sabato 30 marzo 2013

La bellezza del corpo

~ FLORILEGIO PATRISTICO
NELLA PASQUA
DELLA RESURREZIONE CARNALE ~

«Caro salutis est cardo»
TERTULLIANO, De resurrectionis carnis, 8

«La carne è il cardine della salvezza», scriveva Tertulliano sfidando gli gnostici. Anche se cristiani, i ‘platonici’ non amano il corpo, disprezzano l’aspetto materiale del mondo e lo fuggono in ascetismi che negano una parte del creato, che impoveriscono la stessa incarnazione di Dio. Gli apologeti del cristianesimo insistono sulla fisicità del messaggio evangelico. Il corpo non è un accessorio accidentale bensì lo strumento della redenzione. Metodio di Olimpio (250 circa - 311), nel suo dialogo dedicato alla Resurrezione, fa dire al personaggio ortodosso: «L’uomo per natura viene giustamente detto non un’anima senza il corpo ma un tutt’uno prodotto dall’unione tra anima e corpo in un’unica forma di bellezza». La religione cattolica è sola nel celebrare la bellezza fisica. Bellissima è la Pasqua che commemora la fuoriuscita dalla tomba del Dio fatto uomo e ucciso dagli uomini. Il Dio incarnato risorge e assicura agli umani la resurrezione della carne. Metodio, come molti padri della Chiesa, è incantato dal corpo umano, «la più amabile delle forme, della quale, come di immagine, si serve persino la divinità stessa». Ireneo di Lione (130-202), nel quinto libro dell’Adversus haereses parla della bontà della carne, quella realtà sommamente fragile e precaria che riceve la vita divina e che la seconda persona della Trinità destina alla gloria della risurrezione. Ireneo – scriveva Joseph Ratzinger – rivendicava «la santità della materia, del corpo, della carne» (e l’espressione «santità della materia» suona scandaloso all’orecchio degli spiritualisti). Argomentava il santo martire nel suo trattato contro gli eretici: «Come il beato Apostolo dice nella sua lettera agli Efesini: ‘Siamo membra del suo corpo formati dalla sua carne e dalle sue ossa’ (5,30), indicando con queste parole non un certo uomo spirituale e invisibile, perché lo spirito non ha né ossa né carne, ma l’organismo veramente umano, composto di carne nervi e ossa, il quale è nutrito dal calice, che è il suo sangue, ed è fortificato dal pane, che è il suo corpo».

Con tono esultante, Gregorio di Nissa annuncia nel suo primo Discorso sulla Resurrezione: «ecco giunto il regno della vita e sconvolto il potere della morte». È la Pasqua, e il «più grande privilegio di questo giorno di grazia è di avere distrutto le angosce della morte», dice parlando dalla sua Cappadocia del IV secolo dei nostri tormenti contemporanei. Tommaso d’Aquino spiegherà dolcemente: l’anima separata dal corpo è in una situazione «contraria alla natura» (Contra Gentiles). Tutti gli asceti alla moda, i ‘buddisti’ ai quali sembra normale separare anima e corpo e sottomettere il secondo alla prima, i perversi ‘corretti’ che vogliono umiliare i segni corporali davanti all’astrazione capricciosa del «genere», dovrebbero riflettere su un tale pensiero realistico. La natura umana, nella logica tomistica, spinge alla resurrezione. I morti, velati di mestizia, attendono con noi la ricongiunzione con il corpo nel giorno finale. Il paolino «primogenito dei morti» è, secondo Ambrogio, «la primizia di quelli che si sono addormentati» (De excessu Fratris).

«Se non esiste la risurrezione dei morti, neanche Cristo è risuscitato!», scrive Paolo in un celebre passo di una sua epistola (1Cor 15, 13). La Pasqua è garanzia della sconfitta della morte, non del suo aggiramento con le soluzioni filosofiche, «la verità della resurrezione non può essere compresa senza la carne e le ossa, senza il sangue e le membra», diceva san Girolamo. La decomposizione del corpo prodotta dalla Falciatrice è allora un passaggio doloroso ma un passaggio soltanto, un inganno. Del suo superamento cristiano ci parla tutta la liturgia e in particolare quella del triduo pasquale. Anche l’arte se ne fa piccola banditrice (e risulta così sempre cristiana). Buona Pasqua, dunque.

martedì 19 marzo 2013

L'ultima incoronazione

~ LA PIÙ SOLENNE CERIMONIA
DELLA CHIESA DI ROMA
NEL RACCONTO DI TADEUSZ BREZA ~

«Vivo un papa, se ne fa un altro»: c’è chi, deformando un proverbio, prova a mettere in evidenza il carattere enigmatico degli avvenimenti cui assistiamo in questi giorni. Distante anni luce dalla cerimonia odierna, «senza forza né splendore, sciatta e un po’ piagnucolosa», come scrive Pietro De Marco in un eccellente commento sull’edizione fiorentina del «Corriere della Sera» (nei prossimi giorni lo troverete online sul «Covile» n. 744), quella che qui rievoca Tadeusz Breza (1905-1970), scrittore polacco e direttore dell’Istituto polacco a Roma negli anni pacelliani, era il trionfo della forma. Seguiva la morte di Pio XII e per l’ultima volta si chiamò rito dell’incoronazione. Dopo il Concilio, pagine come queste potrebbero suscitare brividi di orrore negli animi semplici che se la prendono con la mondanità, con la sua appariscenza, piuttosto che con il mondo. La lotta cristiana al mondo, del resto, si presenta ben più complicata.
Scriveva dunque Breza, rappresentante diplomatico di un paese a quei tempi comunista, nel suo diario che si permette qualche accenno polemico e politico:

«Roma, 3 novembre ‘58
L’incoronazione del papa è fissata per domani. F. dice che il Sacro Collegio dei Maestri delle Cerimonie Apostoliche al completo ha supplicato un piccolo rinvio, non sentendosi la forza di allestire nello spazio di una sola settimana una cerimonia di quella mole, la più solenne di quante la Chiesa conosca. Ma Giovanni XXIII si è impuntato: vuole lasciarsi quanto prima alle spalle questo periodo di transizione, questa specie di tappa che si conclude soltanto con l’incoronazione. Per la curia essa rappresenta uno sforzo inumano, sia dal lato liturgico che da quello cerimoniale, a causa dell’enorme afflusso a Roma di delegazioni e di personalità, tra cui molte ex-teste coronate e pretendenti al trono che vengono a rendere omaggio al nuovo papa.

Le cose sarebbero un po’ più semplici per quel che riguarda i patriarchi, i vescovi e i metropoliti giunti a Roma, se non fosse per il loro numero che è enorme. Bisogna dividerli tutti gerarchicamente, assegnando a ciascuno il suo posto preciso nella Basilica e nel corteo, poiché si tratta di un mondo terribilmente suscettibile in fatto di prestigio. Basta un piccolo sbaglio, ed ecco crearsi dei rancori che si trascinano per anni e anni. [...]

Roma, 5 novembre ‘58
Una cerimonia fantastica! Ci alziamo alle cinque del mattino per essere in S. Pietro il più presto possibile: abbiamo dei biglietti per una tribuna piuttosto buona ma siccome i posti non sono numerati, chi arriva prima si prende i migliori, vicino alla ringhiera. Entriamo dall’Arco delle Campane con in mano il nostro permesso personale per assistere alla Coronazione. Il servizio d’ordine è perfetto. C’è un’infinità di Svizzeri, di Guardie e di Gendarmi, e noi passiamo in continuazione dagli uni agli altri. Sono appunto le sei e mezzo, ma tutte le piazze, piazzette, stradine e passaggi dietro alla Basilica sono già gremiti di macchine. Ne scendono magnifici prelati, signori dalle uniformi e dai frac costellati di decorazioni, e signore dalle toilettes con velo cosparse di brillanti. Corrono tutti come matti, incalzati dai ciambellani e dai monsignori del cerimoniale, che in questo momento badano più al fatto che non si creino ingorghi che al protocollo.

La cerimonia comincia con una messa, intercalata dall’omaggio reso al nuovo papa dai cardinali e dai canonici di S. Pietro; poi viene l’incoronazione e infine il corteo e la solenne benedizione dalla loggia esterna alla folla accalcata nella piazza. L’intera cerimonia dura cinque ore, ed è qualcosa di assolutamente unico nel suo genere: una solennità grandiosa, travolgente. Ne usciamo intontiti, accecati e assordati dai torrenti di luci, di suoni e di colori. Migliaia di luci, fanfare, inni: le pareti della basilica sono parate di chilometri di stoffa purpurea, resa cangiante dai galloni dorati; cortei sempre più straordinari avanzano nei loro costumi multicolori. Ogni particolare ha un suo preciso significato liturgico molto antico e, la maggior parte delle volte, estremamente complesso. Ad illustrarcelo è un monsignore con il quale Zosia e io abbiamo attaccato discorso, e che ci spiega volta per volta questa o quella finezza. Ma il frastuono delle trombe e dei brani di musica sinfonica, ora di Palestrina ora di Gounod, il quale tra l’altro è l’autore dell’inno dello stato vaticano dalla melodia vagamente operistica, ci impedisce di afferrare il significato mistico degli avvenimenti che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Penso però che anche se mi riuscisse seguire tutte le spiegazioni, e anche se non mi sentissi frastornato dalla stanchezza, la proporzione tra l’ammirazione che provo per la forma e l’indifferenza che sento per il contenuto non ne uscirebbe affatto alterata. Non perché il contenuto mi sia estraneo: a Roma si impara ad ammirare ogni specie di antichità, non soltanto quella etrusca e latina. Se parlo di indifferenza, quindi, è solo perché qui la forma sovrasta imperiosamente il contenuto. Una forma travolgente, splendida, prepotente. Zosia, sempre più controllata, spalanca tanto d’occhi: le torna in mente una frase di Emerson, che ripete sottovoce: “La religione di un’epoca è la poesia di un’altra”.

Ma subito tace, perché in quello stesso momento da dietro l’altar maggiore spunta il corteo culminante della cerimonia, che si dirige verso la porta della Basilica. La folla non capisce più nulla: urla, batte le mani. Il papa la benedice dall’alto della sedia gestatoria, portata a spalla dai bussolanti in tunica rossa. Il corteo avanza lento, splendente, cangiante. Sfilano gli ordini, i capitoli, i cardinali, i grandi Maestri degli ordini cavallereschi, i dignitari vaticani dal costume diverso a seconda dell’epoca in cui fu creata la loro carica. Poi per mezz’ora sotto i nostri occhi sfila un interminabile fiume di mitre. Alcuni la portano in testa: sono i vescovi assistenti al Soglio, altri invece la portano in mano stretta contro il petto: sono quelli privi del titolo di assistenti al Soglio.
Ma portate in mano o sulla testa, di mitre ce ne sono non so più di quante specie diverse. Il monsignore ci indica quale mitra è preziosa, quale aurifregiata, e quale semplice, spiegandoci chi, quando e in quali circostanze vi abbia diritto. Poi, toccando le infule col dito, tanto ci passano vicino, ci inizia ai misteri della forma di questi solenni copricapo vescovili che, secondo le parole della formula consacrativa, devono servire ai vescovi, veri soldati, “da elmo protettivo… in modo che chi se ne adorna e la testa che se ne riveste appaiano terribili ai nemici della verità”. Terribile, a dire il vero, non ce ne sembra nessuna: alcuna hanno una forma insolita, e sono le mitre dei metropoliti e dei patriarchi di riti diversi da quello romano, come il rito melchita, copto, maronita, caldeo o armeno.

Anche il fiume di mitre finisce, al pari delle altre sezioni del corteo, composto prima dei porporati, dei cavalieri e dei dignitari, poi dei delegati ufficiali di sessanta stati e governi che hanno inviato delegazioni ufficiali per la cerimonia, e infine di altre due sezioni, le ultime ormai, scortate dai monsignori del cerimoniale e dagli ufficiali della Guardia Palatina. Quando è apparsa la prima di queste sezioni ho provato una sensazione strana. Fino a quel momento i membri del corteo erano persone vive, semplicemente rivestiti di costumi storici per l’occasione; ma questa nuova ondata di personaggi vestiti in abiti normali, di foggia odierna, sembrava una processione di fantasmi sbucati fuori da qualche ripostiglio: si sarebbe detto il finale di La Pazza di Chaillot. Per prima avanzava l’imperatrice austro-ungarica Zita, detronizzata quarant’anni fa. Poi nell’ordine secondo il quale furono spodestati, Ruprecht di Baviera, Federico di Sassonia, Giovanna di Bulgaria e altri ancora. Dopo di loro venivano i pretendenti al trono, seguiti dalle loro famiglie.

Il nostro monsignore ne riconosceva solo uno ogni tanto. Volta per volta lo sentivamo ripetere: Aosta, Asburgo, Borbone, Bonaparte, Braganza, Coburgo-Gotha, Savoia, e una volta persino Hohenzollern. Dopo questa sezione storica ne è sfilata un’altra, particolarmente curata dal protocollo vaticano, e composta di soli uomini: altri frac, altre decorazioni. Si trattava delle delegazioni ufficiali inviate a Roma dai grandi organismi internazionali come l’Onu e le varie derivazioni, e dai grandi enti europei: Mercato Comune d’Europa, Consiglio d’Europa, Comunità del Carbone e dell’Acciaio e Pool Atomico europeo.

Usciamo. Sulla piazza della Basilica ci troviamo circondati da ogni parte da un mare di gente. Alla luce del sole i colori delle divise e dei paramenti sacri si accendono, facendosi ancora più vividi. Una parte del corteo con il papa e i cardinali si reca nella Sala delle benedizioni, mentre il resto, tra cui anche il fiume di mitre, di cavalieri di Malta, di signori decorati e di Svizzeri in elmo e corazza scintillante, si schiera sulla scalinata monumentale della Basilica. Passa un altro quarto d’ora: adesso si ha veramente l’impressione di assistere a una colossale scena di massa di un’opera lirica, a un tutti di proporzioni gigantesche» (da Il portone di bronzo, Feltrinelli, 1962, pp.429-430; 432-434).

lunedì 18 marzo 2013

Le scimmie del rito

~ IL FEDELE E LO SPETTATORE
SECONDO IGOR STRAVINSKIJ ~

Le Sacre du Printemps ha cento anni. All’inizio del secolo scorso, il sacro, questo termine assai ambiguo portato trionfalmente in scena dagli antropologi, conquistava l’arte profana ma, per fortuna dei primi novecenteschi, la sacra liturgia era ancora ben salda, non confondibile con le copie empie, nonostante Wagner. In quel tempo, gli artisti si volevano sacerdoti e rubavano al rito, soprattutto cattolico. Nell’ultimo mezzo secolo invece anche la liturgia si è messa a rubacchiare alle miserabili rappresentazioni dei profani. Igor Stravinskij, autore del Sacre (il balletto che mostrava i sacrifici umani dei pagani), aveva chiara coscienza di tale confusione, correva l’anno 1935, e scriveva in Cronache della mia vita questa pagina illuminante:

«Non voglio parlare della musica di Parsifal, né di quella di Wagner in generale; oggi è troppo lontano da me. In tutta questa faccenda ciò che mi disgusta è lo spirito elementare che l’ha dettata, il principio stesso di collocare uno spettacolo d’arte sullo stesso piano dell’azione sacra e simbolica che costituisce il servizio religioso. In verità questa commedia di Bayreuth, col suo ridicolo cerimoniale, non è forse una semplice scimmiottatura incosciente del rito sacro?

Mi si contrapporranno forse i misteri del Medioevo. Tali manifestazioni avevano però come base la religione e come sorgente la fede. Per il loro spirito non si allontanavano dal seno della Chiesa che, anzi, le proteggeva. Si trattava di cerimonie religiose al margine dei riti canonici, e se presentavano qualità estetiche, esse erano solo un elemento accessorio e involontario che non ne ledeva la sostanza. Queste cerimonie erano dovute al bisogno imperioso dei fedeli di vedere gli oggetti della loro fede incarnati in modo tangibile, a quello stesso bisogno che creò nelle chiese le immagini e le statue.

Sarebbe veramente ora di finirla, una volta per tutte, con questa inetta e sacrilega concezione dell’arte come religione e del teatro come tempio. L’assurdità di questa misera estetica può essere agevolmente dimostrata col seguente argomento.
Non si può immaginare un fedele che assuma una attitudine critica di fronte all’uffizio divino. Vi sarebbe contradictio in adjecto, il fedele cesserebbe di essere fedele. L’atteggiamento dello spettatore è esattamente opposto; esso non è condizionato né dalla fede, né dalla cieca sottomissione. A teatro si ammira o si respinge; ciò richiede innanzi tutto un giudizio; non si accetta se non dopo aver giudicato; anche incoscientemente. Il senso critico ha dunque una parte essenziale. Confondere questi due ordini di idee, significa dar prova di mancanza assoluta di discernimento oltre che di cattivo gusto. Ci si può forse stupire di una simile confusione ai nostri tempi in cui la trionfante laicità, col degradare dei valori spirituali e con l’avvilire il pensiero umano, ci conduce irrimediabilmente a un totale abbrutimento? Si direbbe tuttavia che ci si renda conto del mostro che il mondo sta per partorire; si constata, con dispetto, che l’uomo non potrebbe vivere senza un culto. Allora si tenta di raffazzonarne qualcuno ricavato dal vecchio arsenale rivoluzionario, e con ciò si crede di far concorrenza alla Chiesa!» (traduzione di Albero Mantelli, Feltrinelli, 1979, pp.40-41).

martedì 12 marzo 2013

Un badante per il papa

~ CI SCRIVE ACCORATO UN LETTORE ~

In questi giorni terribili, ho ricevuto varie telefonate e messaggi d’ogni genere tramite tutto l’armamentario della comunicazione attuale: le persone più lontane dalla Chiesa di Roma erano quelle che mi dicevano del loro turbamento di fronte al gesto papale. Anche i più agguerriti nemici della Catholica non possono negare che nel mondo contemporaneo così piatto, nel globetto dei piccoli diritti, dei capricci, dei desideri irresponsabili, c’è un’unica eccentrica istituzione, la Chiesa che parla (che dovrebbe parlare) della morte e della vita, dell’apoteosi della carne sottratta alla fine umiliante, della sensualità del mondo (che non va confusa con le banalizzazioni correnti, che va anzi contrapposta alle astrattezze gnostiche), della parola evangelica che risuona eterna più dell’arte, dell’immensa questione del peccato (che non è la caricatura proposta dai laici)... Ebbene, l’11 febbraio questa eccentricità ha ricevuto un altro duro colpo. La sacralità del pontefice è stata ridotta a una faccenda di età e di dimissioni, come per un qualsiasi leader politico. Anche a San Pietro, la vecchiaia estrema è stata sottratta alla vista, come si fa nei condomini di mezzo mondo occidentale, imprigionata con qualche badante. Ecco la gioia dei peggiori: finalmente anche quell’angolo della terra che non segue la regola del così fan tutti è stato ridimensionato. Perché poi il sapiente professor Ratzinger si sia piegato alle regole secolari resta per me un mistero doloroso.

Un papa nascosto come succede ai vecchi nel mondo dei consumi: dopo aver creato per loro migliaia di prodotti, a cominciare da quelli farmaceutici e sanitari, li si cancella dallo spazio pubblico. Non sono belli da vedere, agghindati con quelle tute plasticose, con quei cappellini ridicoli, con le scarpe da ginnastica colorate come i ragazzotti, perché bisogna fare sport fino alla fine, frequentare le palestre più delle chiese, correre goffamente ogni giorno. Li si inganna con gli eufemismi, «terza età» non è quella gioachimita dello Spirito ma una categoria di compratori di merci senza glamour. A sentire la pubblicità, creme e chirurgia plastica garantirebbero una giovinezza perenne, ma poi, zac, d’improvviso arriva la condanna all’isolamento, segregati con una persona cui spesso è arduo anche comunicare per via della lingua straniera: nascosti e in silenzio. C’erano una volta patriarchi e matriarche che vivevano in case affollate nell’ossequio dei discendenti e anche nella rabbia malcelata di nuore e generi – perché no? – in attesa di eredità, comunque c’era vita, affetti e animosità; adesso anche per i papi sembra affacciarsi la singolare pena della morte anticipata in vita, della casa-tomba.

Prigionieri che escono soltanto per le innumerevoli analisi prescritte da medici pilateschi che si affidano alle macchine, trascinati da una Asl all’altra, per una continua sperimentazione sui loro corpi fragili, sciupio di quei pochi giorni che restano per infilarsi in stanze d’ospedale con luci artificiali a sottoporsi alle scansioni computeristiche dell’interno del corpo. Non si curano i vecchi, si mantengono in vita per il trionfo dei primari.

San Giuseppe già sul letto di morte in divina compagnia, Sant’Anna grinzosissima, Padre Pio con la bianca barba e piagato nel corpo erano i loro eroi e amici, i santi vecchi che testimoniano nella gloria degli altari che la decadenza fisica comporta compensi d’altro tipo, in un universo armonico e bello; e se le forze venivano a mancare, miracoli potevano sempre accadere: Abramo e Sara, carichi di secoli, figliarono addirittura. Ma la memoria è debole a quest’età, lontano dalle chiese e dalle immagini dei santi (che del resto cominciano a scarseggiare anche nelle chiese nuove delle periferie), durante le ore vuote nelle sale di attesa dei medici di base ci si riempie la testa di nomi enigmatici di farmaci, di malanni, di terrore dei corpi cui hanno asportato l’anima. Il dolore è ormai senza riscatto. E senza la consolazione celeste.

I «supercrip» come li chiamano in inglese, i superzoppi, come si traduce in italiano, sono coloro che afflitti da qualche invalidità puntano a eguagliare i ‘normali’, son riconosciuti come eroi perché imitano bene i sani. La Chiesa invece ha sempre affermato che i corpi dei vecchi e dei malati hanno qualcosa di divino proprio in quanto testimoni della sofferenza, sono sacri. Con buona pace di Nietzsche, il rovesciamento dei valori è lì, i vecchi e i malati hanno un posto più in alto nella gerarchia rispetto ai giovani e ai validi. Anche l’essere umano con il più schifoso dei morbi merita la venerazione dei santi. E i corpi sacri dei papi continuavano a esser sacri anche quando si decomponevano tra le infermità, anche quando si deturpavano per qualche accidente fisico, anche quando si intorpidivano per la decrepitezza.

«A sua immagine»: il privilegio che divinizza l’uomo vale soprattutto per storpi, malati, vecchi. Il Cristo con il volto massacrato dalle torture, che invoca il Padre perché il corpo si sente abbandonato, è addirittura la migliore rappresentazione del Dio incarnato, l’emblema del cattolicesimo, quel crocifisso che non a caso irrita tanti moderni con il mito della salute…

E. F.

venerdì 8 marzo 2013

Il papa debole

~ UNA SINGOLARE PREVISIONE
DEL CONTE DE MAISTRE ~

Nel 1816, il fiero nemico della modernità, il teorico della restaurazione cristiana, il conte savoiardo Joseph-Marie de Maistre pubblicava Du Pape, un trattato ultramontanista, un’apologia del primato del pontefice romano. In quel libro, oggi considerato scandaloso, si legge questa acuta quanto singolare previsione che trova conferma l’11 febbraio del 2013 con la rinuncia di Ratzinger. La riproduciamo dalla edizione italiana (Del Papa, Napoli, 1822, a pagina 149):

«… e lungi che nel momento attuale abbiano a temersi gli eccessi del potere spirituale, deesi al più presto temere dell’opposito, cioè che i Papi manchino della necessaria forza a sostenere l’immenso carico che viene loro addossato, e per soverchio piegare non perdano finalmente la forza e l’abitudine a resistere».

mercoledì 6 marzo 2013

Il papa nascosto


~ I MEDIA NON LO CERCANO
E NON ALMANACCANO SU QUELLO CHE VERRÀ ~

Uno pseudo situazionista (in realtà un dirigente della televisione di Stato), forte della sua competenza nel campo, preconizzava a metà febbraio che, arrivati all’ultima domenica del mese, l’Angelus d’addio di Benedetto XVI avrebbe oscurato le elezioni politiche italiane: forse – affermava più o meno il guru televisivo – l’eco delle parole pronunciate dal balcone del Palazzo apostolico sarà così grande, così forte il pathos per l’ultima apparizione del papa tedesco, che il giorno dopo i telegiornali si dimenticheranno di annunciarci il risultato del voto. Previsioni sbagliate. Da noi, i ludi elettorali hanno sbaragliato l’evento pontificio. Ma anche sulla stampa straniera, l’abbandono sofferto del trono di Pietro non suscita adeguato clamore. Manca il suggello della morte per chiudere un pontificato e archiviarlo come si fa da secoli. Nel codice mediatico, somiglia in modo impressionante a una soluzione da fiction.

Il gesto ratzingeriano del nascondimento, dopo lo stupore iniziale, ha prodotto piuttosto imbarazzo e successivamente silenzio. Non si poteva ripetere all’infinito gli aggettivi «coraggioso» e «umile». Giornali e televisioni hanno preferito parlare dei loro argomenti prediletti: sesso e denaro. Inutile spiegare anche ai poveri fedeli come si tratti di una riduzione della Chiesa bimillenaria alle esclusive misure del mondo, con i vaticanisti travestiti da cronisti della ‘rosa’ o della ‘giudiziaria’. Si vedono i cattolici praticanti pendere dalle labbra della «Repubblica» quasi il quotidiano modaiolo fosse un pio curato, senza una sana indignazione per le sciocchezze che pubblica ogni mattina su un universo che le è proprio estraneo, anche se appunto tale sciocchezzaio scandalistico è collocato in taglio basso.

Il papa (emerito o meno) sta nascosto ma i giornalisti non provano neanche a cercarlo, i paparazzi non si appostano per sorprenderlo, e certo non si tratta di rispetto. Semplice disinteresse. Folle di fotografi e operatori urlanti – secondo le sempiterne scene della Roma felliniana – si precipitano addosso ai giovani eletti della setta politica che si diffonde come un virus sulla penisola. A Castelgandolfo, dove l’agonia di Pio XII provocò la prima, irruenta, invasione dei media, adesso regna il silenzio.

C'è una chiacchiera dominante sui bus e nei bar; per i vicoli della città eterna gli artigiani parlano sull’uscio delle loro botteghe, assai inoperose di questi tempi, e non si interrogano sul sovrano sparito dall’urbe, sullo strano conclave alle porte, bensì ricapitolano quelle balordaggini sopraggiunte nel Parlamento italiano, e si captano frasi volanti, intrise di uno Zeitgeist maleducato: «i partiti si sono trasformati in organismi di potere…», dicono con aria di saperla lunga, pretendendo che la politica sia un’opera di beneficenza, un’attività di volontariato...

Storici e cardinali ripetono sempre che la fine del potere temporale rappresentò per la Chiesa di Roma una vera liberazione, sottratta alle catene mondane, agli impacci politici, alle distrazioni materiali, ma neppure la Chiesa del beato Pio IX fu considerata dagli accaniti anticlericali del tempo alla maniera negativa con la quale si guarda in queste ore a quella attuale. Nessuno allora la dipingeva come un’accolita di pederasti e di banchieri loschi. Al più si polemizzava con l’aspetto ideologico, le si rovesciavano addosso le accuse dell’illuminismo vecchio di un secolo, si ricorreva alle argomentazioni di Kant sulla coscienza, si duellava a colpi di dogmi scientifici, si usavano le armi filologiche per contraddire un passo evangelico, si considerava il papato come la causa della particolarità italiana, prendendosela con la cultura controriformista, con il manierismo e con il barocco, talvolta addirittura con il Rinascimento. La colpa era di Machiavelli e dei gesuiti: dispute elevate, in fondo. Adesso, di fronte a un Vaticano privato da oltre un secolo del potere politico, sottratto al gioco delle grandi potenze, un Vaticano angelico – «dagli eunuchi per il Regno» (secondo Matteo 19,12) al Regno degli eunuchi – , uno staterello apolitico, si addita la Santa Sede come il più turpe esempio di umanità. La figura del papa e quelle dei cardinali sono accostate anzitutto al sesso imperdonabile (o che almeno alla Chiesa cattolica non si perdona), quella pedofilia che viene enfatizzata e lodata nel mondo pagano dei greci, anche sui libri di scuola, e in modo esplicito. Si dà poi dei mafiosi riciclatori ai responsabili delle istituzioni economiche vaticane, avvolgendo la Chiesa con un’altra parola tabù: mafia. Infine, il ritiro della scomunica per i vescovi seguaci di monsignor Lefebvre (naturalmente la scomunica che i papi del Concilio trovavano fuori luogo per i potenti persecutori dei cristiani va mantenuta per i fedeli minoritari della liturgia millenaria!) provoca un’altra macchia fondamentale per la curia ratzingeriana, niente di meno che il negazionismo (per colpa di un vescovo lefebvriano che aveva idee balzane sulla storia della seconda guerra mondiale). Nessuno si fa scrupoli di fronte al negazionismo del comunismo né qualcuno chiede se non meritino una scomunica o quanto meno un ammonimento i monsignori mediorientali benedicenti le masse assatanate che vogliono fare strage di ebrei in ‘Terrasanta’, spesso trasportando nelle loro auto diplomatiche di nunzi le armi per i terroristi che fanno il tiro al bersaglio sull’israeliano. Oggi non si distingue più, come ancora si faceva in tempi ‘risorgimentali’, tra la Santa Sede e la Chiesa, la centrale cattolica è vista come una banda di politicanti e il piccolo Stato come uno scandaloso tradimento del Vangelo. L’«affettività antiromana» di cui parlava Carl Schmitt è diventato confuso cosmopolitismo che appiattisce tutte le città dell’Occidente.

I media cercano solo il nuovo o il presunto tale e seppelliscono cinicamente ogni traccia del passato, organizzano l’oblio. Isolano le frasi, spezzettano la vita, parcellizzano il sapere e lo rendono merce. Il loro novum è l’opposto di quello lieto annunciato dai cristiani. I media sono assertivi, urlanti, aggressivi, ansiogeni, vendono slogan, incantano il mondo; l’horror ha la maggiore attrazione. Nei momenti critici delle riunioni di redazione, entra il cronista di ‘nera’ promettendo ai colleghi la «bella notizia»: un orribile delitto con particolari macabri da mettere in prima pagina. La medesima logica sovraintende alla rinuncia di un papa, alla preparazione di un conclave. Per i palati assuefatti ci vuole l’attacco blasfemo alla religione dell’amore, al Cristo che difende gli innocenti, all’unico libro che celebra la vittima. Se poi non bastasse il giornalismo d’assalto c’è magari, in guisa più salottiera, il vangelo della Passione 'demitizzato' su Radiotre da un pastore protestante che con sussiego da studentello secchione fa diventare la Coena Domini una cenetta tra amici, mentre la conduttrice ride divertita al pensiero dei retrogradi che prestano fede alla storia del pane e del vino. Nessuno scandalo, per carità, è solo banalità del male, trionfo dei luoghi comuni, forse semplice mancanza di fantasia. Anche per questo motivo, è impossibile capire dai giornali quello che sta accadendo nella valle dove Pietro fu crocefisso dai romani.