domenica 25 aprile 2010

Citazione 25 Aprile

Gian Lorenzo Bezzi Mellini: «S’era alla fine di giugno [1944], i contadini stavano rientrando dai campi dopo la mietitura, all’improvviso s’udì un frastuono di automezzi e un vociare concitato, si levò un gran polverone, ci fu un fuggi fuggi e quando tornò il silenzio era un silenzio diverso, assoluto, quasi irreale. Non visto osservai varcare il portone del nostro cortile almeno una dozzina di soldati in fila, gialli di pelle e di pelo, gli elmi quadrati dal profilo saettato, le baionette innestate, le tute mimetiche a sbuffi, le bombe a mano infilate nella cintura, gli scarponi chiodati, gli sguardi senz’anima. Trascinarono via con forza tutti gli uomini validi, tutti gli animali, il giorno dopo si vedevano ancora fumigare gli incendi. Ricordo, questa volta dal vivo, mio padre, il quale pur odiando la guerra aveva un alto senso della disciplina militare, parlare in tedesco senza incrinature a uno di essi, dalle cui labbra sentii per la prima volta in un italiano stentato (l’unica che udissi da uno di loro): “la gvéra è gvéra”, che mi parve originale e crudele ed era solo un orrido stereotipo. Che s’instaurasse per noi ragazzini, anche se non si era in grado di valutare la situazione (ma chi allora lo era?) un clima di estremo disagio se non di terrore fu inevitabile, per l’impressione che faceva su di noi l’immagine degli adulti.

Ricordo ancora quando mia madre, dopo una notte insonne, riuscì a comporre e a vergare messaggi; uno dei quali, ai genitori suoi, voglio qui riportare dal biglietto ingiallito e consunto, perché dopo quasi mezzo secolo, cadute le passioni e obliati gli affanni, pare la traduzione letterale di un inedito frammento classico di spoglio e tragico pathos: “Ieri sera Giuseppe, Luigi, Celso, Marino e tutti gli altri uomini del paese sono stati presi e portati via… Non si sa ancora dove siano e dove andranno. Sono ore di angoscia… Sui monti vicini si sentiva, come nei boschi, il fragore del rastrellamento. Ora è calato un silenzio sinistro e grave. Quassù non si può comunicare con nessuno: solo il Signore ci vede… Anche le stalle sono vuote: ma nulla sarebbe, pur se si salvassero i nostri uomini. Non disperate, non piangete: pregate, pregate, pregate. E fate pregare”. […]

[aprile 1945] Nel giorno dell’ira la natura violata assisteva indifferente al massacro, così come noi ne ascoltavamo il racconto senza battere ciglio, provati da troppe paure, astinenze, tensioni. Anche altri racconti crudeli mi trovarono del tutto insensibile. Si favoleggiava di un tedesco che, pazzo di giubilo per aver udito prossima la fine della guerra, aveva esploso un caricatore e una pallottola di rimbalzo l’aveva fulminato. Un altro tedesco, questa volta un cecchino, aveva sparato un colpo mortale contro un carro alleato: subito catturato, era stato legato e schiacciato sotto i cingoli (per una manciata di secondi avevo mancato lo spettacolo). Non mancai però di vedere dietro la scuola una lunghissima fila di prigionieri con le mani in alto. Soldati americani provvedevano minuziosamente a spogliarli di ogni effetto, gettando portafogli, orologi e altri oggetti personali in un mucchio. Pareva un’operazione burocratica ma quando un prigioniero fece un gesto naturale di rammarico al vedere sparse per terra le foto dei familiari, si beccò un paio di sonori schiaffoni. Poco lontano, sui gradini del teatro, alcune donne, costrette su delle sedie da decine di mani venivano rapate a zero come pecore: talune anche belle, le cosiddette ausiliarie, si cuccavano oltraggi nefandi non solo a parole, perché venivano ferocemente palpeggiate e pizzicottate. Avevano un colorito terreo e tacevano, forse temendo il peggio. Ma ve n’erano anche di anziane ed era un gran brutto vedere; le loro strida salivano al cielo. Un soldato di colore aveva sfregiato col pugnale una ragazza che lo aveva respinto: la sera il suo comando aveva già provveduto a farlo appendere a un albero…

E tanto basti, perché non voglio sollevare il velo su altre innumeri atrocità che mi vennero per caso all’orecchio, se non davanti agli occhi, e di cui rimasero segnati quei giorni di trapasso. […] Nemmeno quell’esplosione di gioia e di salute collettiva, dopo tanta atrocità, poté mettere argine alla faida civile, triste inevitabile coda d’ogni guerra, a partire dalla notte dei tempi…». (da Petra Mala. Centiloquio, Edizioni Bolis, Bergamo 1991, pp.66-88; 156-158)

sabato 24 aprile 2010

I Dioscuri del Classico

~ MINIMA. ~ QUALCHE PAROLA E DIVERSI SOSPETTI SU UNA MOSTRA ROMANA DEDICATA A DE CHIRICO ~

È in corso a Roma una mostra sulla Natura in Giorgio de Chirico. Nelle sale del Palazzo delle esposizioni ormai consacrato a fotografi e installatori, indegne dunque del Pictor Optimus, sotto un titolo giocato su ambiguità scontate, curata da un personaggio che in un’occasione consimile ci sembrò evocare la maschera di Pappagone (v. «Almanacco Romano», La magia della linea), non invita ad accorrere in quella sede modesta per vedere tele per lo più conservate nella Fondazione di piazza di Spagna. Insomma, non la si è visitata ancora, pronti a ricrederci, per carità, ma con non pochi sospetti. E la certezza dell’irritazione del Maestro per un curator che si guadagna la vita caricaturizzando l’arte.

Per adesso ci piace trascrivere poche parole dell’altro Dioscuro, il fratello del pittore, a proposito del ‘classico’ nell’ardua rilettura del Novecento, visto che con il termine ‘Natura’ gli organizzatori dell’esposizione alludono alla dialettica Caos/Cosmo, senza però neppure un briciolo dell’ironia dechirichiana, piuttosto secondo l’andazzo dei comici che riducono tutto in farsa. Le frasi illuminanti sono tratte da un librone di molti anni fa, Giorgio de Chirico, Parigi 1924-1929 (Milano, 1982), curato da Maurizio Fagiolo dell’Arco e da Paolo Baldacci. Quest’ultimo vi scrive una utile definizione del ‘classico’ riscoperto dai due geniali fratelli italiani: «il continuo intervento dell’intelligenza sull’emozione, mentre le avanguardie tutte, anche la più acuta, la futurista, annegano nella emotività». Adesso che la parola ‘emotività’ invade le letture d’ogni genere, le citazioni saviniane suonano terapeutiche. Del resto, a chi va in cerca di emozioni, come se fosse al cinema o allo stadio, Cesare Garboli docet: «Destituire il fatto d’arte di qualsiasi referente psicologico e esistenziale». Il messaggio figurativo va riportato ai suoi valori formali, «l’arte è solo forma, e nella suprema realtà della forma tutto l’ossigeno che appartiene alla nostra esperienza di comuni viventi viene pompato senza lasciare residui» (Scritti servili). Quell’ossigeno pompato dai bravi artisti riesce però come gas di scarico nel campo della critica. Ci si sguazza in quest’aria calda e intossicata: emotiva, appunto.

Leggiamo il giovane Alberto Savinio che nel 1919, uscito il mondo dallo sconvolgimento della Grande Guerra, sa parlare con saggezza: «Ogni inquietudine s’avvia fatalmente a una calma in cui quella sostanza stessa che provocò l’urto inquietante si spiana e si distende in tutta la sua verità: è il processo che conduce dal barbarismo al Classico» (Anadioménon). Purché con «calma» non si intenda distrazione piccolo-borghese. Si augurava quindi che tutta la spinta alla ricerca, al rompere, al decostruire si direbbe oggi, che è come una nuova barbarie, potesse trovare una ragione in un «seguente compimento». Magari sotto la spumeggiante protezione di Venere Anadiomene.

Unico rimedio al Caso, sarà l’ordine dato dall’artista alla sua opera. Baldacci, riprendendo i pensieri di Giorgio de Chirico, li riassume così: «L’impulso creativo giunge al suo più alto grado non quando è una forza primordiale governata dal caso, ma quando ad esso si aggiunge la ragione, la forza intellettuale, lo ‘stato di intelligenza’. Quindi in arte nulla deve essere lasciato al caso, al semplice istinto, nulla deve essere trascrizione immediata, nulla deve essere romantico nel senso di ‘stato naturale’, ma tutto dev’essere ‘classico’ nel senso di stato non naturale e quindi superiore, stato immediatamente susseguente al romantico, stato cerebrale in cui il pathos non è sinonimo di movimento e di tempesta, ma di calma e di immobilità».

venerdì 23 aprile 2010

Citazione Picasso italiano

Eugenio d’Ors: «Non è certo nei compatrioti che si deve cercare la parentela estetica di Picasso, quanto piuttosto nei maestri della sua patria d’adozione, nella tradizione dei lontani Ingres e Poussin; o meglio ancora, nei maestri di questi maestri, tra gli italiani, gli artisti dell’intelligenza, tra i vari Leonardo, Raffaello, Mantegna […]. Quest’opinione sull’italianità di Picasso, attestata da centinaia di esempi, per quanto ci riguarda, non è recente giacché nel 1920 scrivevamo: ‘Picasso è un pittore italiano. Probabilmente l’unico pittore italiano di oggi’. L’ultima parte di quest’affermazione non è più vera da una decina d’anni.
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L’Italia, uscita finalmente dal suo letargo artistico di tutto un secolo, vede un gruppo di nomi brillanti rinnovare la tradizione. Conosciamo già i vari Giorgio de Chirico, Severini, Savinio. E la considerazione di cui gode questo gruppo, non è forse una nuova prova dell’italianità dell’andaluso?» (1930 - dal catalogo della mostra veneziana Picasso 1917 - 1924, il viaggio in Italia, 1998)

venerdì 16 aprile 2010

Caravaggesca (3)

~ LA FISCELLA AMBROSIANA: REALISMO ITALICO O IMMAGINE DELLA VANITAS? ~ DA SPENGLER A MATTEO MARANGONI, RIFLESSIONI SULLA RIFLESSIONE PITTORICA DEL MONDO ~

Capitàti casualmente durante la sistemazione delle tele caravaggesche alle Scuderie, senza ancora le luci sempre abbaglianti delle mostre, la prima impressione era di una immensa sagrestia di altri tempi, quelle che ci fu concesso di vedere per l’ultima volta nei Cinquanta, riempite di quadri oscuri, «Silentium» il motto a caratteri cubitali e gravi, luoghi impenetrabili ancor più di romite chiese alla modernità; o di corridoi in antichi conventi dove aleggiava una certa aria omofila, da universo celibatario: mai nudità femminili, comunque, soltanto temi sacri, biblici o liturgici, anni luce distanti dal paganesimo sottile del primo Rinascimento. Angeli casomai che giocano sull’ambiguità dei personaggi celesti – irriducibili alle umane categorie del maschile, femminile – e dei ragazzi del popolo che li interpretano in modo svagato nelle rappresentazioni da oratorio.

Giulio Mancini, il biografo seicentesco, insisteva sul fatto che il Caravaggio sulle sue tele riportava piuttosto la propria «immaginazione» che l’«osservazione della cosa». Neppure lui ‘realistico’ nonostante l’enfasi posta dai suoi storici e critici sulla
somiglianza con la cosa raffigurata? Karel Van Mander, fiammingo coetaneo del pittore, attribuiva al Nostro questa dichiarazione: «La sua massima è che, se ciò che è stato dipinto e raffigurato non è tratto dal vero, non potrebbe essere altro che puerilità e bagatella». Magari voleva significare soltanto il rifiuto del capriccio e dell’ornamentale. Disdegno dell’art pour l’art diremmo oggi.

Di un particolare, millenario, realismo latino si parlava quando ancora le ‘scuole nazionali’ erano tenute in gran conto, di una vocazione che si affermava nella Roma imperiale come nel Cinquecento fiorentino. Qualcuno aggiungerebbe: nel cinema del dopoguerra e perfino nei racconti televisivi d’oggi, al punto che se gli anglosassoni astraggono molto onde narrare la vita dal punto di vista soltanto ‘poliziesco’ o nella solitudine estrema dell’investigatore, per antica tradizione l’italica cultura mostrerà sempre punti di vista che si intrecciano, famiglie numerose che fanno da contorno, affreschi tumultuosi, commistioni di comico e drammatico, innumerevoli sfaccettature del mondo. Soprattutto nell’arte italiana resiste l’idea che per rappresentare la bellezza non è necessario allontanarsi dal quotidiano e sprofondare nell’interiorità più sublime, basta
saperla vedere proprio in quello che ci sta sotto gli occhi.

Interromperebbe comunque il Caravaggio la lunga serie di chi prende a modello altre pitture e a maestro altri pittori, in una sequenza interminabile di citazione e di rimandi che costituì il Manierismo. Ora non si capisce perché i teorici moderni e soprattutto postmoderni del citazionismo, nonché adoratori delle più intricate ‘maniere’, e non soltanto in pittura, esaltino poi la via presunta realistica di Michelangelo Merisi. Ma questo è un discorso secondario.

Spiegava tuttavia Gian Lorenzo Mellini tale contraddizione che investe la pittura caravaggesca e fa del suo autore un personaggio chiave: «Per Longhi Caravaggio, come per De Sanctis il blocco Alfieri-Parini-Foscolo (e soprattutto Manzoni, per via del
sermo humilis), aveva una funzione catartica rispetto al buco nero del Manierismo e del Barocco, riflesso della medesima damnatio desanctisiana e poi crociana, della Riforma cattolica». In questo contesto Matteo Marangoni, che nel primo ventennio del secolo celebrava il Barocco in compagnia di pochissimi altri (soprattutto tedeschi della Scuola di Vienna e in Italia i bravi praticoni Giulio Magni e Armando Brasini, nonché il fugace Stanislao Franchetti), risultava una figura singolare, un maestro fuori degli schieramenti, che firmava libri preziosi dai titoli dimessi e scolastici quali Saper vedere e Come si guarda un quadro, per la generazione successiva degli storici dell’arte un mito che solo l’affermazione militante di Longhi riuscirà a scalzare dal podio. Da parte sua Marangoni si limitava a una bonaria impertinenza nei confronti del giovane antagonista còlto nell’immobile stupore vagamente bamboleggiante con il quale s’accostava ai più intricati nodi della sua disciplina, mancandogli la fluidità della mano di Degas, somigliando casomai all’artificioso Renoir – egli diceva secondo paragoni di moda a quel tempo. A Longhi comunque riusciva un’operazione singolare, baciata dal successo ancora ai giorni nostri, che Mellini riassume in tutti i suoi esiti: «Ma, insieme col Barocco, si affossava il Classicismo, l’Arcadia fino al Rococò, il Neoclassicismo e oltre, al fine di esaltare il cosiddetto Naturalismo, che poi era un pancaravaggìsmo a corso forzato che sarebbe sfociato in quello ottocentesco francese, massime – chissà perché – l’Impressionismo». Ideologia del secondo dopoguerra, diciamo pure la più elevata. Già nel fuoco della Prima guerra mondiale Spengler licenziava il suo Tramonto dell’Occidente parlando degli impressionismi che sostituivano i vecchi naturalismi, meglio, di cui erano la traduzione moderna: «imitazione degli stimoli dell’apparenza, dei fatti scientificamente accertabili nelle loro caratteristiche sensibili. […] Non si vuole ‘illudere’ ma evocare. L’Io sopraffà il ‘tu’». Nel medesimo anno 1917 Marangoni scriveva sulla «Rivista d’arte» il saggio sui pittori trascurati del Seicento.

Realismo, naturalismo, addirittura illusionismo. Il dibattito si complicava all’inizio del Novecento per via di quel fotografismo sul quale l’epoca si interrogava inquieta. Quale trompe-l’oeil poteva gareggiare con il risultato dello scatto meccanico? E non si era del resto tentato per circa un secolo di allontanarsi dalla minuziosa riproduzione, lasciando generosamente alla fotografia il gioco di duplicare il reale, ritenendo anzi che liberandosi da tale servigio la pittura potesse aspirare a più alti cieli? Si discusse allora nei cenacoli ristrettissimi degli storici dell’arte intorno a una vera e propria scoperta: il
Cestino dell’Ambrosiana, sepolto dall’indifferenza per sì piccolo e scherzoso esercizio. Trattàvasi di natura morta, con il gusto lugubre che già il nome adombrava, un po’ come i fiori recisi da cui Mario Praz nella raccolta Fiori freschi fece risuonare tutta le declinazioni del cadaverico, tanfo compreso. Importazione dal mondo fiammingo? Certo, anche i nostri pittori sapevano rifinire frutti e fiori, ma li avevano collocati fino a quel tempo dentro scene più ampie, affollate di umani e delle loro storie. Si veda appunto la frutta dipinta sul tavolo della Cena di Emmaus come è simile alla Fiscella o al canestro che il Caravaggio collocò nelle mani di uno dei suoi Bacchi adolescenti. Oppure ci si ricordi della Venere e Satiro di Annibale Carracci, datato negli anni della cesta ambrosiana, dove l’animalesco personaggio agita una coppa con uva che, opportunamente isolata, sarebbe una perfetta ‘natura morta’, ma evidentemente il Bolognese non se la sentiva ancora di liberarsi dal racconto, ne faceva piuttosto un delicato elemento della fiaba. Così come si ebbe la fortuna di vedere in una mostra viennese di Dürer delle tavolette del maestro tedesco nel cui retro erano dipinte delle composizioni astratte, ben più geniali di quelle dei seguaci del Blaue Reiter, che restavano però fatto privatissimo, esperimento da tenere nascosto, essendo la missione del pittore quella di narrare storie attraverso le immagini, anzi secondo i precetti della Riforma tridentina «letteratura per illetterati». La questione era se e perché focalizzare questi oggetti e dedicar loro un quadro, una cornice. Come insomma potessero essere un’opera.

La modestia del quadretto ambrosiano, l’umiltà ostentata, la mancanza di splendore – forse a confronto con le opere coeve dei Fiamminghi – attribuita da Berenson al deperimento dei colori, la rinuncia alla prospettiva elaborata (per cui ancora Berenson parlava di «pittura cinese») erano d’altronde i motivi che lo faranno apprezzare tanto dai novecenteschi, segno primigenio della fine dell’arte magniloquente, riscoperto negli anni in cui si affermavano le piccole tele di Morandi, il trionfo di nature morte stortine. Ma siccome il Caravaggio nulla poteva sapere del masochismo culturale dei moderni, del loro culto della caducità senza redenzione cristiana, è certo che non a essi era rivolta la sua spenta e mesta natura morta, quanto ai suoi contemporanei cui doveva risuonare come una predica: immagine della Vanitas.

Da Matteo Marangoni,
Valori mal noti e trascurati della pittura italiana del Seicento in alcuni pittori di nature morte, ora in Arte e Barocco, Vallecchi, Firenze 1953, pp. 6-16.

La solita distinzione arte naturalistica, realistica o, al contrario, idealistica, è quanto mai oziosa e falsa: l’arte non può essere realistica dal momento che è superamento della realtà empirica. Il considerarla poi tale in base al soggetto della sua interpretazione è addirittura ingenuo. Tale distinzione può invece essere fatta riguarda al mezzo d’espressione, alla tecnica pittorica, più ideale o più realista. Ora appunto, persino considerando da questo lato, la pittura del Caravaggio è, come vedremo, tutt’altro che realistica.

Caravaggio dunque, per ricordarlo alla buona in due parole, ricorre alla luce radente sui corpi non per un fatuo fine realistico, ma come mezzo per costruire stilisticamente le sue forme a semplici masse, dove le linee vitali delle cose affiorando nella luce ne costituiscono quasi gli spigoli. Questa coerenza stilistica, questo orrore dell’episodico e del temporaneo – lèggi realistico – appaiono potentemente in ogni opera caravaggesca. Basterebbe come il pittore sopprime sotto il gettito luminoso gli episodi anatomici inespressivi e la convinzione con cui li ricerca quando invece sieno parte vitale ed inespressiva della forma, quando insomma concorrano ad accrescerne il senso del volume o ritmico.

A confronto con Rembrandt

Se ora accostiamo il Carvaggio ai suoi derivati più o meno diretti, vediamo che quasi nessuno di essi ha capìto il profondo ammaestramento stilistico dell’arte caravaggesca, che allora – come oggi ancora a tanti – deve essere sembrato soltanto, per dirla coll’Orlando e col Ticozzi «un gran tingere di macchia e furbesco che non lascia trovare conto del buon contorno».

Quando si vede anche nel confronto con alcuni dei più illustri pittori spagnoli e olandesi che tanta parte della loro gloria debbono al Caravaggio il quale tuttavia sino ad ora almeno è stato, rispetto a quelli, tanto meno celebrato […].

Rembrandt, finalmente, mi sembra quasi l’antitesi del Caravaggio. La luce, che nel pittore italiano dà alle forme profili solidi e fermi, serve in Rembrandt a disfarle in contorni mobili, evanescenti, quasi irreali; nel Caravaggio la luce è il mezzo per trasfigurare la realtà nello stile, in Rembrandt essa è fine a se stessa, e le cose non sono là che per servirla; al Caravaggio basta di concretare una forma con sicuri intenti plastici in un ambiente ideale, subordinando il colore stesso all’ufficio di coadiutore plastico, Rembrandt non gode delle forme se non sieno prima immerse e trasfigurate nel bagno d’oro della sua atmosfera fantastica. Caravaggio tende a concretare le sue figurazioni nelle forme più semplici, Rembrandt ricerca le accidentalità più preziose della forma. Essi battono dunque due vie opposte: l’averli riavvicinati avrà servito solo a farci sentire quanto il pittore italiano è più vicino dell’altro al nostro senso plastico latino – lèggi classico, inteso nel più libero senso – amante di chiarezza, di semplicità, di sintesi; alieno dal fantastico e dall’irreale, dei quali non ha alcun bisogno per manifestare la bellezza latente nella materia […].

Le nature morte fiamminghe

I pittori di natura morta fiamminghi olandesi del Seicento – sino ad oggi così noti e ricercati che qualunque tela di questo genere si diceva senza distinzione fiamminga – debbono per lo più la loro grande popolarità, appunto, a doti specialmente decorative, unite a una tecnica precisa, finita ed elegante che si capisce come possa aver suscitato tanta ammirazione in un tempo in cui non esistevano mezzi fotomeccanici.

Troppo meccanicamente oggettivi per potersi permettere un vero accento lirico, e troppo superficiali per essere dei forti e sani realisti, questi pittori si mantengono, dal più, al meno, ad un livello di mezzo con una monotonia disperante che li denuncia a prima vista. Persino i più grandi di loro quando hanno dovuto dipingere della natura morta l’hanno intesa soltanto sotto un aspetto decorativo esagerandone le dimensioni come fa Rubens nella Cerere dell’Ermitage o nei Putti con frutta di Berlino, oppure Jordaens nella Fecondità di Bruxelles, e come fanno dietro di loro tutti gli altri, senza sapersi mai spogliare del marchio decorativo. In nessuno di questi pittori, per quanto mi ricordi, si riscontra per esempio il fatto, non raro invece in pittori italiani del Seicento, di una natura morta eseguita semplicemente per puro interesse pittorico e senza alcun interesse decorativo. […]

Un canestro su fondo grigio-avana
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Il Canestro dell’Ambrosiana, come già notò Lionello Venturi, ha importanza anche per la novità del soggetto che «consiste nel trovare interesse per un semplice canestro posto nel basso di un fondo grigio avana unito».

Tanto in questa come in tutte le altre nature morte caravaggesche sopra nominate, l’intenzione che mi sembra soverchiare tutte le altre è la consueta ricerca di forme semplici e chiare, la stessa volontà accentrante e solidificatrice.

Siamo in presenza di un artista eminentemente soggettivo, il quale, piuttosto che curarsi della qualità delle cose, tende a trasfigurarle plasticamente secondo imperiose leggi stilistiche. Nel Caravaggio il bisogno di definire stilisticamente la forma è tale che ha, rispetto al suo tempo, persino qualche cosa di arcaico: egli mostra la convinzione e la coerenza di un classico.

Il bisogno di unità di stile, l’orrore dell’indeciso, è tale in lui che anche gli oggetti di minima importanza sono trattati con la massima interezza stilistica. […]

Lo stesso idealismo caravaggesco riappare nel colore della frutta e delle foglie che si limita a pochi toni a zone uniformi e fredde accostate senza trapassi con impiego di ombre nerastre, senza traccia di sensualità.

Queste nature morte del Caravaggio paiono fatte apposta per smentire ancora una volta l’errato titolo di fondatore del Naturalismo che gli si affibbia.: ecco chicchi d’uva di iperbolica sfericità, ecco frutti di perfetta tornitura, foglie polite e metallicamente staglianti sul fondo, un mondo trasfigurato dallo stile imperioso dell’artista, un mondo di esseri che trascendono la caducità: altro che naturalismo!

(3. Continua)

martedì 13 aprile 2010

Caravaggesca (2)

~ GIOVAN BATTISTA MARINO CELEBRA, IN UN SONETTO INCENTRATO SUL DOPPIO, L’AMICO PITTORE ~
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Nella Galeria del poeta napoletano c’è un Caravaggio. Il ritratto in questione non è stato identificato, potrebbe trattarsi semplicemente di un omaggio simbolico e personalissimo all’artista, concerto tra poeta e pittore. Il sonetto della Galeria, dove i versi evocano i quadri, ricama sul tema del doppio: da una parte Giovan Battista in carne e ossa e Giovan Battista dipinto sulla «nobil tela», dall’altra Michele e Angelo, le due componenti del nome di battesimo che il Caravaggio condivide con il Buonarroti. Il poeta è così un Giano, perfettamente raddoppiato, anche per virtuosismo realistico del Lombardo: «veracemente». Ma il Marino innamorato vive nelle amate e perde la propria vita nella passione smisurata, per cui chiede al pittore di farlo vivere – risorgere – nel ritratto. Allora il ritrattista etichettato come realista va al di là della capacità di mettere in scena il modello, non è soltanto Angelo bensì creatore come il Creatore, che «anima» le ombre, che fa di modello e raffigurato un’unica carne, un «noi». Il poeta e la sua immagine dipinta sciolgono il canto di riconoscenza al Caravaggio. Giovan Battista Marino dunque sa andare oltre gli schemi di realismo, naturalismo, ecc.; l’artista, creator più che pittore dice in Adone proprio in riferimento al Merisi. Leon Battista Alberti – ricorda Lina Bolzoni in Poesia e ritratto nel Rinascimento – affermava esser la pittura una forza simile all’amicizia, forza divina che rende presente, vicino a noi, ciò che è lontano.

Riproduciamo il poco noto componimento poetico, tratto da
La Galeria (III, XV, 11).


Sopra il proprio Ritratto dell'Autore di mano di Michelagnolo da Caravaggio

Vidi, MICHEL, la nobil tela, in cui
da la tua man veracemente espresso
vidi un altro me stesso, anzi me stesso,
quasi Giano novel, diviso in dui.

Io, che ’n virtù d’Amor vivo in altrui,
spero or mi fia (la tua mercé) concesso,
in me non vivo, or ravivarmi in esso,
in me già morto, immortalarmi in lui.

Piacemi assai che meraviglie puoi
formar sì nòve, ANGEL non già ma Dio:
animar l’ombre, anzi di me far noi.

Che s’or scarso a lodarti è lo stil mio,
con due penne e due lingue i pregi tuoi
scriverem, canteremo, ed egli, ed io.
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(2. Continua)

venerdì 9 aprile 2010

Caravaggesca (1)

~ PICCOLA ANTOLOGIA DI GIUDIZI SGHEMBI SUL MAESTRO LOMBARDO IN MOSTRA A ROMA NELLE SCUDERIE DEL QUIRINALE ~

I luoghi comuni che inebriano in particolare il giornale «La Repubblica», dove si legge ancora dei «contadini dai piedi sporchi mai prima entrati in una scena sacra», resistono a ogni domanda di buonsenso: i quattrocenteschi, pur così sobri, non dipinsero forse degli straccioni, miserabili di vario genere, vicino alla divinità più splendente? Basti pensare alle scene della Natività, anche in epoche precedenti, con i pastori accostati al Puer Deus. Indimenticabile l’affresco nella chiesa di S. Maria Maggiore a Spello dove Pinturicchio mette in scena contadini e pastori, irsuti e selvaggi, contrapposti anche fisicamente ai nobili sullo sfondo, rappresentazione antropologicamente magistrale delle differenze gerarchiche ben incise nei corpi. Fosse questa sociologica nota la meraviglia di Caravaggio! Sempre il medesimo giornale erudisce i suoi devoti lettori narrando del Merisi che avrebbe sperperato un patrimonio «con le donne e con le taverne», seguendo l’aneddotica dozzinale. Ma anche sulle gazzette dell’altra parte politica non si scherza. Scandalizzato dalle interpretazioni che vedono riflessa nella pittura caravaggesca la cultura controriformista, il neopagano libertino destrorso protesta: ma come, anche il Bacchino, così sensuale, è adesso una prefigurazione o un’eco di Gesù! Costui non sembra aver tratto alcun insegnamento dalla pittura italiana, dove eros e vangelo, eros e agape, vanno a braccetto. Peggio per chi vuole separarli a tutti i costi, ossessionandosi in purezze gnostiche e perversioni d’accatto (ovvero, proprio come hanno ridotto l’arte negli ultimi tempi).

Longhi parlava di «sfortuna» critica del pittore, dalla quale proprio lui lo avrebbe liberato dopo secoli di silenzio, e rammentava stizzito le omissioni, a suo parere, degli storici e dei critici, perfino dei colti viaggiatori in Italia, salvo naturalmente lodevoli eccezioni, talché al momento delle spoliazioni repubblicane e napoleoniche i rivoluzionari provarono a rubare dai nostri palazzi e chiese opere d’ogni epoca e d’ogni livello ma nessuno sembrava pensare a portarsi a Parigi un Caravaggio. Così diceva il fine storico dell’arte, fingendo di dimenticare il furto francese della
Sepoltura di Cristo che fu un modello per J.-L. David (è inquietante che anche la Sepoltura di Raffaello fosse trasportata oltralpe come preda del vincitore ‘laico’: sarà un caso, ma negli anni violentissimi che dovevano cambiare i connotati alla civiltà occidentale, mettere in mostra senza alcuna pietas la morte di Gesù straordinariamente rappresentata poteva suonare come un’anticipazione del lugubre annuncio di Nietzsche sulla «morte di Dio»). Questo ‘complotto del silenzio’, dal punto di vista longhiano, era rotto qua e là da non poche menzioni di Michelangelo Merisi, soprattutto biografiche, onde riecheggiare la leggenda nera che lo vide irruente sulla scena romana pre-barocca. Converrebbe domandarsi piuttosto se le proporzioni non siano saltate del tutto nel nostro tempo, tentando disperatamente di considerare moderno l’artista della remota fine del XVI secolo, compagno d’epoca di Torquato Tasso e di Pierluigi da Palestrina. E così trattandolo, farne una bandiera addirittura modernista.

Del resto è comprensibile il fascino del realismo nell’epoca delle astrazioni, delle larve, degli spiritualismi adolescenziali, della paura della fisicità, del suo nascondimento, del tabù. Per legge del contrappasso, il peccato di cerebralismo viene scontato con il gusto romantico, con l’amore per il noir, il delitto, ecc. Il povero Caravaggio si trova nell’imbarazzante posizione del banditore dell’accoppiata pittoresca arte & delitto, di colui che è caro al pubblico imbelle del Terzo millennio anche per il congetturato accoppamento di un amico, asceso in tal modo nell’empireo dei cosiddetti trasgressori. Per facilitarne la ricezione ci si inventa un Seicento tutto dominato dal Lombardo, come piacque pensare nella metà del secolo scorso a un pugno di storici e critici, mettendo tra parentesi le parole chiare dei contemporanei, che sì, sono assai polemiche, segno evidente quindi di una irritante notorietà del Nostro, ma a quei tempi non era sufficiente la disputa con l’alone scandaloso a decretare un ruolo di primissimo piano, come talvolta si equivoca, confondendo alla maniera attuale tra chiasso, fama e ammirazione. A cominciare dal suo principale nemico, il Bellori, nessuno nega la discussione che si accese a Roma, ma ai più erano chiari anche alcuni limiti del giovane artista: «Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiar il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. Così sottoposta da Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle (…). All’hora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente…» (
Vite de’ pittori).

Se i romantici tedeschi fossero incappati nei suoi quadri, semmai se ne fossero accorti frequentando in tanti le chiese romane, come avrebbero risolto bene i loro problemi teorici! Ci pensarono invece i novecenteschi a celebrare la sua arte, scossi da quelle parole critiche belloriane: arte «senza bellezza», in cui appunto «ciascuno si prese licenza», con il conseguente «dispregio delle cose belle». È il motivo per cui Caravaggio attrae tutta la volgarità odierna (spettatori, critici, letterati che ne narrano beati la dissoluzione delle forme, e naturalmente tutti coloro che «senz’altro studio e fatica» arrivano direttamente alle installazioni, dimentichi del talento straordinario del loro delittuoso modello, dimentichi altresì dell’amore per la fisicità riconsacrata, che manca completamente ai suoi imitatori).

Longhi, da parte sua, in sintonia con il proprio schieramento ideologico, con un materialismo diciamo un po’ Ottocento, tendeva a dipingere un Caravaggio che toglieva l’aura del mito agli dèi pagani e il sacro alle figure cristiane, cosicché ne usciva fuori un prosatore assai greve – all’opposto del forbito incensatore – , prevalentemente un populista che s’inginocchiava soltanto davanti ai poveretti avvolti negli stracci, come nemmeno il Bellori avrebbe mai osato calunniarlo.

Fosse pure un assassino, resta pittore di temi sacri quant’altri mai, un artista che per «sprezzatura» àgita anche gesti insolenti e lessico plebeo di quando in quando pur di indagare il mistero del cristianesimo, del Dio che si fa uomo. Che ogni tanto tolga l’aureola in capo ai santi personaggi, come il suo esegeta novecentesco annotava con puntiglio, conta assai poco. C’è indubbiamente del puritanesimo lombardo in tutto ciò. E c’è un inquietante problema cui accennava Cristina Campo in poche righe incisive parlando d’altro ma riferendosi al tema complicato della Controriforma: «Secondo la critica recente (che il Barone Pastor aveva di molto preceduto) il segreto dell’arte della Controriforma fu un ritorno occulto alle insondabili cosmologie religiose del Medioevo, quali le aveva codificate l’opera maestosa di Durando di Mende. Lo strepitoso salto in alto, di salmone controcorrente, il passaggio realmente metafisico, da quantità a qualità che arrestò per un secolo la dirotta precipitazione del naturalismo rinascimentale, nacque dalla determinazione di orientare le forme del proprio tempo su sostanze simboliche che infinitamente le trascendevano. […] Lo stesso sfarzo capovolse di netto il proprio significato, di vagheggiamento e dominazione terrestre, in contemplazione delle vanità, ebbra offerta di cose destinate a perire» (Introduzione alle
Poesie amorose di John Donne). Come la mettiamo allora con il naturalismo asceso a nuova luce (tecnica di illuminazione sarebbe meglio dire) e al contempo con quella contemplazione della vanità, preannuncio di morte (si pensi ai Bacchini più o meno malati) che in Caravaggio si presentano senza ancora quello sfarzo barocco, anzi con il pauperismo ostentato dei seguaci del cardinal Borromeo (che non a caso trovò un apologeta moderno nel ‘giansenista’, per niente barocco, Alessandro Manzoni)?

Ma qui non si pretendeva dire in due parole della pittura di un grande bensì introdurre una piccolissima antologia di giudizi sghembi nel corso dei secoli su un artista che scontato davvero non fu, nonostante gli sforzi dei nostri contemporanei per farne un compare dei tanti bari dell’arte odierna.

Quattro o cinque puntate senza alcuna pretesa di organicità. Appena degli spunti per riflettere sulle molte cose che si dicono in quest’anno che vede celebrare il quarto centenario della morte del pittore.


I voti

Per questa prima puntata si ricorre al pittore e critico Roger de Piles (1635-1709) che nella sua Balance des Peintres les plus connus dava i voti – «per divertirmi», scriveva – ai maggiori pittori della storia dell’arte, ammettendo la soggettività di simili giudizi, ma riflettendo come sempre succede in questi casi anche un gusto dell’epoca. Ebbene, ecco Caravaggio nell’elenco dei pittori notevoli, ma con una pagella assai particolare.

Da La Balance des Peintres di Roger de Piles, in Oeuvres Diverses de M. de Piles - Tome Second, Amsterdam 1767:

I princìpi

Ho diviso il mio voto in venti punti, il ventesimo è il più alto e l’attribuisco alla divina perfezione che noi non conosciamo in tutta la sua estensione. Il diciannove è il voto per il più alto grado di perfezione che conosciamo, al quale nessuno pertanto è ancora giunto. Il diciotto è per coloro che a nostro giudizio si sono più avvicinati alla perfezione. […] La composizione è il risultato di due aspetti: l’invenzione e la disposizione.

La bilancia

Composizione Disegno Colori Espressione

Andrea del Sarto 12 16 9 8
Federico Barocci 14 15 6 10
Jacopo Bassano 6 8 17 0
Giovanni Bellini 4 6 14 0
Sebastian Bourdon 10 8 8 4
Charles Le Brun 16 16 8 16
I Carracci 15 17 13 13
Cavalier d'Arpino 10 10 6 2
Correggio 13 13 15 12
Daniele da Volterra 12 15 5 8
A. van Diepenbeeck 11 10 14 6
Domenichino 15 17 9 17
Albrecht Dürer 8 10 10 8
Giorgione 8 9 18 4
Giov. da Udine 10 8 16 3
Giulio Romano 15 16 4 14
Guercino 18 10 10 4
Guido Reni n.c. 13 9 12
Holbein 9 10 16 3
J. Jordaens 10 8 16 6
Lucas Jordaens 13 12 9 6
Giovanni Lanfranco 14 13 10 5
Leonardo da Vinci 15 16 4 14
Lucas van Leyden 8 6 6 4
Michelangelo 8 17 4 8
M. da Caravaggio 6 6 16 0
Murillo 6 8 15 4
Otho Venius 13 14 10 10
Palma il Vecchio 5 6 16 0
Palma il Giovane 12 9 14 6
Parmigianino 10 15 6 6
G. Penni 0 15 8 0
Perin del Vaga 15 16 7 6
Sebastiano del Piombo 8 13 16 7
Primaticcio 15 14 7 10
Raffaello 17 18 12 18
Rembrandt 15 6 17 12
Rubens 18 13 17 17
F. Salviati 13 15 8 8
E. Le Sueur 15 15 4 15
Teniers 15 12 13 6
Pietro Testa 11 15 0 6
Tintoretto 15 14 16 4
Tiziano 12 15 18 6
Van Dyck 15 10 17 13
Vanius 15 15 12 13
Veronese 15 10 16 3
Taddeo Zuccari 13 14 10 9
Federico Zuccari 10 10 8 8
(I. Continua)

giovedì 8 aprile 2010

Red carpet per il diavolo

~ MINIMA ~ IL SINDACO E L’URBANISTICA DELL’INFERNO ~

L’attuale sindaco di Roma, massimamente dileggiato dai sinistri colti come uno scherzo della democrazia, il suo assessore culturale che le dame del demi-monde considerano loro famulo diligentissimo, sempre pronti ambedue a soddisfare i desiderata dei vecchi padroni del Kulturmarkt, hanno messo su un convegno con le archistar più odiate dalle plebi che li elessero. E dopo aver promesso la demolizione dell’ecomostro dell’Ara Pacis, si accordano adesso con il suo ideatore per aggiustare un muretto, una quinta inutile, che stonerebbe anche nella peggiore borgata. Scimmiottano quindi i predecessori organizzando passerelle per architetti pseudo-urbanisti e nient’affatto urbani. Sarebbe meglio se invece di snodare un altro inutile red carpet e di scatenare chiacchiere spocchiose riflettessero su queste poche parole, scritte da un letterato italiano qualche anno fa: «Lo sapevamo fin da Dante che l’inferno ha una tendenza urbanistica. L’abbiamo sempre saputo, c’è una mappa dell’inferno, si può fare, ci sono delle strade, c’è una toponomastica, senza dubbio ci sono dei vigili». Ecco perché l’urbanistica corrente ha un modello facile. Anche nella città santa per antonomasia (e non solo e non tanto nel quartiere Prati dove i massoni dell’Ottocento vollero che le strade non formassero mai una croce).

martedì 6 aprile 2010

Citazione La lingua morta

Giorgio Manganelli: «Lo scrittore scrive una lingua morta, scrive costantemente ed esclusivamente una lingua morta. Per lingua morta cosa intendo? Una lingua che non è parlata né parlabile, che può essere una lingua del passato, una lingua che impasta vari passati, o lingua che impasta passati e futuri perché il futuro anticipa il non esistere dal punto di vista del presente tale e quale come il passato: cioè c’è una morte futura e una morte passata e la lingua può partecipare dell’una e dell’altra; ma è costantemente una lingua morta.

Anche quando apparentemente lo scrittore crede di usare una lingua quotidiana, nel momento in cui la ferma e la chiude nel discorso, quella lingua diviene defunta e come tale funziona letterariamente; se non è defunta non funziona letterariamente, diventa una lingua socializzata che può essere interessante sociologicamente ma non ha niente a che fare con la letteratura» (da «Jung e la letteratura» in Antologia privata, Rizzoli, 1989, p. 214).

domenica 4 aprile 2010

La notte delle concordanze

~ LA VEGLIA PASQUALE IN UN ANGOLO DELLA ROMA RINASCIMENTALE, TRA LA GIOIA DIONISIACA DEGLI AFRICANI E LA FORMA MISURATISSIMA DEL RITO GREGORIANO. ~ E ALCUNI PENSIERI DI UNO SCRITTORE DISPERATO ~

Stanotte, tra i primi scampanii, diretti alla Trinità dei Pellegrini per partecipare alla veglia pasquale, alla cerimonia per eccellenza dell’anno liturgico, che tutte le riassume e genera, attraversando i vicoli del quartiere rinascimentale tra Campo de’ Fiori e il fiume, si poteva udire una specie di canto, modulazioni di arcaiche sonorità di gola, voci maschili aspre e muggenti, stridule voci femminili di rimando, acustica africana nel cuore della città eterna. Giravi l’angolo e scoprivi una folla di eritrei in abiti da festa celebrare la Pasqua fuori l’antica chiesa di San Salvatore in Campo, concessa al rito copto: già era stato dato l’annuncio della resurrezione, e tutti si abbracciavano e cantavano osannando. Festa che manteneva radici dionisiache ma, diversa dall’annullamento della persona prodotto da ogni mito, prometteva a ciascuno la vittoria individuale sulla morte. In tanto giubilo contagioso, veniva da pensare alla passione di Léon Bloy, scrittore cattolico francese, che alla data 12 aprile 1914, giorno di Pasqua, annotava nel suo diario: «La fine della Quaresima mi è sembrata molto dura. Oggi ho eccezionalmente l’anima in pace. La Domenica di Pasqua spesso l’ho vissuta dolorosamente, perché sono tra quelli che il lunedì piangono ancora, assieme ai discepoli di Emmaus. Il passaggio dall’immensa tristezza alla piena gioia risulta troppo brusco». A ogni Pasqua egli tornava a parlare del proprio dolore: il Venerdì santo sembrava specchiarsi nella sofferenza del suo Dio ma il Sabato non riusciva a partecipare della sua vittoria. Del resto confessava: «Noi sentiamo la liturgia come certi esseri sensibili avvertono il cambiamento d’atmosfera». Chissà se la contentezza africana, l’evento anche extra-liturgico che si spandeva per le strade antiche di Roma, avrebbe trascinato sia pure per una notte il Romanziere Povero con questi cristiani festanti?

Oggi si commemorano quelle ore incerte che precedono l’alba in cui si sarebbe assestato un colpo speciale alla morte. Fatto che avvenne nella storia, sotto il controllo del più pragmatico dei poteri, lo Stato romano, ma i cui dettagli sono affidati a figure umili. Può l’orgoglio di un occidentale maschio e sapiente piegarsi alla testimonianza decisiva di alcune donne ebree?

Nella chiesa della Trinità, parrocchia concessa per grazia di Benedetto XVI ai fedeli del rito in latino, la forma classica contiene l’esuberanza di questa notte speciale. Un canone precisissimo di parole e gesti, di intonazioni e accenti. Le norme rigorose attraverso le quali si annuncia la sconfitta della morte sembrano evocare la precisione del diritto romano. Si parte dalle origini, si rappresenta la cosmologia cristiana, si benedicono i suoi elementi, il fuoco e l’acqua. La natura è convocata per l’evento messianico, ma temendo la tradizione latina ogni concitazione, ogni misticismo confuso, la si sottopone a regole minuziose che si tramandano da millenni, a formule che invocano a ogni passo il Dio «dei secoli dei secoli», che sconfigge il tempo. Si passa quindi alle letture, alla Genesi, alle pagine che aprono il Libro, lette nella lingua sottratta al tempo, nella luce flebile delle candele. E si accende la volontà puntigliosa, notarile, di stabilire le concordanze tra Antico e Nuovo Testamento, per dimostrare la legittimità messianica di Gesù di Nazareth. Ritorna perciò insistente il nome di Israele da parte di chi gli si vuol fare figlio adottivo (il che spiega la speciale preghiera del Venerdì santo, l’incompreso atto d’amore per i padri che non hanno capito i tempi davvero moderni, messianici). Nel buio del tempio si ricordano altre tenebre, ancor più fitte, rotte nel sistema sensoriale dal profumo di alloro sparso nella navata, secondo il rito bizantino, come nella chiesa cattolico-greca di Sant’Attanasio al Babuino, che ospitò per anni, prima dell’indulto ratzingeriano, coloro che si trovavano a disagio nelle forme contemporanee del Triduo pasquale. Poi al Gloria, la massima raffigurazione della felicità: dalle parole, promettenti, alla musica solennissima e piena, alle immagini che si svelano; nel nostro caso quella della Trinità dipinta dal soave Guido Reni.

Basterà una giornata piovigginosa, in luogo di una primavera lucente che fa rinascere la natura, per lasciarsi confondere, per ricadere nelle angosce, nell’abbattimento umano, nell’uniformarsi al mondo animale senza speranza? Torna alla mente un altro pensiero cupo di Bloy che risuona come il basso continuo dell’epoca nostra: «La miseria dei morti, in un secolo privo di fede, è un arcano di dolore da cui la ragione è oppressa». Stanotte scorrono nel mondo alcune immagini per indebolire la potenza della morte. Nelle medesime ore, a San Pietro, il papa tedesco si rivolge al pubblico della platea televisiva: «Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. […]Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole».