giovedì 5 agosto 2010

Parole sante di un giudice

~ FINALMENTE UN MAGISTRATO CHE NON SI LASCIA
INTIMIDIRE DALLO SQUADRISMO ESTETICO ~
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Avrà pure la patente di «artista», concessa dalla cricca dei critici, ma già solo il fatto che il graffitaro modifichi la fisionomia estetica (bella o brutta che sia) legittimamente scelta dal proprietario di quella superficie, commette il reato di imbrattamento. I giornali riportano con stupore la motivazione di una sentenza che mette al bando anche i graffiti che si vogliono «artistici», rovesciando l’andazzo presente. Per il giudice Guido Piffer – citiamo questo magistrato che non si lascia intimidire dallo squadrismo estetico – la questione non è affatto se i graffiti possano essere o meno «arte», e se l’imbrattatore denunciato possa o no trarre la propria legittimazione artistica dall’aver esposto delle sue opere al Palazzo Reale di Milano: il reato non si può misurare su una pretesa «natura artistica dell’opera», perché una tale categoria è «troppo legata all’indefinibile coscienza sociale di un certo momento storico». Del resto, il fatto che Marinetti manifestasse per Milano con la pistola in pugno, in una azione futurista, non dovrebbe autorizzare ogni rapinatore a richiamarsi all’estetica per agire armato. Ciò che invece è rilevante sul reato di imbrattamento (chiarito dalla Cassazione nel 1989 come lo «sporcare l’aspetto dell’estetica o la nettezza del bene senza che il bene nulla abbia perduto della sua funzionalità»), per il nostro giudice è piuttosto «la tipologia della cosa su cui ricade la condotta» di chi fa gli scarabocchi indelebili: «la fisionomia estetica e la nettezza attribuite al bene da chi ne ha legittimamente la disponibilità, per quanto magari opinabili come del resto opinabile è lo stesso valore estetico dei graffiti realizzati».
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Se dunque qualcuno realizza un disegno («magari da taluno apprezzato») sulla facciata di un palazzo appena rinnovata dai proprietari «secondo i criteri estetici che più aggradano loro, non potrà negarsi che la facciata è stata ‘deturpata’ e ‘imbrattata’ in quanto ne è stata alterata la forma estetica e la nettezza legittimamente scelte per quel bene dai suoi proprietari». Sostenere (come fa la difesa dell’imbrattatore) che il ‘graffito artistico’ possa costituire imbrattamento soltanto se realizzato «su opere di interesse storico-artistico o su monumenti», per il giudice è una contraddizione viziata da uno speculare «criterio assai vago ed estensivo»; e si risolve in «una arbitrarietà che rischia di avallare forme di indebita prevaricazione ai danni di chi non ha prestato il proprio consenso alla modifica della forma estetica e alla compromissione della nettezza del bene legittimamente scelta». Tutto l’opposto della «Repubblica» che canta le lodi degli inguacchiatori quando intervengono nei quartieri popolari e sulle case private mentre si indigna se qualcuno osa disegnare sul nuovo ponte di Venezia o sul garage di Meier all’Augusteo.
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Bastava leggere i commenti online sui giornali a simile sentenza per capire da che parte stia il buonsenso. I più invocavano i «lavori forzati» per chi insudicia: naturalmente, semplici lavori di ripulitura dei muri. Oppure si invitavano gli amici degli writer a farsi ornare le loro villette capalbiesi. Con l’autorizzazione scritta, onde non truffare quei poveri ragazzotti illusi sulla loro talentuosità.
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In ogni caso, gli argomenti portati in tribunale somigliano a chiacchiere di adolescenti, rivelano la miseria del dibattito estetico contemporaneo. Per fortuna che il giudice controcorrente ha sottratto per una volta la legge alle mode.