Calendario dell’Avvento 11. Averincev, il puer
Se ne accorsero in pochi, ma nella Russia di Breznev c’era chi insegnava all’università sapientissime interpretazioni dell’universo bizantino e una concezione della storia in cui il cristianesimo aveva un ruolo da protagonista nella nascita della civiltà russa ed europea. «La libertà la portiamo dentro di noi; un buon cervello la realizza in ogni regime», commenterebbe Jünger. E questo ammaestramento veniva impartito negli stessi anni in cui l’Occidente rincorreva perversamente la scolastica marxista per spiegare il mondo. L’anima e lo specchio (Il Mulino), da cui traiamo le pagine di oggi, è una delle poche opere tradotte in italiano di Sergej Sergeevic Averincev (1937-2004), filosofo, storico, critico letterario, poeta; un uomo con i tratti di un bambino entusiasta, testimonia chi lo ha conosciuto. Nato a Mosca poco prima della guerra, attraverso i suoi genitori, specialmente il padre – un professore di zoologia che aveva lavorato all’inizio del secolo a Heidelberg e a Napoli – si sentì legato alla tradizione della vecchia intelligencija russa. Anche nella Russia di Stalin l’ambiente familiare poteva dunque orientare e spezzare le catene della scuola materialista. Laureato in filologia classica, pubblicò nella seconda metà degli anni Sessanta dei saggi su Spengler, Jung, Huizinga, Maritain, temi e toni inimmaginabili nell’ambiente sovietico. Egualmente grande interesse sollevarono le sue lezioni all’Università di Mosca (1969-1971) sull’estetica medievale e sul metodo scolastico. Fece parte del circolo degli amici moscoviti di Michail Bachtin. Appassionato di poesia nelle lingue antiche e moderne, capace egli stesso di recitare versi a memoria per ore intere, pubblicò traduzione in versi della poesia biblica, di inni siriaci e latini, di corali tedeschi dell’età della Riforma, di Hölderlin, Goethe, Claudel. Il suo libro dedicato alla Poetica della letteratura antico-bizantina (che in italiano ha il titolo sopra citato) fu un avvenimento culturale nell’Unione Sovietica degli anni Settanta ma l’Occidente, tutto preso dalle sue mode decadenti, o a rincorrere in chiave umanitaria i ‘dissidenti’, non gli dedicò molta attenzione.
Segnaliamo tra i libri usciti nella nostra lingua: Dieci poeti. Ritratti e destini (con un saggio su Chesterton), Cose attuali e cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea (entrambi pubblicati da La Casa di Matriona), Adamo e il suo costato (Lipa), Atene e Gerusalemme (Donzelli).
Nella chiesa, nella comunità cristiana, ogni uomo è un docile bambino a cui viene insegnato tutto. È questo il concetto sviluppato in una quantità di metafore nel Pedagogo di Clemente Alessandrino. […] Il cristiano, dunque, vede se stesso come un bambino. Ed è importante che anche Cristo, il «pedagogo», si presenti come un bambino – e questo avviene nei racconti evangelici sulla sua nascita, nei canti liturgici che hanno per soggetto il Natale, nelle leggende sulle sue apparizioni a credenti, nei monumenti dell’arte figurativa. Ma questo bambino è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (»Antico dei giorni», Dio è chiamato nel veterotestamentario Libro di Daniele): egli è più vecchio del cielo e della terra. «Giovane bimbo, Dio eterno»: così suona il refrain del kontakion sul Natale composto da Romano il Melode. Ma la più espressiva identificazione misteriosa della giovinezza con la vecchiaia viene formulata da un poeta sconosciuto in uno stico esametrico: «Bimbo, Vegliardo, che gli evi precedi, coevo del Padre».
L’immagine di Cristo bambino con il suggello di una misteriosa e austera saggezza su di un’alta fronte sporgente entra assai presto nell’inconografia bizantina: ne è un esempio l’icona a encausto proveniente dal Sinai, icona che raffigura la Madonna col bambino sul trono circondata da due santi guerrieri e da due angeli, e che uno specialista come K. Vejcman ritiene possibile datare al VI secolo. Se egli ha ragione, l’icona può essere confrontata con il kontakion natalizio di Romano il Melode come un prodotto della stessa epoca. Il bambino al di fuori del tempo e infinitamente vecchio passa nell’iconografia successiva alle lotte iconoclaste, e quindi nella pittura russa antica dove il suo aspetto da vegliardo raggiunge la massima espressività nelle icone dell’Odigitrjia e del Salvatore Emmanuele; la sua enorme fronte è talvolta perfino solcata da grandi rughe.
L’identificazione del bambino con il vecchio è un motivo importante per la letteratura antico-bizantina anche quando essa non raffigura Cristo ma l’uomo «cristonimico». L’ideale è che ogni vecchio sia mite come un bambino, ma anche che ogni bambino sia saggio, serio e zelante come un vecchio. L’infanzia e la vecchiaia si scambiano di posto […]. Da sorgente della vita l’infanzia si trasforma in scopo della vita stessa, raggiunto con sforzi coscienti. L’abate Macario nella sua vecchiaia così obietta alle voci di disapprovazione suscitate dall’infantile «mitezza» del suo rapporto con la gente: «Per dodici anni ho servito il mio Signore perché egli mi facesse questo dono, e ora voi tutti mi consigliate di rinunziarvi». Può sembrare che l’ideale dell’assoluta semplicità sia inevitabilmente legato all’abbandono dell’ideale scolastico di un apprendistato a vita. Tuttavia non è così. Volgendo le spalle alle scienze dell’uomo, alla scuola dell’uomo, l’asceta si concentra su di un’altra scienza, partecipa di un’altra scuola, ad un altro tirocinio. […]
La lingua della letteratura sacra antico-bizantina, come quella dei suoi precursori, a cominciare dal Nuovo Testamento, è marcata da un tratto che davvero si può chiamare «infantile», e fors’anche «puerile», e nello stesso tempo «senile», tutto, insomma, tranne che «virile» […]. Un nietzschiano non potrebbe usare i diminutivi, parlando di ciò che ama e che prende sul serio.
Se ne accorsero in pochi, ma nella Russia di Breznev c’era chi insegnava all’università sapientissime interpretazioni dell’universo bizantino e una concezione della storia in cui il cristianesimo aveva un ruolo da protagonista nella nascita della civiltà russa ed europea. «La libertà la portiamo dentro di noi; un buon cervello la realizza in ogni regime», commenterebbe Jünger. E questo ammaestramento veniva impartito negli stessi anni in cui l’Occidente rincorreva perversamente la scolastica marxista per spiegare il mondo. L’anima e lo specchio (Il Mulino), da cui traiamo le pagine di oggi, è una delle poche opere tradotte in italiano di Sergej Sergeevic Averincev (1937-2004), filosofo, storico, critico letterario, poeta; un uomo con i tratti di un bambino entusiasta, testimonia chi lo ha conosciuto. Nato a Mosca poco prima della guerra, attraverso i suoi genitori, specialmente il padre – un professore di zoologia che aveva lavorato all’inizio del secolo a Heidelberg e a Napoli – si sentì legato alla tradizione della vecchia intelligencija russa. Anche nella Russia di Stalin l’ambiente familiare poteva dunque orientare e spezzare le catene della scuola materialista. Laureato in filologia classica, pubblicò nella seconda metà degli anni Sessanta dei saggi su Spengler, Jung, Huizinga, Maritain, temi e toni inimmaginabili nell’ambiente sovietico. Egualmente grande interesse sollevarono le sue lezioni all’Università di Mosca (1969-1971) sull’estetica medievale e sul metodo scolastico. Fece parte del circolo degli amici moscoviti di Michail Bachtin. Appassionato di poesia nelle lingue antiche e moderne, capace egli stesso di recitare versi a memoria per ore intere, pubblicò traduzione in versi della poesia biblica, di inni siriaci e latini, di corali tedeschi dell’età della Riforma, di Hölderlin, Goethe, Claudel. Il suo libro dedicato alla Poetica della letteratura antico-bizantina (che in italiano ha il titolo sopra citato) fu un avvenimento culturale nell’Unione Sovietica degli anni Settanta ma l’Occidente, tutto preso dalle sue mode decadenti, o a rincorrere in chiave umanitaria i ‘dissidenti’, non gli dedicò molta attenzione.
Segnaliamo tra i libri usciti nella nostra lingua: Dieci poeti. Ritratti e destini (con un saggio su Chesterton), Cose attuali e cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea (entrambi pubblicati da La Casa di Matriona), Adamo e il suo costato (Lipa), Atene e Gerusalemme (Donzelli).
Nella chiesa, nella comunità cristiana, ogni uomo è un docile bambino a cui viene insegnato tutto. È questo il concetto sviluppato in una quantità di metafore nel Pedagogo di Clemente Alessandrino. […] Il cristiano, dunque, vede se stesso come un bambino. Ed è importante che anche Cristo, il «pedagogo», si presenti come un bambino – e questo avviene nei racconti evangelici sulla sua nascita, nei canti liturgici che hanno per soggetto il Natale, nelle leggende sulle sue apparizioni a credenti, nei monumenti dell’arte figurativa. Ma questo bambino è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (»Antico dei giorni», Dio è chiamato nel veterotestamentario Libro di Daniele): egli è più vecchio del cielo e della terra. «Giovane bimbo, Dio eterno»: così suona il refrain del kontakion sul Natale composto da Romano il Melode. Ma la più espressiva identificazione misteriosa della giovinezza con la vecchiaia viene formulata da un poeta sconosciuto in uno stico esametrico: «Bimbo, Vegliardo, che gli evi precedi, coevo del Padre».
L’immagine di Cristo bambino con il suggello di una misteriosa e austera saggezza su di un’alta fronte sporgente entra assai presto nell’inconografia bizantina: ne è un esempio l’icona a encausto proveniente dal Sinai, icona che raffigura la Madonna col bambino sul trono circondata da due santi guerrieri e da due angeli, e che uno specialista come K. Vejcman ritiene possibile datare al VI secolo. Se egli ha ragione, l’icona può essere confrontata con il kontakion natalizio di Romano il Melode come un prodotto della stessa epoca. Il bambino al di fuori del tempo e infinitamente vecchio passa nell’iconografia successiva alle lotte iconoclaste, e quindi nella pittura russa antica dove il suo aspetto da vegliardo raggiunge la massima espressività nelle icone dell’Odigitrjia e del Salvatore Emmanuele; la sua enorme fronte è talvolta perfino solcata da grandi rughe.
L’identificazione del bambino con il vecchio è un motivo importante per la letteratura antico-bizantina anche quando essa non raffigura Cristo ma l’uomo «cristonimico». L’ideale è che ogni vecchio sia mite come un bambino, ma anche che ogni bambino sia saggio, serio e zelante come un vecchio. L’infanzia e la vecchiaia si scambiano di posto […]. Da sorgente della vita l’infanzia si trasforma in scopo della vita stessa, raggiunto con sforzi coscienti. L’abate Macario nella sua vecchiaia così obietta alle voci di disapprovazione suscitate dall’infantile «mitezza» del suo rapporto con la gente: «Per dodici anni ho servito il mio Signore perché egli mi facesse questo dono, e ora voi tutti mi consigliate di rinunziarvi». Può sembrare che l’ideale dell’assoluta semplicità sia inevitabilmente legato all’abbandono dell’ideale scolastico di un apprendistato a vita. Tuttavia non è così. Volgendo le spalle alle scienze dell’uomo, alla scuola dell’uomo, l’asceta si concentra su di un’altra scienza, partecipa di un’altra scuola, ad un altro tirocinio. […]
La lingua della letteratura sacra antico-bizantina, come quella dei suoi precursori, a cominciare dal Nuovo Testamento, è marcata da un tratto che davvero si può chiamare «infantile», e fors’anche «puerile», e nello stesso tempo «senile», tutto, insomma, tranne che «virile» […]. Un nietzschiano non potrebbe usare i diminutivi, parlando di ciò che ama e che prende sul serio.
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