minima / La tirannia dei valori
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La Newsletter di Exibart, un divulgatore ben fatto del contemporaneo, riporta in un bollettino della crisi economica, datato 19 giugno, queste illuminanti parole: «Se il mito del mercato dell’arte è da sempre la traduzione del valore culturale in valore economico, l’arte contemporanea transitata dalla speculazione alla crisi […] scopre oggi come il suo valore sia pressoché totalmente ascrivibile ad un contesto economico. E che il suo valore culturale sia per lo più illusorio e poco solido, nella migliore delle ipotesi sopravvalutato». Come rappresentare meglio, al di là del gergo da giornalismo economico, questa tirannia dei valori, secondo le parole di Carl Schmitt, che valuta e rende merci anche l’arte e Dio? Ecco finalmente qualcosa di scandaloso, una spiegazione che ridicolizza le chiacchiere tortuose di critici e curators: trattasi di una faccenda economica, un’arte per far soldi, dove l’aspetto culturale è illusorio. È quello che l’«Almanacco» ripete ogni qual volta affronta l’argomento, ma sentirlo confermato dai propugnatori del fenomeno fa un certo effetto.
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Travolti dalla crisi economica, si pongono quindi una domanda sensata, in tutta la sua grossolana concretezza («che cosa ci si ritrova per le mani?»), cui nessun teorico di questi prodotti estetici saprebbe rispondere senza suscitare sonore risate: «Sarà ma tra noti capolavori invenduti e aggiudicazioni a prezzi di due terzi inferiori all’anno scorso alzi la mano chi è in grado di stabilire almeno con approssimazione quanto valga realmente un’opera d’arte contemporanea oggi. Qual è il prezzo giusto? Al di là delle reazioni del mercato alla crisi resta questo il vero nodo da sciogliere, capire cosa ci si ritrova per le mani».
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