martedì 1 luglio 2008

La distruzione simbolica di Roma. In un libro

Sfogliando il volume L’invenzione del quadro del rumeno Victor Stoichita, pur devoto all’arte del periodo aureo, viene da pensare che l’accumulo di dettagli davvero marginali, senza mai una zampata intelligente, un’osservazione abbagliante, stia nei libri solo per consolare gli stolti dell’oggi e confermarli nelle loro credenze; così se il discorso sull’arte di Velàzquez si costringe nell’estenuante analisi dell’inventio in un bodegone, il saggio colmo di strutturalismi variamente post finisce col significare – senza mai dirlo – che non vi è differenza tra il creatore del Siglo de Oro e un povero concettuale del nostro Siglo de Plàstico. Però anche in un libro vago si incontra un passo giusto, ove si legge: la ‘bellezza’ dell’anti-immagine è un paradosso della modernità fondato soltanto sulla Riforma protestante. E tale iconoclastia conduceva direttamente – scrive il Rumeno – alla distruzione simbolica di Roma, la Babilonia infernale, l’immane Prostituta. Ecco, tutte le anti-immagini, tutta la storia dell’anti-arte fino al nostro frastornante presente, sono nel segno dell’avversione a Roma, vogliono annientare con furia lo splendore dell’Alma Città. Se si vuole una prova schiacciante di tale secolare ostilità, basta vedere come il massimo apologeta delle avanguardie artistiche, magari filoneista per esoteriche strategie, l'Adorno cultore straordinario della forma, non trovasse nulla di meritevole in Roma, ostentasse anzi nel Diario la più completa indifferenza alla sua beltà. Si dovrebbe reagire a simili oltraggi - nessun Vangelo obbliga a porgere l'altra guancia agli schiaffi estetici - impedendo che questo antichissimo spazio pagano sia eccessivamente invaso dagli eventi della post-modernità o della modernità post, già agonizzante.

Viene in mente un grande e onesto avversario, quel Friedrich Schiller che, protestante e diffidentissimo verso gli italiani, scrisse però nella Maria Stuarda queste battute troppo dimenticate dal mondo latino:
«Avevo vent’anni, regina, ed ero stato educato nella rigida osservanza del dovere, ed avevo assorbito col latte della nutrice un odio senza limiti per il papato, quando un desiderio impetuoso mi attrasse verso il Continente. Lasciai le umili stanze dove predicano i puritani, abbandonai la patria, e percorsi a volo d’uccello la Francia. Desideravo ardentemente giungere in Italia, di cui avevo sentito tanto parlare. Era l’epoca del Grande Giubileo, le vie erano affollate di pellegrini, le immagini sacre erano cinte di fiori, e si aveva l’impressione che tutta l’umanità avesse iniziato un mistico pellegrinaggio in direzione del Cielo. Io stesso rimasi coinvolto nella folla dei fedeli che mi trascinò fino a Roma. Cosa non provai allora, regina, quando vidi innalzarsi davanti ai miei occhi nel loro fulgore le colonne e gli archi di trionfo, quando la sublime maestà del Colosseo abbagliò il mio sguardo, e il meraviglioso spirito dell’arte mi svelò i suoi incanti e i suoi prodigi! Non conoscevo il potere ammaliatore dell’arte. La Chiesa riformata che mi aveva educato detesta l’allettamento dei sensi e rifiuta le immagini, tributando onore alla nuda parola priva dell’involucro del corpo. Cosa non sentii in seguito, una volta penetrato dentro le chiese, quando dal cielo scese ad avvolgermi l’onda divina della musica, quando una schiera tumultuosa di immagini si staccò veemente e prodiga dai muri e dal soffitto e di fronte ai miei sensi sopraffatti dall’estasi io vidi fremere ed agitarsi ciò che di più sublime e nobile esiste sulla terra! Quando ammirai i simboli e le immagini del Divino, il saluto dell’angelo, la nascita di Nostro Signore, la Madre di Dio, la Trinità scesa in terra, la Trasfigurazione che ardeva del suo stesso fulgore, e il Papa nella sua magnificenza cantare la messa solenne e benedire le folle! Paragonato a questo, cos’è lo splendore dell’oro e delle pietre preziose di cui si addobbano i sovrani della terra? Solo lui è cinto dall’aureola divina. Il Cielo, regno della verità, è la sua dimora, perché quei simboli e quelle visioni non appartengono a questo mondo».

Oggi l’estetica del mentale, del concettuale come ama definirsi, prosegue questa educazione volta a reprimere l’allettamento dei sensi, tributando onore alla nuda parola. Ma nella capitale della cultura dedicata alla parola incarnata, sono anzitutto i sensi a vendicarsi. Inibiti dallo spiritualismo delle varie forme di astrattismo, inibiti comunque dalle estetiche che rifiutano l’aspetto materiale della pittura e la rappresentazione della natura, essi producono isteria, follia, disagio. Anche il sentimentalismo, il tripudio delle emozioni tanto diffuso, è il frutto avvelenato dei conati di spiritualismo artistico.

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