si allontana dal mondo consacrato e quindi dalla bellezza, si assiste alla «necessità di spiegare l’Arte» come «non si era mai avvertita con tanta insistenza». E «la spiegazione, una volta, prima del moderno, era implicita nel mistero e nell’emozione che proveniva dall’opera. Bastava guardarla e poi si cercava di spiegare perché se ne era stati colpiti. […] Oggi all’improvviso è avvenuto il contrario: prima si spiega perché l’opera è significativa e poi se ne è colpiti. Non era mai avvenuto che le teorie intorno a un’opera fossero così pressanti e impositive». La Capria cita a sua volta Baudrillard che parla di «un racket mentale» esercitato dal discorso sull’Arte. È aumentata enormemente «la quantità di concettualizzazioni e teorie che come una nebbia si infittiscono intorno a un’opera o tendenza artistica, fino all’“insignificanza scaturita dall’ipercomunicazione” e dalla verbalizzazione impropria». 

 «Scrive George Steiner – prosegue La Capria –: “Esiste la lingua, esiste l’Arte, perché esiste l’altro”. Ma se è vero che oggi l’Arte può fare a meno del pubblico e passa direttamente dall’artista al museo, allora dov’è l’altro, e di che cosa parliamo quando parliamo dell’Arte?». Forse direttamente del rapporto merce/denaro, si potrebbe rispondere.

 In questa «nostalgia della Bellezza» non si pensi che venga facile e allegro irridere ai manierismi intellettualoidi del Contemporaneo. La Capria lo ammette: «“Te piace ‘o presepio?” “Nun me piace!”. Non credo che il personaggio di De Filippo che dice “nun me piace” sia contento della propria ostinazione. Neppure io sono contento della mia, di fronte a tanta arte moderna, quando sono costretto a puntare i piedi e a dire: “Nun me piace!”. Ma perché vogliono farmi sentire in colpa per tutto questo, quando invece sono io la vittima del loro abuso di potere?». Potrebbe concludersi qui, con la denuncia degli abusi di potere dei ciarlatani della cultura, con la denuncia dello «spirito dispotico del tempo». Ma in un altro saggio della stessa raccolta (Lo stile dell’anatra, Mondandori, 2001) La Capria, scende nei dettagli, evidenzia le cause precise di un tale disastro spirituale, «fonte di infinite tragedie e inaudite crudeltà»: «la maledizione del nostro secolo è la separazione della mente dal cuore».

martedì 11 febbraio 2014

L'undici febbraio

~ COME I FEDELISSIMI DELLA TRADIZIONE
CADONO VITTIME DELLA MODERNITÀ ~

Osservando di questi tempi il partito tradizionalista del cattolicesimo, che si esplica soprattutto nei commenti e note ai blog oltreché naturalmente negli articoli stessi chiosati (grande penetrazione nell’apparato mediatico, scarsissima invece nell’editoria e nelle università), viene da pensare a una somiglianza impressionante con il Partito radicale. Vi si agitano infatti diritti del fedele che neppure il Vaticano II ha mai tanto invocato, linguaggio dell’Assemblea Costituente che seppelliva l’Ancien Régime, con promozione di atti simbolici di ribellione, manifestazioni di piazza, raccolte e conta di firme, occupazioni di chiese, preghiere protestatarie, critiche irriverenti all’autorità. Senti chi parla, diranno di questo «Almanacco» che negli ultimi mesi ha lasciato da parte le questioni dell’arte per concentrarsi sull’argentino divenuto vescovo di Roma, lamentandosi senza mezzi termini dei modi rozzi esibiti sulla cattedra di Pietro, dell’abbraccio mortale con il mondo mediatico (e non sono affatto questioni estetiche). Una piccola quanto sostanziale differenza però ci pare sussista: è vero, andiamo ripetendo che il bianco pastore che ci è capitato rappresenta una vera iattura, ma diamo anche per scontato che Dio ce l’ha dato e noi ce lo dobbiamo tenere. Questo papa non ci piace: è lecito affermarlo nell’inusuale modo schietto, ce lo consente l’informalità imposta dal diretto interessato che predilige il pop, come andiamo dicendo dall’inizio di questa storia (ben prima del vescovo di Lincoln nel Nebraska, che quella subcultura americana mostra di conoscere). Non è la prima volta nelle bimillenarie vicende della Chiesa che dal Conclave viene fuori una infausta scelta, l’eletto magari è un brav’uomo ma inadeguato al ruolo, con fedeli e clero borbottanti a mezza bocca, mentre i più santi hanno il coraggio di Caterina (v. l’«Almanacco» del 21 luglio 2013, «Invettive amorose per il papa»), che esortava direttamente il papa a non cedere allo spirito del mondo. La Catholica non confonde l’obbedienza con il culto rivolto alla divinità, nonostante i flabelli che accompagnavano la sedia gestatoria del «Cristo in terra». La santa senese ce lo ha insegnato: che il pontefice sia riverito con i titoli di «signor nostro» e «dolce padre», ma al contempo gli sia rammentata la sua natura umana.

Altro invece il giudizio teologico che ciascun fedele vuole pronunciare quasi fosse un perfetto luterano, precipitando il papa che non corrisponde al suo sentire nell’inferno dell’eresia. Sennonché  è il papa che decide dalla cattedra petrina chi è eretico, non il fedele a casa, davanti a un computer, che con un clic ambirebbe scomunicare il vicario di Cristo. Tragicomico il modo con cui viene aggirata la dipendenza dei cattolici dal loro pontefice: se questi non dice quello che noi vogliamo sentirci dire, se riteniamo che sbagli l’interpretazione del Vangelo, ci spostiamo rapidamente dal côté dei lefebvriani o se proprio ci fa arrabbiare dai cosiddetti sedevacanzisti. Gli irruenti individui non si piegheranno all’obbedienza, roba d’altri tempi. Che ne sanno loro dei patimenti terribili che vissero i cattolici, preti e laici, che non capivano – o capivano troppo bene – il loro pastore, che vedevano il papa schierarsi contro la propria patria o città o casato, che si trovavano i loro pensieri messi all’indice, e le sudate carte riempite con le migliori intenzioni del mondo silenziate perché prive dell’imprimatur, condannate a restare nei cassetti; che ne sanno di questo piegarsi di fronte alla autorità di Roma, anche se la ragione e la scienza spingevano nella direzione opposta; che importa del dramma di Galileo  Galilei quando, in qualità di cattolico, accetta di non affermare quel che la gerarchia ecclesiastica gli proibisce di affermare. Oggi, basta ascoltare la voce della coscienza, secondo l’insegnamento di Kant, che non è un padre della Chiesa, e se non si è d’accordo con il papa, si passa a un’altra ‘Chiesa cattolica’, più piccola. C’è un ‘fai da te’ della tradizione, il liberalismo selvaggio ha colpito anche in questo schieramento. L’importante è che l’individuo abbia sempre i pieni poteri, i più svariati diritti, la soddisfazione d’ogni desiderio. Più radicali di così. Meno cattolici di così. 

Se non viene concessa una santa messa nel rito latino – fatto senz’altro deplorevole, sia ben chiaro, anzi suicida – viene subito ingaggiata una piccola guerra civile nel cattolicesimo. Mai offrendo la sofferenza provata nel vedere certe messe celebrate in modo sguaiato come espiazione delle nostre colpe, alla vecchia maniera cristiana per cui ogni dolore che ci viene incontro va benedetto e accolto, bensì organizzando alla maniera dei politici  campagne di dissenso e battaglie giuridiche. Vi immaginate i santi fondatori della nostra storia se ogni volta che non ricevevano da papi miopi l’approvazione della regola di un nuovo ordine avessero aperto una  contesa contro quel papa, considerandolo un diavolaccio o l’Anticristo che preannuncia l’Apocalisse? Qualcuno si comportò così, è vero, ma lo annoveriamo ancora adesso tra gli scellerati eresiarchi, non tra i modelli cattolici. A Padre Pio da Pietrelcina neppure quando gli strapparono i penitenti – né quando, peggio ancora, Giovanni XXIII permise che si collocasse il registratore nel confessionale per sacrileghe intercettazioni – uscì mai una sola parola di dissenso, un accenno alla persecuzione della gerarchia ecclesiastica. Soffrì in silenzio. Rimproverò anzi, e in modo severo, quei laici che zitti non volevano restare e, a cominciare dal focoso Emanuele Brunatto,  partivano come Don Chisciotte in sua difesa, all’attacco di vescovi depravati.

Né i laici o i circoli cattolici pensarono mai nel passato, per fedeltà alla tradizione che a loro fosse parsa violata, di abbandonare la Chiesa di Roma quando vi ravvisarono somma corruzione, papi simoniaci, teologie traballanti, ingiustizie palesi, tradimento della missione cristiana. Neppure i peggiori annunci della degenerazione del clero che i pastorelli di La Salette raccontarono di aver udito dalla Madonna apparsa loro prevedevano una fuoriuscita dalla Chiesa cattolica. Roma sarebbe stata sempre più devastata dai demòni, vescovi e preti avrebbero dimenticato Dio e la Chiesa avrebbe vissuto «una crisi molto profonda», non si parlava però di scissioni, di abbandoni. «Il Santo Padre soffrirà molto», casomai, «Dio non sarà più onorato», «il maligno entrerà in ogni casa», «molte grandi città saranno bruciate e quasi distrutte, altre inghiottite dai terremoti. Tutti crederanno che sia giunta la fine», ma i giusti resteranno nella Chiesa perseguitata anche dall’alto della gerarchia. Né le parole del cardinal Ratzinger pronunciate al Palatino con sinistro rimbombo durante la Via Crucis della Pasqua 2005, sulla «navicella di Pietro [che] sembra stia affondando», prevedeva l’abbandono della santa nave dei peccatori per più agili barchette. E men che mai negli anni dell’infanzia e della giovinezza di noi più vecchi, sotto il regno di Pio XII, i critici del progressismo pacelliano – e ce ne furono – di fronte alla riforma liturgica della Settimana Santa, per esempio, affidata al giovane e promettente Bugnini, lo stesso che ideerà poco tempo dopo il Novus Ordo, si permisero di affrontare il sommo pontefice quasi fosse un nemico. Si obbediva e si mugugnava, come si è fatto per i secoli dei secoli, in attesa che i misteriosi tornanti della Provvidenza rivelassero sempre grandi consolazioni.

Si obietterà: i progressisti non disobbediscono forse ai papi che non gli sono simpatici? Sicuramente, ma non c’è da meravigliarsi, vista la ammirazione che nutrono per l’ideologia protestante. Coerenti con il loro pensiero, mettono in discussione il primato di Roma, la potestà assoluta del pontefice: tutto perciò si tiene. Per il luteran-cattolico (mostro bicefalo contemporaneo), conta quel che è scritto nel Vangelo e quel che dètta l’interpretazione della propria coscienza. Il resto complicherebbe la vita del cristiano. Ma che un fedele alla tradizione cattolica si richiami in prima persona al testo evangelico e ne rigetti l’interpretazione del papa quando questa non coincide con la sua: ecco un vero paradosso moderno. Il modo di concepire l’io rispetto all’autorità, ai più che – secondo l’insegnamento della tradizione – possiedono di per sé maggiore autorevolezza del singolo, l’abbandono dello spirito di osservanza, del rapporto discepolo/maestro, questo è lo stile moderno che si affaccia anche nel campo dei suoi avversari. Progressisti e tradizionalisti mostrano altrettanta intolleranza reciproca perché è in ballo l’affermazione di idee soggettive, prive cioè della saggezza antica che tempera, comprende, conosce la fragilità della natura umana, e dunque perdona spesso. Invece ormai è come se il sapere diffuso bastasse a sottrarre il fedele al magistero gerarchico, producendo un incrocio tra ribellismo protestante e gnosi. E a sua volta il magistero ha perduto l’aura di rispetto, non la esigono più i vescovi, su su fino a quello supremo, né rispettosi si mostrano i fedeli, fenomeno affine a quello che si riscontra nelle università dell’Occidente, svuotate della deferenza, dell’ordine di importanza, costrette a mimare il discorso democratico in cui tutti mettono bocca senza che alcuno possa chiedere in nome di quale competenza si intervenga.

Così l’elemento tragico viene ignorato dai due opposti interpreti del cattolicesimo: da chi opina cioè che basti andare incontro al mondo moderno perché prima o poi appaia l’armonia nascosta tra il messaggio evangelico e la società umana, che insomma gli ostacoli derivino solo dalle arretratezze, ragion per cui si tratterebbe di superare in una interminabile e affannosissima corsa i famosi «ritardi»; dall’altro polo intanto si è convinti che l’armonica civiltà cristiana (medioevale o tridentina, ottocentesca o semplicemente pacelliana) si ricostituisca ignorando il Moderno, mettendolo tra parentesi, mai misurandosi con un simile negatore dei dogmi cattolici, neppure per un vero esorcismo. Questa ultima posizione, ai nostri occhi almeno, risulta sicuramente più praticabile purché si scelga il minoritarismo come destino, riducendosi ad anacoreti, a eletti, a invisibile setta, decidendo di abbandonare i popoli d’Occidente e d’Oriente alla loro idolatria del consumo. Il proselitismo davvero non è più all’ordine del giorno per Roma? Finito, almeno per il prossimo secolo, il rapporto con la scena pubblica, con il potere politico che fece da contrappunto alla Catholica per tutta la sua storia? Una religione della interiorità, dunque? E tutto ciò, di grazia, cosa avrebbe a che vedere con la tradizione cattolica?

Se il Concilio è corso incontro al mondo ed è rimasto stritolato nelle braccia del Moderno chi, anche sul piano genericamente culturale, ha offerto invece una risposta all’altezza dello scontro? Là dove anche il marxismo, che pure ne era figlio legittimo, è stato devastato dalle forme subdole dell’avversario, atte a rendere innocua l’immane violenza con cui voleva rivoluzionare quel mondo, potrebbero forse uscirne incolumi i preti d’altri tempi , che chiudono gli occhi di fronte a quelle sottili lusinghe e che a occhi chiusi lanciano loro anatemi? Qualche suggestione viene dalla Chiesa ortodossa che mantiene la ‘liturgia di sempre’ anche per fedeli post-sovietici ormai asserviti alle merci. Ma l’Occidente è ancora il più moderno, pratica da tempo il culto nichilista del tramonto, mentre laggiù sembra sia ancora in corso l’accumulazione selvaggia dell’ottimistica fede borghese.

Il sentimentalismo di derivazione romantica, l’emotività costante come una febbre maligna che ci accompagna nello schierarci sulla scena mediatica fa sì che venga lasciato in ombra il gesto inspiegabile, e imperdonabile, del papa che suscitò speranze e dispensò consolazioni straordinarie. Proprio colui che parve tornare a combattere i pericoli più minacciosi del mondo moderno ne cadde poi vittima con quelle dimissioni che pareggiarono il pontificato romano agli altri uffici secolari. Non fu forse questa la causa scatenante di tutte le rivalse dei conciliarismi più accesi? Il cedimento tragico all’onnipotenza del Moderno? E come è stato spiegato negli ambienti della tradizione? Alla maniera più corrente ai nostri tempi, con la forma del ‘giallo’, del mistero poliziesco, non divino. Non bastarono le liturgie tornate alla dignità delle cose celesti né il motu proprio che permetteva di sottrarre la messa alle fantasie dei moderni, né le teologie sottili, né la distanza dalla vulgata conciliare: tutto fu reso vano da quel papa pensionato, dal titolo di ‘emerito’ rubato agli ambienti dell’università, dalla convivenza con un altro papa. La compresenza di due papi fece più male della collegialità spinta. L’11 febbraio 2013 è una data tremenda. La venerazione per il mite pontefice tedesco resta, ma il turbamento prodotto dalla sua rinuncia rappresenta un colpo terrificante alla Chiesa di Roma già nel caos. Il tripudio dei laici progressisti come dei ‘cattolici adulti’ per l’abbandono di Benedetto, per la sua attuale clandestinità, fa il paio con il successivo tripudio per il nuovo vescovo di Roma venuto dagli antipodi.

Che un gruppo di laici con qualche sparuto prete del giro pretenda di stabilire se un papa è ortodosso o meno è faccenda decisamente moderna, un frutto velenoso del Novecento. L’altra faccia del Modernismo. Lo spirito conciliare spinse tanto in questa direzione che anche i suoi più decisi avversari ne hanno accettato le conseguenze. È umano infatti che si voglia influenzare la gerarchia con il proprio sapere, il proprio gusto, la voce della propria coscienza, ma la tradizione insegna che sarà necessario poi inchinarsi di fronte al consenso dei superiori (parola ormai dimenticata). Perché anche la libertà di movimento dei laici ha un limite, quel limite sempre irriso dal mondo protestante: le regole ante Concilio prevedevano addirittura che lo scritto di un cattolico a causa di una sfumata interpretazione, per qualche pagina appena poco accetta al papa o ai suoi cardinali, potesse destare l’attenzione del Sant’Uffizio ed essere quindi sottratta d’imperio all’occhio cattolico di tutto l’orbe. Quante pie anime furono ferite dall’esser messe con i loro libri in quell’elenco. Quanta indignazione provocava un simile esercizio di umiltà tra i superbi e saccenti protestanti. Se l’Argentino restaurasse l’Index librorum prohibitorum, con le norme di sempre, quanti scritti nostri, compresi quelli dell’«Almanacco», vi finirebbero seduta stante. Signori, questo è il cattolicesimo come si è tramandato nei secoli. Liberi di costruirne un altro, di credere che il Vaticano sia diventato la Nuova Babilonia – secondo le indicazioni del frate sassone –, ma insopportabile il dentro-fuori l’Ecclesia, avendo come riserva un cattolicesimo lillipuziano, a misura dei desideri di ciascuno, una setta per la Rifondazione del cattolicesimo, quello dell’anno zero, dell’azzeramento della storia, tralasciando il particolare che l’incarnazione è avvenuta nella storia e la questione cruciale del cattolicesimo costantiniano sta in quel rapporto con la storia del mondo. I primi successori di Pietro non ebbero paura di venire a patti con l’Impero dei persecutori, con la Roma dei pagani. Altrimenti sarebbero rimasti degli eremiti che attendono il ritorno di Cristo nascosti tra le piccole schiere dei prescelti, in opposizione furiosa al costantinianesimo, ai papi con il triregno in capo, all’organizzazione giuridica della Chiesa romana.

Tuttavia sappiamo benissimo che la ideologia contemporanea è più subdola di quella dei crocifissori. E conosciamo la debolezza della cultura cattolica di fronte alla modernità incantatrice, è il nostro rovello. Proviamo allora a sentire una parola meno pessimista da uno scrittore che si trovò a vivere all’alba di questa modernità, all’inizio del lungo duello tra cultura laica (scienza, politica, economia, arte) e cattolicesimo. Nella parte seconda delle Osservazioni sulla morale cattolica, rimasta inedita fino alla superba edizione di quell’opera curata da Romano Amerio, Alessandro Manzoni affronta l’argomento dello «Spirito del secolo» pur precisando subito: «Un’accusa che si fa comunemente ai nostri giorni alla Religione cattolica è ch’ella sia in opposizione collo spirito del secolo. Questa accusa può in un senso essere dalla Religione ricevuta come un elogio: se per spirito del secolo s’intende la tendenza violenta ad alcune cose transitorie come beni da ricercarsi per sè, l’amore e l’odio insomma delle creature non diretto ai fini voluti da Dio, la Religione si protesta, come sempre si è protestata, nemica di questo spirito; e quando venisse a far tregua con esso, allora si potrebbe trovarla in contraddizione e diffidare di essa. Guai alla Chiesa se ella facesse un giorno pace col mondo! se desistesse dalla guerra che il Vangelo ha intimata, e che ha lasciata alla Chiesa come la sua occupazione e il suo dovere; ma questo timore non può mai esser fondato, perché l’espressa parola di Gesù Cristo assicura il contrario». Erano trascorsi pochi anni da quando un papa imprigionato e deportato a Parigi aveva chinato il capo di fronte al re dei rivoluzionari, incoronandolo imperatore: più pace col mondo di questo simbolico atto! Però la fede di Manzoni lo teneva lontano dai circoli dell’umor nero, dagli apocalittici per gusto del negativo. La fede e la ragione sapevano fargli intuire che la Catholica non è arrivata alla meta per simili gesti atroci. Né – si potrebbe dire oggi – l’Onu che sembrò divenire sotto Paolo VI la succursale della Santa Sede ha assicurato quella tregua con i papi che tutti temevamo: quando uno meno se lo aspetta, ecco arrivare una nuova dichiarazione di guerra alla Chiesa cattolica, nonostante il clima mieloso che i laici hanno recentemente inaugurato, ben ricambiati, con il vescovo di Roma. 

Il nostro equilibratissimo romanziere, il cattolico che non peccava mai di estremismo malgrado il romanticismo di fondo, riteneva che il mondo non fosse comunque tutto da dannare, ché la storia mostrava come il cristianesimo avesse a tal punto modificato e migliorato gli umani costumi che il regno di quaggiù non era più un semplice sinonimo dell’inferno. Delle distinzioni andavano fatte. «Uno dei caratteri dello spirito predominante di tutti i secoli è una forte persuasione di alcune idee che degenera in tirannia di opinione, che condanna chi lo contraddice a passare per ignorante o per male intenzionato». E più avanti, riecheggiando simile «tirannia»: «Queste idee predominanti in un’epoca si chiamano di moda vocabolo che dovrebbe per sè renderle sospette perché significa: essere determinato a seguire un sentimento o un uso dell’autorità, escluso l’esame».  Adesso siamo ricolmi di tale moda, totalitarismo dell’opinione che impedisce l’«esame». Ma l’esame della ragione, il dialogo con i moderni, non era affatto escluso dal devoto amico di Rosmini. Inutile lasciarsi chiudere in una riserva. La cultura cattolica vuole conquistare la storia.

Al capitolo VII di quella Seconda parte delle Osservazioni, Manzoni affronta le «controversie tra cattolici», un altro tema caldo ai nostri giorni. «V’ha delle controversie inevitabili: condannarle tutte sarebbe lo stesso che dire che allorquando un errore si manifesti, bisogna permettergli di diffondersi senza combatterlo. Se non si disputasse che contro l’errore, quale cristiano potrebbe condannare una guerra sì necessaria, desiderare che si deponessero le armi della fede, che si venisse nella Chiesa ad una pace che non sarebbe l’opera della giustizia e della verità?». Non era un irenista. Ci sono punti indiscutibili, «valori non negoziabili» li chiamano i giornali. «Certo non bisogna sacrificare la verità a nessuna cosa, nemmeno alla concordia», però si lasci disputare chi è addentro alle questioni teoriche, quelli che son meno esperti si limitino «a pregare per gli uni e per gli altri, e chi dubiterà che le dispute non diminuiranno di quantità, di intensità e di durata?». Non ci si lasci andare alla mimesi delle discussioni parlamentari e degli show televisivi. Non si prenda l’andazzo mondano, il tono moderno – aggiungerebbe forse oggi. Nei confronti delle persone che «errano nella fede», i cristiani si comportano in modo diverso: «la carità obbliga ad amarli, a compatirli, a pregare per loro e a dissentire da loro». «Invece di denunziargli al giudizio altrui, avvicinatevi a loro, interrogategli, e vedrete forse che invece di gridare contro di essi, non vi resta che a piangere sopra di voi». Alle prese con le trappole moderne, dove la bella tradizione viene facilmente inghiottita, c’è da piangere tutti.

Il saggio Don Lisander si raccomanda,  e pare rivolgersi  alla nostra rete di disperati della forma antica: non si tratta di una polemica letteraria che può prendere le espressioni più feroci, qui si parla di Dio. «Voi credete di poter fare quello che compete alla Chiesa, di condannare gli erranti, e più ancora, voi credete di poterlo fare senza quelle formalità indispensabili, che la Chiesa stima essenziali all’esercizio della sua autorità sui suoi figli […] Voi fate il giudizio, e lo applicate, voi portate la sentenza senza autorità, e senza processo, voi pretendete secondare le intenzioni della Chiesa, ma chi ve le ha rivelate, chi vi ha costituito giudice?». (A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, Ricciardi editore, Milano-Napoli, MCMLXI, vol. II, pp. 413 e passim).