Si legge sulla vecchia carta del «Figaro», datato 20 febbraio 1909, nell’inserzione a pagamento del miliardario Filippo Tommaso Marinetti: «Les plus âgés d’entre nous ont trente ans… i più anziani fra noi hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili – Noi lo desideriamo… Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche…». Ma nelle catacombe delle biblioteche, alcuni custodi eccitati dalle antiche parole futuriste organizzano delle feste della putrefazione. Un festival lungo l’intero 2009 è previsto. Per carità, non raccontate a quei burocrati pacifisti, che espongono alle finestre le bandiere con i colori della teosofa Madame Blavatsky, che si emozionano per la pelle del nuovo e messianico presidente americano, che «l’arte non può essere che violenza, crudeltà e ingiustizia». Non sottolineate queste parole nel celebre Manifesto, rovinereste loro le celebrazioni del Futurismo appena inaugurate.
Più onesto degli altri avanguardisti, più divertito, più incredulo, Marinetti metteva un limite alla ricreazione del mondo. I noiosissimi suoi colleghi nelle confraternite neofile, forse perché meno dotati economicamente, cercavano di cavarne una ragione sociale; Mondrian, seguace dello spiritismo, credeva trattarsi addirittura di uno sforzo etico piuttosto che di talento. A distanza di un secolo, enorme lasso di tempo nel velocismo futurista, dei paradossali discepoli la fanno lunga, officiano quel culto dell’istante come fosse una religione eterna, agitano le pagine ingiallite del «Figaro» e le lettere e i disegnini d’occasione come reliquie, trasformano gli studi e le case di quegli allegri agitatori in santuari, portano le scolaresche a venerarle, erudiscono i vecchi sulle provocazioni di cento anni fa quasi fosse materia della scuola dell’obbligo.
Lui declamò in quel remotissimo 1909: «Noi vogliamo liberare l’Italia dai musei che la ricoprono tutta». Oggi l’intera Europa è tutto un museo, questo anzi il suo spettacolo più terrificante, soltanto che il museo, nella versione contemporanea, oltre a mantenere i caratteri tombali e quelli burocratici di catalogazione, datazione, schede, restauri, acquisti, eredità, impiegati con i timbri in mano, signore con due cognomi e poca fantasia in ruoli dirigenti, convegni, tavole rotonde e altri fastidi del genere, manca adesso proprio del contenuto che gli dava senso: l’arte bella, le forme decisive; si limita perciò a conservare dell’effimero in naftalina, dei feti e teschi senza il rispetto che ancora li avvolgeva nei gabinetti anatomici, delle barzellette informi, dei risolini plastici. Un cimitero che sghignazza sottovoce, horror da B-movie. E una piccola folla di becchini, gente che non saprebbe pronunciare una battuta marinettiana ma che si muove felpata come funzionari ministeriali intorno a dementi che escogitano scope ritte dal suolo o rane crocefisse, con codazzo di gazzettieri devoti, a pronunciare tiritere accademiche in tono più grossolano, mafiette poco estetiche insomma nonostante la pretesa artistica, senza neppure lo stile nerboruto e popolaresco di quelle originarie prodotte da Cosa Nostra. Marinetti, al solo pensiero di esserne in parte responsabile, inventerà dal cielo – ne siamo certi – un’arma letale per disintegrare queste pubbliche istituzioni di robivecchi.
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