martedì 8 luglio 2008

Il vizio nel museo. L'accidia


«DAL MOMENTO CHE NON DIAMO PIÙ ALCUNA IMPORTANZA AL SENSO, AL VALORE, AI POTERI E AI PERICOLI DELL’IMMAGINE, CONCEDIAMO ALL’OPERA D’ARTE LA LICENZA DI ESSERE INSIGNIFICANTE». JEAN CLAIR SCRIVE IL SUO UNBEHAGEN IN DER KULTUR E MEDITA SUI MUSEI, ORMAI «LUOGHI DI CULTO PER PERSONE INCOLTE».

In origine furono i dandy a preferire i cimiteri ai musei contemporanei, poi fu la volta di Paul Valéry, maestro di rarissima eleganza del pensiero, a mostrare aristocratica indignazione per i rituali popolari dei pellegrinaggi alle quadrerie, ora è Jean Clair a parlare del disagio in simile luoghi: Malaise dans les musées, (Flammarion), l’Unbehagen in der Kultur dell’estetica, saggio «nato da un disincanto» e significativamente datato «Pentecoste 2007», quasi a invocare lo Spirito Santo e i suoi doni per affrontare la grande questione dell’arte oggi e delle sue dimore.

Nelle sue celebri Considérations sur l’état des beaux-arts, tradotto da noi in Critica della modernità, aveva già sfiorato la faccenda: «all’alba del secondo millennio il monaco Glaber guardava con meraviglia ‘il bianco mantello delle chiese’ distendersi sull’Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l’Occidente». E offriva dei numeri su cui riflettere: «Nel corso degli anni settanta, è stato costruito in media in tutto il mondo un nuovo museo per settimana». Trend che si è intensificato nell’ultimo ventennio. «Nell’XI secolo il culto delle reliquie aveva accelerato la costruzione delle abbazie e stabilito nuove vie di comunicazione. Oggi è il culto delle opere d’arte che spinge a costruire i nuovi templi e regola le grandi transumanze culturali del turismo occidentale». L’opera d’arte si secolarizza, anzi pretende banalizzarsi insulsamente, mentre procede la museificazione del quotidiano.

Da oltre un secolo l’Occidente proclama ‘la morte dell’arte’ e spende molto per i suoi cimiteri, i musei. Se ne era già accorto Ernst Jünger, approfondendo la questione nelle meditazioni di Das Abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso, 1929). In quella raccolta di «Figurazioni e capricci», come recita il sottotitolo, c’è uno scritto intitolato «Nei musei». L’occhio addestrato di Jünger si posa su tali luoghi enigmatici. Non si tratta di un saggio, brividi di terrore ne accompagnano la lettura. Andrebbe riportato per intero, riprendiamone almeno l’essenziale, ma anche taluni dettagli, come l’incipit: «La visita dei musei ha sempre qualcosa d’inquietante e spesso di angoscioso». Talvolta, le avanguardie avversarono il museo come spazio ‘borghese’, salotto della città per riti festivi, Jünger ne afferra l’aspetto labirintico. Conoscitore dei meccanismi religiosi, sa individuarlo anzitutto come il tempio degli atei: «A volte ci permette di osservare tratti commoventi, come il contegno che il libero pensatore ateo assume dinanzi al calco dell’archeopteryx». D’altra parte, se il museo diviene il tempio dell’ateo, la chiesa cristiana si trasforma in museo. Jünger prevede quello che, nella fine Novecento, sarà un processo completamente dispiegato: «c’inganniamo facilmente anche a proposito della forza e dell’ampiezza che l’impulso museale ha assunto e continua ad assumere di giorno in giorno. Si può avere un’idea della mostruosa bramosia che domina in questo campo di attività, quando si pensi al modo in cui le chiese si stanno trasformando in musei. Innumerevoli sono oggi coloro che indagano la realtà partendo da un punto di vista tendente a conferire ad ogni oggetto la fisionomia di un oggetto da museo, e anche le chiese rientrano in tale prospettiva». La faccenda è centrale nella storia del Novecento, riguarda la concezione del tempo ma anche la concezione della natura: «La zona centrale in cui l’impulso museale agisce è la protezione della natura e dei monumenti, e qui si crea un’area tabu sempre più estesa, coinvolgente una quantità sempre maggiore di oggetti, dal più piccolo insetto fino a parchi nazionali grandi come intere regioni. Oggi esistono alberi, boschi, stagni, case, villaggi, città, uomini, posti sotto il manto protettivo di un tabu da museo, e neppure la più ardita fantasia può individuare nei suoi giusti termini questo sforzo di circoscrivere in una zona intangibile una tale massa di cose viventi e morte». Neppure i filosofi abituati da Marx a scrutare il potere dell’inanimato sul vivente si accorsero di questa zona intangibile. «Degno di nota – aggiunge Jünger – è anche lo stretto parallelismo tra questo mondo conservato sotto campane di vetro e un altro mondo in cui la selvaggia crudeltà e l’ampiezza della distruzione quasi non conoscono più limiti». Il mondo nella teca, della conservazione, e quello della distruzione assoluta sono, oltre che paralleli, guidati ambedue da una stessa scienza. «Un segreto rapporto lega questi due mondi […] lo spirito da museo rappresenta forse una sorta di assicurazione contro le deviazioni della civiltà». E rivela «la parentela che il nostro regno dello spirito da museo ha con i grandi culti mortuari e tombali; essa diverrebbe anche più evidente se si trasportasse parte delle collezioni in stanze sotterranee». Con parole quasi identiche a quelle con cui i marxisti descrivevano il vampirismo del capitale sulla forza-lavoro, Jünger scrive: «Nell’impulso museale si esprime la parte mortifera della nostra scienza: una tendenza cioè a collocare ciò che è vivente nell’ambito dell’immobile e dell’invulnerabile, e forse anche il desiderio di compilare un enorme catalogo di materiali, penosamente ordinato, tale da lasciare ai posteri un fedele specchio della nostra vita e dei suoi più ramificati interessi. Ciò ricorda l’inventario trovato nella tomba di Tutankhamen». Nelle nostre sovrintendenze operano dei sacerdoti egizi. (La ricostruzione di questi frammenti jüngeriani è ripresa quasi integralmente da Il classico violato. Per un museo letterario del Novecento, Roma 2004)

Jean Clair parla invece di accidia, il vizio dell’indifferenza che procura melanconia, il cinismo dei pigri. Nel frattempo, il visitatore avvenuturoso è diventato uno del gregge turistico, senza più brividi, anzi chiassoso e insolente, che neppure si accorge di essere penetrato in un mondo tombale. I musei si trasformano in «luoghi di culto per persone incolte», a cominciare da coloro che se ne occupano per professione. Non si incontrano più uomini di cultura bensì funzionari culturali, una immensa schiera al servizio della economia dell’immateriale (ci vorrebbe il sarcasmo di Marx per flagellare questa nuova religione del Capitale, la più ascetica). Traffica con moda e affini, la pletora dei funzionari culturali, secondo la lezione perniciosa dell’entertainment business del Guggenheim (ma allora, se si tratta di immensi showroom di merci e nient’altro che merci, sia pure estetiche, perché mai lo Stato o le altre istituzioni dovrebbero contribuire anche con un solo euro?). Ad Abu Dhabi, gli emiri insieme alla rubinetteria d’oro si concedono naturalmente un Guggenheim – questi Diseneyland (ma quanto meno amabili) del nostro tempo – e addirittura un Louvre, nonostante le proteste dell’illustre storico francese contro il «simonismo» dei funzionari, un Louvre fatto di prestiti, di quadri sempre imballati e imbarcati, trionfo del provvisorio, che circolano come ogni merce che si rispetti, girano come i mulini di Novalis, vieppiù estranei alla cultura del nuovo pubblico, che li accoglie solo come griffe di una misteriosa, un po’ noiosa quanto lucrosissima azienda di creativi: l’arte. C’è già chi si è dato esplicitamente alla prostituzione: l’Ermitage di San Pietroburgo, diseredato dal regime postcomunista, per pagare gli impiegati, mette sulla strada le sue opere, le affitta a mezzo mondo, si svende in particolare ai potenti di Los Angeles. Un giorno forse sarà Las Vegas, tra un casinò e un Caesars Palace per incontri mondiali di boxe a rappresentare il luogo di arrivo delle vecchie tele, tirate a lucido dai lenocini dei restauratori (anche se per adesso un simile tentativo del Guggenheim è fallito). Ha ragione Jean Clair, se «le divertissement est la satisfaction rapide d’un désir immédiat», la visita attuale ai musei, lo sguardo fulmineo, il bigotto passar davanti a quello che si crede riconoscere, «la ghiottoneria oscena dello sguardo», sarà il preferito dei divertimenti di massa, anzi il principale divertimento pornografico. Antonio Paolucci, appena salito alla carica di direttore dei Musei Vaticani, mostrava subito il suo stupore: si era accorto che le truppe dei visitatori, guidate dalle urlanti guide, Erinni novelle (torce e fruste sembrano infatti agitare nelle mani, e forse puniscono con tali visite la tracotanza moderna degli umani), accorrevano da Michelangelo, saltando, anzi ignorando quelle divine Stanze raffaellesche che furono la meta prediletta di tutti i viaggi in Italia che contano. «Quale uomo di scienza ammetterebbe all’Istituto Pasteur […] tanti profani nei suoi laboratori?», si chiede Clair, e perché allora si propaganda l’invasione delle masse nelle sale dei musei? Nel migliore dei casi, questi pubblici «amano quello che non sanno neppure guadare». Dall’altra parte, il museo appare impotente a far comprendere al suo pubblico il senso di quel che contiene.

Per carità, non si immiserisca la questione buttandola nel sociologico. Clair insegna che la cancellazione del significato originario dell’opera d’arte – prima ancora che per ignoranza, o per la supponenza di chi scarabocchia su queste solenni testimonianze della tradizione con il punteruolo della psicoanalisi o della antropologia – sta nella «reductio ad aestheticam», ossia in quello che sintetizza con «l’arte per l’arte, il gusto di moda, la sensazione, fin nelle sue forme degenerate che sono il sensazionale, lo choc, la sorpresa, per finire con l’immondo». Ecco allora il museo diventare lo spazio dell’accidia. Come sottrarsi a questa estetizzazione universale, alla feticizzazione della forma? L’apologeta di Duchamp stupisce qui i suoi lettori, pure abituati con lui al ragionare mai scontato. Jean Clair parla della radice religiosa dell’arte. Perciò, per non ridursi all’approccio estetico, è necessaria «una sottomissione […] prima di ogni forma di ammirazione» poiché «l’arte rinvia sempre a una trascendenza, guarda verso un Dio senza speranza di raggiungerlo. Ciascuna figurazione è il crogiolo della contemplazione divina».

Il disagio dei musei ha la sua radice nel problema delle immagini. «Dal momento che non diamo più alcuna importanza al senso, al valore, ai poteri e ai pericoli delle immagini, concediamo all’opera d’arte la licenza di essere insignificante. La pseudo libertà d’espressione dell’arte moderna, l’audacia dei suoi soggetti, l’autonomia presunta delle forme che la compongono non sono altro che i resti di una funzione che non è più distinguibile». L’accidia, uno dei sette vizi capitali nel catechismo cattolico, non riguarda soltanto quei lunapark che chiamiamo musei contemporanei, si diffonde ormai anche nei templi dell’arte passata: «Ma la nostra impunità nei riguardi della fabbricazione di immagini, la paghiamo con il prezzo della nostra impotenza. Le immagini che creiamo, riproduciamo, diffondiamo, esportiamo ed esponiamo sono infinite, senza limite e senza legge, ma è nella misura in cui esse sono diventate ai nostri occhi inoffensive e insignificanti». Se la cosiddetta arte contemporanea è «un idiotismo che esprime i capricci infantili di un individuo che crede di non dovere niente a nessuno», l’unico senso dei capriccetti degli adulti risiede nel gioco economico, nella macchina museale per far soldi. Anche questa è una forma di iconoclastia, che si estende ai quadri del passato: oggetti leggeri, estetiche deboli, appena un fremito per effimere emozioni.