sabato 23 agosto 2008

Idola / Novità

FINO AL SETTECENTO, LE COSE POSITIVE ERANO QUELLE STABILI MENTRE L’INNOVAZIONE RISULTAVA SEMPRE SOSPETTA. IN UNA CONFERENZA A TEL AVIV, RENÉ GIRARD, METTENDO A FUOCO QUESTA PAROLA-CHIAVE, SI CHIEDEVA: «PERCHÉ GLI ARTISTI MODERNI SONO TANTO OSTILI ALL’IMITAZIONE?»

‘Innovare’, dice il Dizionario etimologico, vuol dire «alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove». In questo carattere distruttivo, o che comunque rende instabile i fondamenti del mondo, è evidente l’accezione negativa che la parola novità aveva in una società tradizionale. Con lo sgretolarsi di quell’universo compatto, però, si ebbe una trasmutazione dei significati: sempre più ‘novità’ sarà la parola-chiave, essere originali il primo comandamento, quindi alterare, anzi rovesciare, l’ordine

Nel 1989, René Girard tenne sull’argomento una conferenza a Tel Aviv, «Innovation and Repetition», poi confluita nella raccolta La voix méconnue du réel (in italiano tradotta da Adelphi, 2006, edizione da cui prendiamo le tante citazioni che compongono questo sunto). «’Innovazione’, dal latino innovare, innovatio, aveva in origine il significato di ‘rinnovamento’, ‘ringiovanimento interiore’, più che di novità, che è invece il suo attuale significato». Fino al Settecento, manteneva «connotazioni quasi sempre sfavorevoli», infatti, «le cose positive sono stabili per definizione, e perciò esenti da innovazione, che invece è quasi sempre presentata come pericolosa o sospetta». Come prevedibile, Hobbes la detestava, e altrettanto le erano avverse la Francia del classicismo e la Roma cattolica a caccia di eresie (di innovazioni, appunto). Più sorprendente che anche nella Svizzera di Calvino le cose andassero nello stesso modo. Il riformatore denunciava «il desiderio e la bramosia di innovare, cambiare e sovvertire ogni cosa», criticando in tal modo i peggiori istinti umani. I protestanti infatti, dice giustamente Girard, non vogliono innovare niente bensì restaurare il cristianesimo autentico. E restauratori vogliono essere gli umanisti che criticano i cambiamenti rozzi introdotti dai medioevali e pretendono di tornare all’antico, genuflessi davanti al classico. Montaigne usa con intento denigratorio la parola «nouvelleté». Il conferenziere sottolinea che è il substrato pagano che tiene a freno il cristianesimo che, altrimenti, si sarebbe potuto lasciare andare in tutte le utopie. Come annunciatore di nova e novissima, gli sarebbe bastato davvero poco per volere superare gli antichi, seppellire la tradizione, introdurre la fluidità, presentarsi come eternamente instabile, dunque regredire al caos. Si limitò invece a inventare nel suo senso più alto il moderno. Nonostante la buona novella, infatti, non predicò mai la rottura totale con il passato, il culto del nuovo per il nuovo, dell’originalità a tutti i costi. Anzi, presentava un modello insuperabile e si atteneva a quel modello (Imitatio Christi). Altri invocheranno l’imitazione dei classici, il modello ciceroniano nelle belle lettere, il modello politico in Cesare.

Nei millenni passati, si era convinti – scrive Girard – «che il gusto per l’innovazione caratterizzasse una mente perversa, se non squilibrata». È il trionfo della tecnologia a dare un segno positivo alla novità. Quindi fu la macchina vorace del Capitale a stabilire che l’innovazione era essenziale e perpetua. Innovazione si traduceva immediatamente in profitto. «Non più tardi del XIX secolo, l’innovazione diviene l’idolo che ancor oggi veneriamo […]. Il nuovo culto implicò l’abbattersi sul mondo di un nuovo flagello: la stagnazione».

Qui veniamo alle nostre questioni estetiche, o almeno ai loro riflessi. Durante il XIX secolo e per gran parte di quello seguente, questo nuovo idolo dell’innovazione si impose su tutto, facendosi «sempre più intollerante della tradizione», ne conseguì che anche l’arte della rappresentazione fu marchiata dal fuoco sacro dell’originalità, rifiutando come il male assoluto il concetto e la pratica della imitazione. «Diffondendosi dalla pittura alla musica e alla letteratura, la visione radicale della innovazione innescò gli sconvolgimenti successivi, ai quali diamo il nome di ‘arte moderna’: l’unico risultato degno di un ‘creatore’ è la rottura completa con il passato». Girard cita sornionamente un passo di Radiguet (Le diable au corps): «tutti gli amanti, anche i più mediocri, immaginano di innovare». E se lo pensano gli amanti mediocri, figuriamoci la febbre di chi si è autoinvestito del titolo, un tempo celestiale, di artista, di poeta. «Innovazione compulsiva», la chiama il nostro conferenziere. Fino a giungere a Nietzsche, davanti al quale l'antropologo cattolico non si genuflette come è abitudine da un secolo a questa parte: «Nietzsche è il nostro modello supremo del ripudio di qualunque modello, il venerato guru della rinuncia ai guru».

Eppure l’economia, dopo i proclami ideologici dei secoli scorsi, ha saputo tenere insieme saggiamente innovazione e imitazione. Allora, «perché gli intellettuali e gli artisti moderni sono tanto ostili alla imitazione?». Per orgoglio autodistruttivo – è la risposta – si preferisce negare il modello, reprimere l’impulso mimetico, o trasformarlo in una specie di «controimitazione», in cui si afferma la parodia, mettere fuori corso la saggia abitudine alla imitazione.

Quarant’anni fa un movimento violento tentò di cancellare definitivamente l’umiltà del discepolato, rendendo impossibile la trasmissione culturale, la tradizione. Una autarchia generale si è allora affermata nel mondo, «l’innovazione arrogante» senza altro riconoscimento che quello dei loro complici. Però l’imitazione fece una sua fugace e buffa comparsa in una concezione estetico-reclamistica che si richiamava alla serialità industriale: il pop americano. Un iperrealismo è invece avanzato con il cosiddetto post-moderno: tutto è permesso, non ci sono più modelli ma copie che rimandano ad altre copie, senza più l’originale, come le immagini digitali.

Tutto è creativo, la creatività non si può insegnare, tutti sono artisti. La pedagogia è divenuta «progetto artistico e culturale». «In tutto questo sciocchezzaio – dirà Jean Clair – dove si ritrovano, volgarizzate, inebetite ma oramai imposte le parole d’ordine surrealista, si constata con costernazione che è in nome di una ‘democratizzazione della cultura’ che si chiede all’insegnante di disprezzare l’eredità culturale» o alla istituzione di finanziare la selvaggeria senza oggettivi riscontri…». Non si insegna più a leggere e a scrivere, tanto meno a disegnare, dipingere e scolpire, bensì a giocare con la ‘creatività’.

Solo sapendo che l’imitazione deriva dal rito religioso si può invece ridarle un prestigio che ha goduto nei secoli, la dignitas dell’imitazione, della mimesis. Così come solo all’interno della tradizione si può innovare senza cadere nella egolatria.

Ma quanto sono originali le innovazioni? George Steiner, invecchiando, scrive libretti assennati, dove si può leggere: «in effetti, i poeti hanno lottato per creare nuovi linguaggi, come nel Dadà e in certi esperimenti futuristici. I prodotti si sono rivelati banalità più o meno comprensibili» (Ten (Possible) Reasons for the Sadness of Tonght, in italiano da Garzanti, 2007).