giovedì 23 giugno 2011

Blowin' in the Wind

~ E I CERVELLI ELETTRONICI DI PIO XII ~

Eolo è invocatissimo in questi giorni. Auree brezze si vantano a sinistra, Radiotre trasmette Blowin’ in the Wind come fosse un inno di quel che soffia sulla penisola. Davvero la risposta alle questioni politiche del terzo millennio è nella canzone a modo suo isaiaca di Dylan?

Folle ideologicamente legate alla maggioranza e folle ideologicamente legate all’opposizione che votano compatte su strampalati quesiti, assai tecnici e incomprensibili a gran parte dell’elettorato, e per lo più con un certo entusiasmo, quasi si trattasse di tifoseria calcistica, con prevalenza nelle avanguardie, pare, di donne e giovani che vogliono districarsi nella politica energetica e nel diritto costituzionale. C’è «una convinzione quasi teologica» (De Rita) che l’acqua non debba essere sporcata da presenze di privati (pubblica era e rimane, checché ne abbiano detto i propagandisti), adesso però gli acquedotti funzioneranno peggio di prima ma i votanti appartengono magari a quelle turbe che si caricano delle casse di acqua minerale, che bevono liquidi conservati in plastica, trasportati sotto il sole nei camion e abbandonati in depositi per lunghi periodi, gente che paga profumatamente per l’acqua in scatola. Risultati bulgari, come si diceva una volta, a favore delle municipalizzate spesso mafiosette, che assetano tanti paesi così come a Roma non riescono a far muovere civilmente gli autobus. Ma non c’era stata la voga liberale? Già passata? La rosa dei venti è impazzita.

Fa paura vedere l’unanimità su certi punti. Non è lo stesso delle maggioranze estese a favore di un partito o di un leader, là è il gioco democratico della fiducia a una persona: credi nel suo sorriso e la deleghi quale tua rappresentante. Nei referendum invece si tratta di ammucchiarsi senza alcuna discriminazione su questioni delicate che pretenderebbero conoscenze specifiche e tanti distinguo.

Rileggendo Breza, un personaggio che i nostri quattro lettori hanno sentito citare molte volte, si trova qualche accenno ai pensieri ‘politici’ di papa Pio XII, che spiegano forse la direzione del vento attuale. Con un tono leggero, lo scrittore polacco riferisce delle riflessioni del coltissimo pontefice, almeno nella forma indiretta e sussurrata per i corridoi del Vaticano dei Cinquanta, quando c’era chi diceva che l’America aveva preso Cristo senza la croce e la Russia la croce senza Cristo. «Se non ci fosse il comunismo, la spina principale, il problema numero uno sarebbe l’America e l’americanizzazione spirituale del mondo. Il papa non ne parla, non la nomina mai chiaramente. Definisce la nostra epoca come l’epoca della “seconda rivoluzione tecnica”. Tale rivoluzione fa sì, questo più o meno il suo pensiero, che ormai ci appaiano vicini gli orizzonti di un’era in cui non solo la natura del mondo non avrà più segreti, ma non ne avrà più neanche quella dell’uomo, preso sia individualmente che nelle sue connessioni sociali. I gabinetti medici e le cliniche ristabiliranno l’equilibrio morale; i problemi sociali man mano si presenteranno verranno risolti in un baleno dai cervelli elettronici; non ci sarà più posto per le passioni, per gli impulsi, per l’irrazionale. […] Più piano! Più piano! Lasciate che l’uomo riprenda fiato! […] Coloro che accusano la Chiesa di tradizionalismo, prosegue Pio XII, non capiscono che oggi al mondo non c’è niente di più umano della tradizione. […] La tradizione, sempre a detta di Pio XII, non solo ha un valore terapeutico per la piaga della vita moderna, e cioè la rapida e incessante trasformazione del mondo sotto la spinta delle illimitate possibilità tecniche, ma dovrebbe anche venir applicata preventivamente dovunque il progresso non sia ancora arrivato…» (Il portone di bronzo, Feltrinelli, pp. 111-112).

Quel futuro lontanissimo è arrivato da un po’. Ai tempi delle previsioni pacelliane ci si chiedeva se avrebbe vinto il comunismo o il capitalismo, in pochi pensavano ai cervelli elettronici, troppo affamati per occuparsi della piaga del moderno, troppo devoti al progresso per ripescare la terapia della tradizione. Intanto la questione sociale è proprio scomparsa. Nessuno la agita più per i nostri connazionali. I diseredati son soltanto gli immigrati. La minoranza operaia di un tempo invece si è così assottigliata che non ha più quella forza di ricatto (il rapporto di forza) che secondo Marx permetteva una soluzione scientifica del problema; gli scioperi sono avvertiti soltanto dai più poveri che ne diventano le uniche vittime. Al massimo, i comici concedono una frase commiserevole: «siete la parte migliore del paese», detta dai comici è una battuta per far ridere, come il pietoso «si è giovani dentro» che vuole consolare scioccamente i vecchi. Il resto del Paese se la spassa con le opinioni. La sinistra e la destra si lasciano conquistare dalla sirena dei desideri, dal rispetto dei cosiddetti diritti umani, dalle mode ‘morali’, ieri libertine oggi puritane, sempre capricciose, libere scelte senza ragione, mai guidate da alcun magistero eccetto quello esercitato dagli opinionisti; giusto oggi un oncologo di fama offre responsi ‘scientifici’ sulla purezza dell’amore omosessuale. Si soffre dunque di progresso, «le illimitate possibilità tecniche» sradicano le nostre abitudini e producono disagio. Gli espiantati non hanno un partito ma opinioni che si coagulano in movimenti effimeri, nella rete, nella vita civile, stavolta addirittura nelle urne.

Tutta la predicazione sociale post-conciliare perciò appare inutile, come le chiese costruite sul modello della fabbrica, che nel frattempo è diventata un residuato. Avendo dimenticato la predicazione della salvezza - la promessa della resurrezione dei morti - e la liturgia che specchia il Cielo, i preti che vogliono restare à la page (o a quella che un tempo sembrava la novità estrema) finiscono nelle chiacchiere ‘protestanti’ sulle questioni morali ma senza alcun prestigio nel dibattito dei laici. Egemonizzati dal gruppo L’Espresso, non sanno proporre neppure in questo campo la soluzione evangelica. Si fidino allora di chi ha anticipato i tempi. La tradizione è una buona ricetta nell’èra dell’informatica. Adesso che il comunismo appartiene al passato è il momento di concentrarci sull’«americanizzazione spirituale del mondo»: la questione americana è la questione ‘protestante’.

mercoledì 15 giugno 2011

Le tre Dame

~ LA MODA, LA MORTE E L’ARTE ~

Massimo scandalo quando il responsabile del Padiglione italiano alla Biennale di Venezia, che da tempo non si scandalizza più di niente, ha denunciato, anche su indicazione di Marc Fumaroli, l’osceno connubio tra arte e moda. I potenti della fashion si son subito mobilitati rilasciando ridicoli patentini di eleganza: quando mai i sarti si permisero di giudicare il buon gusto dei loro clienti? Forse in ciacole molto private, pettegolezzi per alleviare il lavoro, ma la Biennale somiglia ai Saturnali, gli addetti all’abbigliamento si sentono artisti e i critici che dovrebbero essere uomini liberi si mettono al servizio dei servi. Resta il fatto che quella denuncia somiglia alla fiaba del re nudo (non a caso il racconto di Andersen è intitolato I vestiti nuovi dell’imperatore e parla di sarti imbroglioni e di cortigiani complici), la radicale differenza tra moda e arte essendo comprensibile anche ai bambini. La prima infatti, nonostante scintilli e motteggi, ha un fondo sinistro: Madama Moda, Madama Morte, dice Leopardi mettendole in consonanza. La seconda dovrebbe vincere il tempo, sottrarci al finito, risultare una metafora della salvezza eterna. Collocate insieme, somigliano alle incisioni seicentesche in cui uno scheletro pone le sue mani ossee nelle carni di una florida donna nuda.

lunedì 13 giugno 2011

I fiori del bene

~ PRIMA DI DIRE «SORELLA ACQUA»
E GIOCARE A FARE I FRANCESCANI IN POLITICA ~

Dopo che l’agitarsi di preti e laici intorno a «sora acqua» ha fatto da apripista alla vittoria di una fazione politica che con l’acqua francescana ha davvero poco a che vedere, è meglio rammentarsi della figura di san Francesco come la raccontano i suoi discepoli, liberandoci dai cliché ridicoli che riducono l’alter ego di Cristo a un fraticello pacifista e sinistrorso. Insomma, non tirate per il saio Francesco dalla vostra parte politica. Ascoltate i testimoni, gli agiografi incantati dei Fioretti.

«In prima è da considerare che ’l glorioso messere santo Francesco in tutti gli atti della vita sua fu conforme a Cristo benedetto: ché come Cristo nel principio della sua predicazione elesse dodici Apostoli a dispregiare ogni cosa mondana, a seguitare lui in povertà e nell’altre virtù; così santo Francesco elesse dal principio del fondamento dell’Ordine dodici compagni possessori dell’altissima povertà. E come un de’ dodici Apostoli, il quale si chiamò Iuda Scariotto, apostatò dello apostolato, tradendo Cristo, e impiccossi se medesimo per la gola: così uno de’ dodici compagni di santo Francesco, ch’ebbe nome frate Giovanni dalla Cappella, apostatò e finalmente s’impiccò se medesimo per la gola. E questo agli eletti è grande esempio e materia di umiltà e di timore, considerando che nessuno è certo perseverare infino alla fine nella grazia di Dio. E come que’ santi Apostoli furono a tutto il mondo maravigliosi di santità e d’umiltà, e pieni dello Spirito Santo; così que’ santi compagni di santo Francesco furono uomini di tanta santità, che dal tempo degli Apostoli in qua il mondo non ebbe così maravigliosi e santi uomini». Fedelissimo nell’imitazione del Crocifisso, con un Giuda impiccato tra i suoi, non si sente qui l’aria melliflua del francescanesimo di maniera.

Aveva donato tutte le sue ricchezze e quelle dei suoi amici, abbandonando anche la propria croce per seguire quella di Cristo. Fece molta penitenza, ed eccessiva: «frate Bernardo disse: ‘Or dite, padre quello che voi volete ch’io faccia’. Allora disse santo Francesco: ‘Io ti comando per santa ubbidienza che, per punire la mia prosunzione e l’ardire del mio cuore, ora ch’io mi gitterò in terra supino, mi ponga l’uno piede in sulla gola e l’altro in sulla bocca, e così mi passi tre volte e dall’uno lato all’altro, dicendomi vergogna e vitupero, e specialmente mi di’: ‘Giaci, villano figliuolo di Pietro Bernardoni, onde ti viene tanta superbia, che se’ vilissima creatura’».

Un tale uomo non credeva che il senso della sua missione fosse nell’apparire santi e perbene alla pubblica opinione («Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia»), né tantomeno che il senso della vita fosse nella conoscenza e nella scienza: «O frate Lione, se ’l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». O anche: «O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». Spiegando quindi dove trovare la chiave della felicità: «‘Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ’l portinaio verrà adirato e dirà: ‘Chi siete voi?’ e noi diremo: ‘Noi siamo due de’ vostri frati’; e colui dirà: ‘Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via’; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: ‘Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete’; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: ‘Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni’; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia». Solo tipi del genere possono parlare di «sorella acqua» senza apparire ipocriti e ridicoli. Se uno dice «frate Sole» non lo si confonda con un ecologista, ci si ricordi che più in là dice anche «sorella morte corporale», è un santo cristiano che brama il Cielo non un politico.

A chi si inorgoglisce nel condannare i costumi morali degli altri, Francesco ricordava che è compito del cristiano sentirsi il peggiore, non l’eletto, agli occhi divini: «quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra, e perciò ha eletto me per confondere la nobilità e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno». Perciò quando parlava, talvolta, come capitò ai patriarchi biblici, Dio appariva in mezzo a lui e i confratelli, e talvolta i suoi santi celesti.

E trasformò un lupo feroce in una specie di agnellino, le tortore selvatiche in tortore domestiche, un frate indemoniato in un buon cristiano, affrontò anche i «ladroni omicidi» senza vezzeggiarli, anzi rimproverandoli aspramente, convertendone uno in un pio frate: e queste son cose che permettono di parlare onestamente di «sorella acqua». Senza dimenticarsi che per Francesco anche il lupo appariva un fratello piuttosto che un violento minaccioso.

Ma non era un frate «dialogante» con le altre religioni, semplicemente un annunciatore del Vangelo. Si recò con dodici confratelli dal «Sultano di Babilonia» (il nipote del Saladino), nelle terre dei saraceni, «ove si guardavano i passi da certi sì crudeli uomini, che nessuno de’ cristiani, che vi passasse, potea iscampare che non fosse morto: e come piacque a Dio non furono morti, ma presi, battuti e legati furono e menati dinanzi al Soldano. Ed essendo dinanzi a lui santo Francesco, ammaestrato dallo Spirito Santo predicò sì divinamente della fede di Cristo, che eziandio per essa fede egli voleano entrare nel fuoco». Certo, non offriva le chiese per la preghiera musulmana.

Non trescava neppure con l’eresia catara, non vedeva ossessivamente il mondo diviso tra bene e male, ammirava anzi la meraviglia del creato e rispettava la gerarchia ecclesiastica, anche quando gli uomini che la incarnavano apparivano corrotti: di fronte a un prete peccatore si limitò a baciargli le mani che consacravano l’ostia. A differenza dei catari, mangiava carne e uova, rispettava tutte le creature senza confondere gli animali con l’uomo, posto da Dio sopra l’intero universo.

In politica si può ricorrere a una simile figura? Non si tratta forse di un uso strumentale, e un po’ ignobile, di un santo irraggiungibile per fini assai vili? Si penta dunque chi giubila stasera in nome di Francesco per una vittoria di Pirro e terribilmente mondana.

sabato 11 giugno 2011

Il curato di madame Bovary

~ UN PRETE PROGRESSISTA MESSO IN SCENA DA FLAUBERT ~

Per ricordarci che lo scontro tra una modernità barbarica e il cattolicesimo non risale al Novecento e che i tentativi talvolta maldestri e perniciosi degli ecclesiastici per convertire questi nuovi barbari vengono da più lontano dell’ultimo concilio, leggiamo le parole di Flaubert in una lettera alla sua amante Louise Colet. L’autore di Madame Bovary ritrae un prete confessore pieno di zelo sociale ma poco sensibile alle malattie dell’anima. Responsabile indiretto dello smarrimento progressivo della povera protagonista del romanzo, confusa dalla «pornografia del sentimentalismo» (come avrebbe potuto dire la scrittrice cattolica Flannery O’Connor).

«Finalmente comincio a vederci un po’ chiaro nel mio dannato dialogo col curato… Voglio esprimere questa situazione: la mia donnina, in un acceso di religiosità, va in chiesa, trova sulla porta il curato, il quale in un dialogo (senza un soggetto determinato) si mostra talmente stupido, piatto, inetto, taccagno, che lei se ne torna disgustata, indevota; e il mio curato è un bravissimo uomo, anzi eccellente, ma pensa soltanto al fisico (alle sofferenze dei poveri, alla mancanza di pane o di legna), e non indovina i vacillamenti morali, le vaghe aspirazioni mistiche; è castissimo e osserva tutti i suoi doveri. La scena deve occupare sei o sette pagine al massimo e senza una riflessione né un’analisi (tutto in dialogo diretto)» (Lettera dell’aprile 1853, in Correspondance, Conard, pp.166-167).

Anche «senza una riflessione» e senza commenti, le poche righe citate dovrebbero esser d’ammaestramento a quei preti, bravissimi uomini anzi eccellenti, che in qualche chiesa hanno celebrato in questi giorni il sacrificio della messa su uno straccio che penzolava verso i fedeli con la scritta cubitale che ingiungeva di votare «quattro sì ai referendum». In fondo il buon curato tendeva a farsi simile al farmacista Homais, la quintessenza del ridicolo progressista votato a tutti i luoghi comuni. A questo punto, «Madame Bovary siam noi», fedeli che ce ne torniamo dalla chiesa indevoti.
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domenica 5 giugno 2011

Roma senza papa

~ I PROFETI DI CINECITTÀ «SUPER HANC PETRAM» ~

«Silete theologi» che dibattete sugli squarci più o meno catastrofici introdotti dal Vaticano II, obbedite all’intimazione di Alberico Gentili, disertate il forum animato da Sandro Magister, raccoglietevi per ascoltare le verità dei cinematografari che profetizzano con una certa tracotanza sulla Chiesa di domani. «A San Pietro, a San Pietro!», risuonava ancora onesta la parola d’ordine che concludeva Lo sceicco bianco, «dal papa, dal papa!» era l’invito felliniano che riconciliava nell’abbraccio del Colonnato le coppie e le famiglie. Nella stessa privilegiata location, due film recenti, uno con la semplicioneria americana, Angeli e demoni, e uno italiano, romano, ideato e girato nei quartieri che circondano il Vaticano, Habemus papam, sembrano pronunciare pur in trame assai diverse un medesimo oracolo. L’americano riecheggiando i luoghi comuni dominanti sulla Chiesa e le inesattezze storiche degli anticlericali in un thriller strampalato, dando corpo sul set unico alle fantasticherie paranoiche; il ‘romano’ narrando di una Santa Sede scettica e scanzonata, secondo l’immaginario di Fellini, ancora lui, quando scambiava i cardinali eminentissimi con le comparse argutissime, e ricorrendo anche al pittoresco di Mario Giacomelli. Ma tutti e due i film sono incatenati a quel balcone, turbati dall’ora cruciale della sede vacante, fantasticano intorno al vuoto che si apre con la morte del sovrano, fanno rivivere la paura dei sudditi papalini quando il cardinal camerlengo rompeva l’anello piscatorio e annunciava che il trono di Pietro era senza titolare mentre negli appartamenti apostolici si scatenavano i saccheggi. Roma senza più papa fu l’angoscia di Francesco Petrarca, di Caterina da Siena, di Cola di Rienzo.

Il film sull’eletto che non osa accettare fino in fondo l’investitura divina ricorderà forse il romanzo di Guido Morselli, Roma senza papa del 1966, con un pontefice ombroso e silente, auto-esiliatosi a Zagarolo. Fantascienza vaticanista che provava a immaginare, nel fine secolo post-conciliare, ogni violazione delle forme della Catholica. L’Urbe «protestantizzata», i «reverendi con signora», i reverendi che figliano, i «padri francesi che vogliono l’abolizione delle ‘residue discriminazioni tra buddhismo e cristianesimo’» e i vecchi che non leggono più l’«Osservatore Romano» ritenendolo un giornale troppo scandalosamente neofilo; eppure la messa si dice ancora in latino. Altro che la paura di ricoprire il ruolo di Vicario di Dio, il tentennamento di fronte al peso di sciogliere quaggiù quello che automaticamente dischiuderà le porte del Cielo - quasi virtuosa una simile umiltà benché eccessivamente pavida, umana, nella tradizione aperta da Pietro che rinnegava Gesù per vigliaccheria; nel suo romanzo Morselli annunciava ben più tristi stagioni ecclesiastiche, quando il cattolicesimo sarebbe diventato un soufflé sotto i colpi del caos teologico, nell’anarchia delle sètte. E già si incontravano gli orrori post-conciliari, la musica sacra ridotta a trivialità pop, la temerarietà di benedire «l’Anticristo psicoanalitico», la contaminatio con l’evoluzionismo, la teologia anti-missionaria che si rammarica che i bantù e i bashuana non abbiano «convertito gli europei invece di lasciarsi convertire», auspicando «una bilateralità di apostolato». Con qualche decennio di anticipo, Morselli scrive che «il cristianesimo è pronto a consacrare unioni stabili fra i sessi di qualunque segno». Intanto «la Chiesa sta ripudiando la sua romanità fastosa, e festosa, persino a Roma. Vedremo se ci riuscirà; città e razza qui sono felicemente refrattarie […] La Chiesa è in cerca di una austerità […] Dichiara guerra al visibile. Al senso. Niente Tobriand, niente amore pagano. (Il matrimonio ecclesiastico è una sconfitta della carnalità. Non una sua vittoria di sicuro)».

Il cinema cerca di surgelare il flusso televisivo illudendosi di possedere in tal modo un piccolo privilegio artistico. Ricorre perciò all’onnipotenza dell’io narrante, agli stratosferici investimenti finanziari, all’eccesso temporale (nella lentezza e nella celerità), ai divi globali. Così facendo resta più attaccato all’apparecchio domestico, fedele nell’enfasi, nella amplificazione delle icone del più piccolo schermo. Ecco allora i due film in questione rilanciare quello che l’umanità ha visto per giorni incollata al televisore, durante i funerali del beato Giovanni Paolo Magno, nel 2005, e durante il conclave che ha eletto il timido Benedetto, eroico nella battaglia dell’ortodossia, incerto nei rapporti con le folle. E ci ricamano sopra, sfruttando quelle immagini fisse nella memoria, utilizzando il carisma della scena cattolica. Angeli e demoni come Habemus papam mettono bocca nelle cose religiose e ripetono tiritere da gazzettieri: la Chiesa deve accettare la scienza, la Chiesa deve modernizzarsi, la Chiesa deve aprirsi, come ripete il confuso Michel Piccoli interprete del papa codardo. Però i registi si lasciano incantare proprio dalla tradizione, dai rituali antichi, dalle procedure misteriose, dalle tende rosse che si aprono al mondo, sipario metafisico, dal superbo spettacolo liturgico che mostra urbi et orbi all’umanità colui che rappresenta Dio su questa terra. Insomma, al di là delle intenzioni, al di là degli appelli progressisti affinché la Chiesa bimillenaria non sia più la Chiesa bimillenaria, il cinema prova a sedurre le platee con la potenza delle immagini di piazza San Pietro. D’altronde, Roma senza papa è «una femmina senza marito», leggiamo di nuovo nel romanzo dello scrittore bolognese. «Vène er Duemila – osserva imbronciata una fioraia ambulante, a Trinità dei Monti, – e che ce resta? Er Presidente de la repubblica. Ce serve assai!».