~ IL VIAGGIO DI MARC FUMAROLI NEL MONDO DELLE IMMAGINI. ~ SEICENTO PAGINE IN FORMA DI DIARIO DOVE LO STORICO DELLA CULTURA EUROPEA SFIORA CON MAESTRIA TUTTI I TEMI TRATTATI IN QUESTO «ALMANACCO» . ~
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Il Bello e lo Choc - Due eserghi stanno di guardia come fiammeggianti cherubini all’ultimo volume di Marc Fumaroli, uscito in Francia poco prima dell’estate: Paris-New York et retour. Voyage dans les arts et les images (Fayard). Il primo, giocoso, di Giuseppe Verdi, risuona direttamente in italiano: «Torniamo all’antico, sarà un progresso». Il secondo, una lunga citazione di Baudelaire, nume tutelare del libro, chissà quante volte capitata sotto gli occhi, è tratta dalla raccolta dedicata ai Salons, ma così isolata risulta impressionante, forse la migliore diagnosi sull’estetica occidentale dell’ultimo secolo. Ne riprendiamo l’incipit che traccia una distinzione troppo spesso dimenticata: «Il desiderio di stupire e di essere stupito è del tutto legittimo. It is a happiness to wonder, ‘è una felicità essere stupiti’; ma anche, it is a happiness to dream, ‘sognare è una felicità’. La questione è di sapere, se pretendete che vi conferisca il titolo di artista o di amante delle Belle Arti, attraverso quali procedimenti voi vogliate creare o provare lo stupore. Perché il Bello è sempre stupefacente, ma sarebbe assurdo supporre che tutto quel che è stupefacente sia sempre bello. Il nostro pubblico, che è singolarmente impotente a provare la felicità del sogno o dell’ammirazione (segno della piccolezza d’animo), vuole essere sorpreso attraverso dei mezzi estranei all’arte, e i suoi artisti, obbedienti, si conformano al suo gusto; essi vogliono colpirlo, sorprenderlo, stupefarlo con degli stratagemmi indegni, dal momento che lo sanno incapace di estasiarsi davanti alla tattica naturale dell’autentica arte. In questi deplorevoli giorni, nasce una industria nuova, che contribuisce non poco a confermare la stupidità nella sua fede e a distruggere quel che restava di divino nello spirito francese. Questa folla idolatra…» (Salon del 1859).
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Monsieur Fumaroli va in America - La «società immonda» che si specchia nella sua «immagine triviale», il «fanatismo straordinario» dei «nuovi adoratori» delle immagini che solo un ridicolo equivoco può fare credere artistiche, l’effetto sorpresa che di per sé stabilisce l’importanza di un’opera: Baudelaire sembra parlare del nostro mondo. Annuncia che «si produrranno degli abomini», un carnevale di sghignazzamenti, di smorfie, con scrittorelli democratici pronti a commettere sacrilegio parlando con leggerezza di arte e «insultando la divina pittura». Si prepara l’evo della «Fatuità moderna», con i suoi sofismi, mentre «l’industria facendo irruzione nell’arte ne diventa la sua più mortale nemica». Il poeta anticipa anche qualche obiezione: «so bene che molti mi diranno: ‘La malattia che state spiegando è quella degli imbecilli. Quale uomo degno del nome di artista e quale autentico cultore ha mai confuso l’arte con l’industria?’. Lo so, e tuttavia chiedo a mia volta se essi credono al contagio del bene con il male, all’azione delle folle sugli individui, e all’obbedienza inconsapevole, forzata, dell’individuo alla folla». Con simili giudizi di Baudelaire nella valigia, Monsieur Fumaroli parte per l’America e vi scrive una parte del suo Diario 2007-2008, seicento pagine fitte per interrogarsi sugli idoli del «contemporaneo», dove sorprendentemente tocca con maestria pressoché tutti i temi trattati in questo «Almanacco»: dall’‘invenzione’ romana di un’arte cattolica e dalla teologia dell’incarnazione che vi è sottesa alla iconoclastia oggi dominante, passando per la religione dell’arte, la fine di un’arte profana, i laici paladini dello «spirituale nell’arte», gli spiritismi delle avanguardie, la consacrazione di ogni segno, che trova la sua apoteosi nella mostra sul sacro al Pompidou, lo scorso anno, ma anche liturgia e industria estetica, funzione dei musei, pubblicità… Una apologetica dell’arte cattolica, anzitutto, come non capitava di leggere da tempo, da quando cioè teologi e storici dell’arte pur fedeli alla religione di Roma ci hanno abituato a elemosinare briciole di spiritualismo nei balbettii estetici in voga. Ciascun titolo di un anno di «Almanacco Romano» trova almeno un paragrafo nel libro di uno dei maggiori studiosi della cultura europea. Un motivo in più per consigliarlo ai nostri rari lettori.
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Alla fermata dell’autobus - L’affaire del «contemporaneo», dice senza mezzi termini Fumaroli, sostanzia una impresa economica colossale, ultimamente gestita anche da mafiosi cinesi e russi, il cinismo è la sua principale caratteristica, il nascondimento dietro la parola «cultura» la sua arma migliore (allora si parli piuttosto e semplicemente di marketing e entertainment, come del resto, negli ultimi tempi, cominciano a fare anche i suoi avvocati, perdendo i residui pudori). Il Diario di Fumaroli parte dalle sue attese del bus a Parigi, dove i baracchini delle fermate presentano ogni settimana immagini diverse sotto plexiglas, pubblicità aggressiva per frustrare i desideri (i giochi ironici vanno bene casomai per le gallerie), «strategia di intimidazione»: questi sono i micro musei del «contemporaneo» scoperti dal maestro del sapere retorico, i musei diffusi nel nostro quotidiano che i piccoli sociologi del fatto compiuto non avrebbero mai saputo scorgere. La catena di montaggio del divertimento forzato, del libertinaggio di massa senza senso del peccato, passa anche di qui. Basta osservare le foto fosche della réclame più high tech per capire senza tante elucubrazioni le strategie dell’industria del «contemporaneo» che ormai «giocano sul registro del sinistro, del funereo, dello scatologico, del sacro bestemmiato, come su quello della farsa e del giocattolo per adulti». Glamour che nasconde neppure più tanto la faccia dura, ancor più violenta perché ottusa, l’ideologia da crociata: affermare la propria ciarlataneria, senza che alcuno osi metterne in dubbio la legittimità, o finire affondata. Guai perciò a chi pone il bastone tra le ruote, a chi non si piega al ricatto del fato attuale.
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Non c’è arte senza otium - Paul Valéry, che in questo libro accompagna Baudelaire nel suo ruolo di Virgilio per aiutare Marc Fumaroli ad attraversare l’Inferno, scriveva come un’eco dei commenti al Salon del 1859: «La novità, la intensità, la estraneità, in una parola tutti i valori di choc hanno soppiantato la bellezza. L’eccitazione assai brutale è la maîtresse che signoreggia le anime moderne, e le opere non hanno altro scopo attuale che strapparci dallo stato contemplativo, dalla felicità statica per cui un tempo l’immagine era intimamente legata all’idea generale di Bello». Già, lo stato contemplativo, che Fumaroli rintraccia in ogni manifestazione estetica della tradizione, legata a quell’otium coltivato in particolar modo nell’italica penisola, e che torna insistente nel suo Journal, sembra essere finito insieme all’arte nel cono d’ombra. L’urlo, il pugno in faccia, la dissonanza sono tutti mezzi per scuotere l’uomo della folla che corre, irritanti e inutili appaiono invece a chi nelle sue stanze si permette la delectatio. L’arte richiede dolce sciupio di tempo come un’amante esigente, lusso, calma, voluttà insegue ancora Matisse.
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Chi ha inventato il museo «contemporaneo»? - Per capire meglio questa faccenda dello choc Fumaroli vola a New York, tiene i suoi corsi alla Columbia, chiude provvisoriamente le pagine di Baudelaire, cerca ausilio nei libri di Edgard Allan Poe, gira per le strade della metropoli, si lascia andare allo spleen d’oltreoceano, osserva musei e gallerie, fa affiorare come in un contrappunto le immagini dell’arte di vari secoli della storia europea, dall’epoca pompeiana a quella del secolo XVII che ha così splendidamente ricostruito. E finalmente trova un nome che in pochi conoscono nella storia dell’estetica, si tratta dell’inventore del museo «contemporaneo» e della sua «arte»: Phineas Taylor Barnum, il padrone del circo famoso. Ma fama maggiore dovrebbe possedere per il suo American Museum, che istituì nel 1842, a trentadue anni. Ricordano le enciclopedie: «Barnum è entrato nella storia soprattutto per la capacità di attrarre spettatori… grazie ad un’intensa pubblicità murale e giornalistica, diffondendo però un buon numero di notizie fasulle. La sua carriera fu costellata da polemiche e processi, che suscitarono ancora più interesse… che raggiunsero l’apice quando Barnum denunciò se stesso come mistificatore…». Basterebbero tali parole per far sospettare che si stia parlando dell’arte della mistificazione contemporanea e della associata arte di far soldi. Giustamente sospettoso, Fumaroli è andato a vedere gli oggetti esposti in quel museo che richiamò, in venticinque anni, ben trentotto milioni di visitatori, fino all’incendio del 1865 che lo distrusse per sempre (altro che le fiere nostrane ancora iniziatiche). Si potrebbe dire dunque che l’affollatissimo American Museum rappresentava una traduzione democratica della Wunderkammer, però mancavano le meraviglie, c’erano soltanto le curiosità. Per gli americani, le immagini artistiche sapevano troppo di Chiesa cattolica, di monarchia, di aristocratiche dimore, di Europa insomma. Invece di quadri e statue allora, Barnum espose il «mai visto», così chiamava questi incunaboli delle installazioni. Oggetti anfibi, persone umane mostrate come attrazioni, un uomo pelosissimo, anello di congiunzione tra l’animalità e l’umanità, diceva la scritta, una sirena mezza scimmia e mezzo pesce, orsi ballerini, fratelli siamesi, diorami e cosmorami, strumenti scientifici, un circo di mosche, invenzioni varie, un’orchestra dei peggiori musicisti degli States affinché con la loro cacofonia attirassero le folle incuriosite alla cassa. Un museo del bluff, un po’ Disneyland, un po’ circo, molto imbroglio. Più tardi, Duchamp approdato in quella terra di avventurieri, dichiarerà alla televisione americana, per il piacere dello scandalo: «Sì, l’arte moderna è un imbroglio, il valore estetico si trasforma in valore monetario».
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Barnum e Schopenhauer - Barnum inventò un sistema industriale di «showroom del nulla», della sorpresa in sé. Assoldava comitati di esperti che si pronunciavano a favore o contro le sue imprese e faceva circolare tali pronunciamenti, provocando in tal modo dibattiti, sapeva che era proprio il gran parlare ad accrescere l’audience, a produrre l’evento. Il genio del marketing andava dicendo quel che ripetono gli autori d’ogni truffa mediatica colti sul fatto, e cioè che «la gente ama essere imbrogliata», «ama le ciarlatanerie». «Barnumizzazione» significò l’arte di far credere qualunque cosa a ogni pubblico. Quel che è finito nella storia della psicologia con il nome di Effetto Barnum. Ogni individuo – recita il principio che sarà poi messo a punto da Bertram Forer nel Novecento – posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso ritenendolo preciso, senza accorgersi che quel profilo è invece abbastanza vago e generico da adattarsi a un numero molto ampio di persone. L’effetto Barnum/Forer fornirebbe così una parziale spiegazione della grande diffusione di alcune pseudoscienze come l’astrologia e di molti test di personalità; ma il meccanismo messo a punto da Barnum può rivelarsi una ottima spiegazione dei progressi del «contemporaneo» tra i suoi compratori come tra i visitatori delle Biennali. Nel regno della soggettività selvaggia, che si presenta come tale, ogni oggetto è in realtà predisposto perché si adatti al maggior numero di persone. Tornano in mente le osservazioni di Baudelaire citate all’inizio, «la società immonda» che si specchia nelle sue «immagini triviali». Più o meno in quel tempo Arthur Schopenhauer scriveva con forse maggior cinismo dei propagandisti americani, che in fondo esibiscono spesso un certo qual grado di idealismo: «Non c’è alcuna opinione, per quanto assurda, che gli uomini non abbiano esitato a far propria, non appena si è arrivati a convincerli che è universalmente accettata». Nel Diario di Fumaroli torna spesso la parola ‘cinismo’ e il suo autore, benché avvezzo alla crudezza rinascimentale, sembra assai colpito dalla brutalizzazione dell’arte, ricorda con sgomento chi si ostina a dipingere nella nostra epoca ed è per questo cancellato dalla storia dai bodyguard del «contemporaneo», dai discendenti di Barnum. Post-umani, si dice ormai in quegli ambienti, non si capisce bene se perché adepti della dottrina di Foucault o piuttosto eredi teorici degli stermini maoisti.
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Se l’Europa diventa l’America -In fondo, la cultura americana religiosa si nutre di poche immagini e di molto melodramma, di musica emotiva, di danze collettive, di prediche profetiche, di numeri da record, di sentimenti apocalittici. Da quel folclore pescò il signor Barnum. L’arte delle «immagini sante» era bandita dalle chiese protestanti e sempre più sostituita dallo show, dalle personalità carismatiche, dalla réclame cui si ricorreva anche per catturare fedeli. Tali inclinazioni religiose finiranno a modo loro nell’American Museum. Gli spettatori di Barnum come delle immagini pop sono anzitutto americani che ritrovano le loro radici antropologiche. L’aspetto balordo comincia quando in Europa si interrompe la tradizione delle belle arti per coltivare le eccentricità del baraccone. Una violenza che cambia i connotati del nostro mondo. Le cose senza prezzo non esistono più. Ora tutto ha un prezzo preciso nell’emporio popular.
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Rovesciamenti da Saturnali – Solo un provinciale dai gusti esterofili può farsi sostenitore in Europa di quella Contemporary Art inventata in America. «Siete una caricatura, siete ridicoli» dice un interlocutore statunitense di Fumaroli. «Anche se affermiamo il contrario, noi americani sappiamo benissimo la differenza che separa l’highbrow dal lowbrow». La cultura pop, il «contemporary» sono lowbrow, quella europea, la sua arte sono highbrow. «Voi europei vi rovinate imitandoci in quel che abbiamo di grossolano, mentre lasciate deperire quel che ha sempre fatto la vostra superiorità: la raffinatezza». Conclude l’autore: sarebbe impossibile un concerto di Madonna al Metropolitan Opera di New York, perché allora una esposizione di Jeff Koons a Versailles?
Eccesso di zelo europeo - «La valorizzazione del nulla attraverso la chiacchiera» della stampa e dei cataloghi è una industria americana, in Europa dovrebbe sembrare fuori posto, apparire come minimo assai risibile. Dove manca la bellezza, nel deserto americano, «pullulano i concetti e la morale», ma perché importare simili merci in un territorio che passa dai monti alle pianure e dalle pianure al mare a ogni svolta della strada, sempre aprendosi su nuove bellezze?
Duchamp, un equivoco - Secondo il nostro diarista, quando Marcel Duchamp andò a svernare negli Usa si produsse un equivoco. Il suo ozio libertino venne frainteso, in terra americana il taylorismo del sesso restava dentro lo schema dell’ideologia puritana (adesso anche da noi, giornali che quotidianamente riducono la sessualità a consumo coatto si fanno paladini di crociate puritane). Ma sicuramente l’America intuì che dietro i gesti da dandy del francese c’era un enorme potenziale economico. La Borsa aprì un settore che ricalcava quello dello show business, almeno all’inizio dunque una branca dell’industria del divertimento, poi sempre più dai risvolti sinistri. Forse, è il limite di questo Diario, Fumaroli esagera nel considerare tutta la storia moderna come una faccenda francese o di francesi, certo è che le pose distratte di Duchamp cambiarono le sorti dell’avanguardismo internazionale. Man mano, alla ingenua credenza in un Rinascimento americano da parte degli espressionisti astratti, subentrò l’indifferenza efferata del pop. Nasceva lì, complice o meno la noia di Duchamp, il «contemporaneo» senza storia.
La buona sorpresa - Il macabro da Barnum – la morte senza il velo dell’allegoria e della litote, la morgue priva di eros, la «tautologia cadaverica» – è, insieme al cinismo, quello che sembra maggiormente colpire l’autore di questo Diario. Il saggista marsigliese si trova molto a disagio dentro una feroce macelleria. Di nuovo Valéry viene in soccorso, Fumaroli ha scoperto un’altra sua glossa indiretta al discorso di Baudelaire sullo choc: «Non dimentichiamo che una cosa molto bella ci rende muti d’ammirazione. […] Ma questo non va confuso con il mutismo dello stupore, la grande ossessione di molti moderni. Esso non distingue i generi di sorpresa. Uno soltanto si rinnova a ogni sguardo e diventa tanto più indefinibile e sensibile quanto più profondamente si esamina l’opera e ci si familiarizza. Si tratta della buona sorpresa. L’altro invece è semplicemente lo choc, capace di rompere una convenzione o un’abitudine, riducendosi appunto a un urto». Chi scrive al soldo del bluff estetico altro non fa che segnalare quel vile choc, la rottura di una convenzione o di un’abitudine anche visiva. Penoso compito.
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Religione del libro o dell’immagine? - Avevamo scritto il 29 giugno scorso che d’ora in poi avremmo evitato in questo «Almanacco» di occuparci a lungo della fenomenologia del «contemporaneo», onde non lasciarsi mesmerizzare da simili pratiche. Ma Fumaroli partendo dal Barnum delle installazioni ci riconduce alla storia delle immagini e alla cultura cattolica dell’incarnazione che ne produsse le più divine. Al punto che ci si chiede se si possa parlare del cattolicesimo come religione del libro alla pari di fedi ‘auditive’ come l’ebraismo e l’islamismo. A Roma, l’astrattezza del monoteismo ‘platonico’ si fa concreto nell’immagine del Figlio incarnato. Non si abbia paura a dire che l’arte di derivazione cattolica discende direttamente dall’Eucarestia, dall’ostia che racchiude e nasconde corpo e sangue (non a caso la liturgia modernista vuole privilegiare la ‘parola’ nei confronti del mistero eucaristico). Anche il culto delle reliquie – i resti del corpo umano venerati dai cattolici e che provocano imbarazzo nelle altre fedi – discende dalla medesima fede nell’ostia. Nel mistero eucaristico, il divino è «ascoso nei mistici veli», nell’arte le velature trattengono il creato, il mondo redento. Il cristianesimo romano afferma che Dio ha lasciato l’empireo dei cieli ed è sceso in mezzo al vulgus delle parentele di sangue, dell’etnia ebraica, dei corpi umani troppo umani, delle donne e dei bambini che lo hanno frequentato, della giustizia umana che lo ha condannato, del gruppo di discepoli poveri di spirito. Le sue fattezze avranno suscitato già nei contemporanei l’aguzzamento del senso della vista: le folle si accalcavano per vederlo. Ma in tutto ciò i nostri parroci più candidi intravedono una pericolosa idolatria. Il professor Fumaroli invece ci ricorda che gustus è parola del latino tardo, del vocabolario cristiano, per indicare il desiderio di conoscere attraverso i sensi il Salvatore. Ed ora, quattro eretici che trafficano da oltre un secolo con le teorie spiritistiche ci vogliono convincere di un’arte puramente spirituale, o meglio del lugubre «spirituale nell’arte».
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L’arte della incarnazione - «Il Logos vivente di Platone – scrive Fumaroli – si è lasciato vedere e toccare, amare e odiare sotto dei tratti umani. Ci vollero tredici secoli perché questo ossimoro vivente narrato dagli evangelisti, ravvivato dal culto paradossale delle reliquie e delle icone, rievocato dalle visioni, le estasi e le rivelazioni dei santi mistici, rivissuto dal ‘quinto Vangelo’ di Francesco di Assisi, cominciasse a trovare, nella contrarietà dei colti, la sua traduzione visiva nell’arte occidentale». Ecco l’arte della incarnazione, dove non è più disdicevole esaltare l’aspetto fisico dell’umano perché quel corpo è divenuto lo strumento della salvezza cosmica. Gli storici dell’arte ottocenteschi, imbevuti di cultura protestante, riproposero lo scandalo provato a Roma da Lutero e presero a parlare di « ritorno al paganesimo» per la riappropriazione italiana, tra il XII e il XV secolo, della statuaria antica e della «rappresentazione eroica della forma umana». Si trattava davvero di un ritorno alla fede negli dèi? Assolutamente no, piuttosto la mitologia pagana era un linguaggio simbolico, ben spendibile dentro il quadro cristiano, se ne usavano le immagini, cioè le metafore, la grammatica, ecc., per narrare la redenzione del mondo e della carne. Così come per rappresentare la passione di Cristo, gli artisti si interrogarono sul corpo e sui misteri del dolore, andarono a scuola dai chirurghi, sfogliarono attenti i volumi di anatomia, studiarono l’ottica, fissarono nello spazio le ‘finzioni’ prospettiche: volevano «mostrare, in tutta la sua bellezza eroica, il corpo di Cristo vincitore» della morte. Finché alle soglie del moderno, questo «ammirabile compromesso tra scienza ottica e visione simbolica» fu progressivamente condannato, quasi fossero i pittori umanisti i precursori della fotografia. Si ebbe lo strano caso di congreghe di laici che censuravano ogni attacco allo «spirituale nell’arte» e provavano orrore, disgusto morale, per ogni riferimento della pittura alla concretezza del corpo. Oggi sono i cultori dei video arte, o di quel pompierismo attuale che va sotto il nome di iperrealismo, a mostrare maggiore imbarazzo per l’arte ‘fisica’ della tradizione, a proclamarsi iconoclasti pur celebrando la riproduzione fotografica.
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L’eterno ritorno della bellezza - Finalmente qui Fumaroli, con la grande erudizione che possiede nel campo della retorica antica, può liberarci dalle banalità sul Rinascimento molto pagano e poco cristiano. Ora è proprio con l’avvento dell’umanesimo che Roma, autonoma ormai dalle imposizioni bizantine come da quelle romano-imperiali, può mettere a punto la sua arte: il mondo ne sarà sbalordito.
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Lo splendore del vero visibile - Il direttore dei musei pontifici sembrava riprendere queste riflessioni scrivendo qualche giorno fa sul giornale ufficiale della Santa Sede: «Chi, come me, dall’osservatorio privilegiato dei Musei Vaticani considera la storia delle arti sotto il segno della Chiesa di Roma non può non provare sentimenti di stupore e di gratitudine. Gratitudine, naturalmente, per i capolavori di bellezza e di sapienza che il messaggio cristiano ci ha regalato ma anche, e soprattutto, stupore e ammirazione di fronte ai meravigliosi azzardi che, nei secoli, la nostra Chiesa ha saputo giocare. Come quando, per esempio, fra quarto e quinto secolo, ha scelto come sua lingua figurativa l’arte greco-romana, l’ellenismo naturalistico e illusionistico. Azzardo immenso e carico di futuro è stato quello se si pensa che il cristianesimo veniva dall’ebraismo, la più ferocemente aniconica fra le culture del Mediterraneo e che senza quella scelta, il destino dell’arte in Occidente – Michelangelo e Rembrandt, Velasquez e Goya, Monet e Picasso – rischiava di identificarsi con la cifra e col segno, di diventare ‘ieroscrittura’, come nell’islam. Oppure quando – è l’epoca che i manuali chiamano del rinascimento – la Chiesa riconobbe nello splendore del vero visibile, l’epifania dell’Altissimo, l’ombra di Dio sulla terra. Non avremmo avuto, altrimenti, le nuvole di Giovanni Bellini, i riflessi nello specchio di Jan Van Eyck, la Stanza della Segnatura di Raffaello, la Canestra di frutta di Caravaggio, la Zattera di Medusa di Géricault».
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La vista, il senso più cattolico - Walter Benjamin cercò di rendere visibile l’«esperienza accecante» di chi era costretto a vivere nell’«epoca della grande industria». Aveva capito che proprio la vista era la prima ad essere colpita dalla cultura industrializzata. Baudelaire, ancora una volta lui, aveva così tanta familiarità con la cultura cattolica delle immagini da esibire una intransigenza rigorosa verso le raffigurazioni deboli, compromesse con i luoghi comuni del presente. Fumaroli arriva a paragonare l’attenzione per le immagini delle gerarchie cattoliche della Controriforma, dei cardinali Borromeo e Paleotti, con l’inflessibile attività critica dei Baudelaire e degli Huysmans nell’Ottocento, quando i porporati non si prendevano più cura delle opere pittoriche. «Questo cattolico ama troppo l’arte di incarnare l’infinito nel finito per non mostrarsi impietoso nei confronti delle copie servili […]. Il ‘culto’ che pratica per le opere d’arte visuale non si rivolge a qualsiasi immagine. Egli ha uno sguardo d’aquila per distinguere quelle che blandiscono la vista per fare schermo all’anima da quelle che appagano la vista quanto più parlano all’anima. […] La sua iconofilia, come in Chateaubriand, è quella di un cattolico laico per il quale la grande arte è la sola reliquia degna e autentica, insieme alla grande poesia, che abbia lasciato dietro di sé la Chiesa che si allontana». A questo punto Fumaroli avrebbe potuto aggiungere una considerazione di Hofmannsthal che attribuiva alla Chiesa romana l’ultimo e concreto legame con il mondo classico. L’arte e la poesia, secondo il poeta francese, sarebbero le eredi della liturgia e dei grandi inni ecclesiastici. «La poetica e la critica d’arte di Baudelaire non derivano in nulla dall’estetismo e tutto dalla teologia».
I tre moschettieri - Tre moschettieri francesi combattono con scienza, bonomia e buonsenso contro i segni allucinati del «contemporaneo» e la loro comicità nera e involontaria: Alain Besançon, Jean Clair, Marc Fumaroli (schierandoli in ordine alfabetico). Tutti e tre sottolineano la radicale differenza con l’arte della tradizione cui si accostano richiamandosi con grande cognizione di causa alla cultura cattolica, anzi a quella che un tempo si sarebbe chiamata la civiltà cattolica, che almeno da un certo punto in poi coincise con la civiltà delle immagini. Besançon e Fumaroli ne hanno tentato anche una spiegazione teologica. In una pagina di questo Diario appena uscito ci si rifà addirittura all’insegnamento del prof. Ratzinger. Inimmaginabile una cosa del genere negli scritti dei nostri accademici. Loro sono ancora convinti che sia più chic magnificare lo choc.
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Monsieur Fumaroli va in America - La «società immonda» che si specchia nella sua «immagine triviale», il «fanatismo straordinario» dei «nuovi adoratori» delle immagini che solo un ridicolo equivoco può fare credere artistiche, l’effetto sorpresa che di per sé stabilisce l’importanza di un’opera: Baudelaire sembra parlare del nostro mondo. Annuncia che «si produrranno degli abomini», un carnevale di sghignazzamenti, di smorfie, con scrittorelli democratici pronti a commettere sacrilegio parlando con leggerezza di arte e «insultando la divina pittura». Si prepara l’evo della «Fatuità moderna», con i suoi sofismi, mentre «l’industria facendo irruzione nell’arte ne diventa la sua più mortale nemica». Il poeta anticipa anche qualche obiezione: «so bene che molti mi diranno: ‘La malattia che state spiegando è quella degli imbecilli. Quale uomo degno del nome di artista e quale autentico cultore ha mai confuso l’arte con l’industria?’. Lo so, e tuttavia chiedo a mia volta se essi credono al contagio del bene con il male, all’azione delle folle sugli individui, e all’obbedienza inconsapevole, forzata, dell’individuo alla folla». Con simili giudizi di Baudelaire nella valigia, Monsieur Fumaroli parte per l’America e vi scrive una parte del suo Diario 2007-2008, seicento pagine fitte per interrogarsi sugli idoli del «contemporaneo», dove sorprendentemente tocca con maestria pressoché tutti i temi trattati in questo «Almanacco»: dall’‘invenzione’ romana di un’arte cattolica e dalla teologia dell’incarnazione che vi è sottesa alla iconoclastia oggi dominante, passando per la religione dell’arte, la fine di un’arte profana, i laici paladini dello «spirituale nell’arte», gli spiritismi delle avanguardie, la consacrazione di ogni segno, che trova la sua apoteosi nella mostra sul sacro al Pompidou, lo scorso anno, ma anche liturgia e industria estetica, funzione dei musei, pubblicità… Una apologetica dell’arte cattolica, anzitutto, come non capitava di leggere da tempo, da quando cioè teologi e storici dell’arte pur fedeli alla religione di Roma ci hanno abituato a elemosinare briciole di spiritualismo nei balbettii estetici in voga. Ciascun titolo di un anno di «Almanacco Romano» trova almeno un paragrafo nel libro di uno dei maggiori studiosi della cultura europea. Un motivo in più per consigliarlo ai nostri rari lettori.
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Alla fermata dell’autobus - L’affaire del «contemporaneo», dice senza mezzi termini Fumaroli, sostanzia una impresa economica colossale, ultimamente gestita anche da mafiosi cinesi e russi, il cinismo è la sua principale caratteristica, il nascondimento dietro la parola «cultura» la sua arma migliore (allora si parli piuttosto e semplicemente di marketing e entertainment, come del resto, negli ultimi tempi, cominciano a fare anche i suoi avvocati, perdendo i residui pudori). Il Diario di Fumaroli parte dalle sue attese del bus a Parigi, dove i baracchini delle fermate presentano ogni settimana immagini diverse sotto plexiglas, pubblicità aggressiva per frustrare i desideri (i giochi ironici vanno bene casomai per le gallerie), «strategia di intimidazione»: questi sono i micro musei del «contemporaneo» scoperti dal maestro del sapere retorico, i musei diffusi nel nostro quotidiano che i piccoli sociologi del fatto compiuto non avrebbero mai saputo scorgere. La catena di montaggio del divertimento forzato, del libertinaggio di massa senza senso del peccato, passa anche di qui. Basta osservare le foto fosche della réclame più high tech per capire senza tante elucubrazioni le strategie dell’industria del «contemporaneo» che ormai «giocano sul registro del sinistro, del funereo, dello scatologico, del sacro bestemmiato, come su quello della farsa e del giocattolo per adulti». Glamour che nasconde neppure più tanto la faccia dura, ancor più violenta perché ottusa, l’ideologia da crociata: affermare la propria ciarlataneria, senza che alcuno osi metterne in dubbio la legittimità, o finire affondata. Guai perciò a chi pone il bastone tra le ruote, a chi non si piega al ricatto del fato attuale.
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Non c’è arte senza otium - Paul Valéry, che in questo libro accompagna Baudelaire nel suo ruolo di Virgilio per aiutare Marc Fumaroli ad attraversare l’Inferno, scriveva come un’eco dei commenti al Salon del 1859: «La novità, la intensità, la estraneità, in una parola tutti i valori di choc hanno soppiantato la bellezza. L’eccitazione assai brutale è la maîtresse che signoreggia le anime moderne, e le opere non hanno altro scopo attuale che strapparci dallo stato contemplativo, dalla felicità statica per cui un tempo l’immagine era intimamente legata all’idea generale di Bello». Già, lo stato contemplativo, che Fumaroli rintraccia in ogni manifestazione estetica della tradizione, legata a quell’otium coltivato in particolar modo nell’italica penisola, e che torna insistente nel suo Journal, sembra essere finito insieme all’arte nel cono d’ombra. L’urlo, il pugno in faccia, la dissonanza sono tutti mezzi per scuotere l’uomo della folla che corre, irritanti e inutili appaiono invece a chi nelle sue stanze si permette la delectatio. L’arte richiede dolce sciupio di tempo come un’amante esigente, lusso, calma, voluttà insegue ancora Matisse.
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Chi ha inventato il museo «contemporaneo»? - Per capire meglio questa faccenda dello choc Fumaroli vola a New York, tiene i suoi corsi alla Columbia, chiude provvisoriamente le pagine di Baudelaire, cerca ausilio nei libri di Edgard Allan Poe, gira per le strade della metropoli, si lascia andare allo spleen d’oltreoceano, osserva musei e gallerie, fa affiorare come in un contrappunto le immagini dell’arte di vari secoli della storia europea, dall’epoca pompeiana a quella del secolo XVII che ha così splendidamente ricostruito. E finalmente trova un nome che in pochi conoscono nella storia dell’estetica, si tratta dell’inventore del museo «contemporaneo» e della sua «arte»: Phineas Taylor Barnum, il padrone del circo famoso. Ma fama maggiore dovrebbe possedere per il suo American Museum, che istituì nel 1842, a trentadue anni. Ricordano le enciclopedie: «Barnum è entrato nella storia soprattutto per la capacità di attrarre spettatori… grazie ad un’intensa pubblicità murale e giornalistica, diffondendo però un buon numero di notizie fasulle. La sua carriera fu costellata da polemiche e processi, che suscitarono ancora più interesse… che raggiunsero l’apice quando Barnum denunciò se stesso come mistificatore…». Basterebbero tali parole per far sospettare che si stia parlando dell’arte della mistificazione contemporanea e della associata arte di far soldi. Giustamente sospettoso, Fumaroli è andato a vedere gli oggetti esposti in quel museo che richiamò, in venticinque anni, ben trentotto milioni di visitatori, fino all’incendio del 1865 che lo distrusse per sempre (altro che le fiere nostrane ancora iniziatiche). Si potrebbe dire dunque che l’affollatissimo American Museum rappresentava una traduzione democratica della Wunderkammer, però mancavano le meraviglie, c’erano soltanto le curiosità. Per gli americani, le immagini artistiche sapevano troppo di Chiesa cattolica, di monarchia, di aristocratiche dimore, di Europa insomma. Invece di quadri e statue allora, Barnum espose il «mai visto», così chiamava questi incunaboli delle installazioni. Oggetti anfibi, persone umane mostrate come attrazioni, un uomo pelosissimo, anello di congiunzione tra l’animalità e l’umanità, diceva la scritta, una sirena mezza scimmia e mezzo pesce, orsi ballerini, fratelli siamesi, diorami e cosmorami, strumenti scientifici, un circo di mosche, invenzioni varie, un’orchestra dei peggiori musicisti degli States affinché con la loro cacofonia attirassero le folle incuriosite alla cassa. Un museo del bluff, un po’ Disneyland, un po’ circo, molto imbroglio. Più tardi, Duchamp approdato in quella terra di avventurieri, dichiarerà alla televisione americana, per il piacere dello scandalo: «Sì, l’arte moderna è un imbroglio, il valore estetico si trasforma in valore monetario».
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Barnum e Schopenhauer - Barnum inventò un sistema industriale di «showroom del nulla», della sorpresa in sé. Assoldava comitati di esperti che si pronunciavano a favore o contro le sue imprese e faceva circolare tali pronunciamenti, provocando in tal modo dibattiti, sapeva che era proprio il gran parlare ad accrescere l’audience, a produrre l’evento. Il genio del marketing andava dicendo quel che ripetono gli autori d’ogni truffa mediatica colti sul fatto, e cioè che «la gente ama essere imbrogliata», «ama le ciarlatanerie». «Barnumizzazione» significò l’arte di far credere qualunque cosa a ogni pubblico. Quel che è finito nella storia della psicologia con il nome di Effetto Barnum. Ogni individuo – recita il principio che sarà poi messo a punto da Bertram Forer nel Novecento – posto di fronte a un profilo psicologico che crede a lui riferito, tende a immedesimarsi in esso ritenendolo preciso, senza accorgersi che quel profilo è invece abbastanza vago e generico da adattarsi a un numero molto ampio di persone. L’effetto Barnum/Forer fornirebbe così una parziale spiegazione della grande diffusione di alcune pseudoscienze come l’astrologia e di molti test di personalità; ma il meccanismo messo a punto da Barnum può rivelarsi una ottima spiegazione dei progressi del «contemporaneo» tra i suoi compratori come tra i visitatori delle Biennali. Nel regno della soggettività selvaggia, che si presenta come tale, ogni oggetto è in realtà predisposto perché si adatti al maggior numero di persone. Tornano in mente le osservazioni di Baudelaire citate all’inizio, «la società immonda» che si specchia nelle sue «immagini triviali». Più o meno in quel tempo Arthur Schopenhauer scriveva con forse maggior cinismo dei propagandisti americani, che in fondo esibiscono spesso un certo qual grado di idealismo: «Non c’è alcuna opinione, per quanto assurda, che gli uomini non abbiano esitato a far propria, non appena si è arrivati a convincerli che è universalmente accettata». Nel Diario di Fumaroli torna spesso la parola ‘cinismo’ e il suo autore, benché avvezzo alla crudezza rinascimentale, sembra assai colpito dalla brutalizzazione dell’arte, ricorda con sgomento chi si ostina a dipingere nella nostra epoca ed è per questo cancellato dalla storia dai bodyguard del «contemporaneo», dai discendenti di Barnum. Post-umani, si dice ormai in quegli ambienti, non si capisce bene se perché adepti della dottrina di Foucault o piuttosto eredi teorici degli stermini maoisti.
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Se l’Europa diventa l’America -In fondo, la cultura americana religiosa si nutre di poche immagini e di molto melodramma, di musica emotiva, di danze collettive, di prediche profetiche, di numeri da record, di sentimenti apocalittici. Da quel folclore pescò il signor Barnum. L’arte delle «immagini sante» era bandita dalle chiese protestanti e sempre più sostituita dallo show, dalle personalità carismatiche, dalla réclame cui si ricorreva anche per catturare fedeli. Tali inclinazioni religiose finiranno a modo loro nell’American Museum. Gli spettatori di Barnum come delle immagini pop sono anzitutto americani che ritrovano le loro radici antropologiche. L’aspetto balordo comincia quando in Europa si interrompe la tradizione delle belle arti per coltivare le eccentricità del baraccone. Una violenza che cambia i connotati del nostro mondo. Le cose senza prezzo non esistono più. Ora tutto ha un prezzo preciso nell’emporio popular.
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Rovesciamenti da Saturnali – Solo un provinciale dai gusti esterofili può farsi sostenitore in Europa di quella Contemporary Art inventata in America. «Siete una caricatura, siete ridicoli» dice un interlocutore statunitense di Fumaroli. «Anche se affermiamo il contrario, noi americani sappiamo benissimo la differenza che separa l’highbrow dal lowbrow». La cultura pop, il «contemporary» sono lowbrow, quella europea, la sua arte sono highbrow. «Voi europei vi rovinate imitandoci in quel che abbiamo di grossolano, mentre lasciate deperire quel che ha sempre fatto la vostra superiorità: la raffinatezza». Conclude l’autore: sarebbe impossibile un concerto di Madonna al Metropolitan Opera di New York, perché allora una esposizione di Jeff Koons a Versailles?
Eccesso di zelo europeo - «La valorizzazione del nulla attraverso la chiacchiera» della stampa e dei cataloghi è una industria americana, in Europa dovrebbe sembrare fuori posto, apparire come minimo assai risibile. Dove manca la bellezza, nel deserto americano, «pullulano i concetti e la morale», ma perché importare simili merci in un territorio che passa dai monti alle pianure e dalle pianure al mare a ogni svolta della strada, sempre aprendosi su nuove bellezze?
Duchamp, un equivoco - Secondo il nostro diarista, quando Marcel Duchamp andò a svernare negli Usa si produsse un equivoco. Il suo ozio libertino venne frainteso, in terra americana il taylorismo del sesso restava dentro lo schema dell’ideologia puritana (adesso anche da noi, giornali che quotidianamente riducono la sessualità a consumo coatto si fanno paladini di crociate puritane). Ma sicuramente l’America intuì che dietro i gesti da dandy del francese c’era un enorme potenziale economico. La Borsa aprì un settore che ricalcava quello dello show business, almeno all’inizio dunque una branca dell’industria del divertimento, poi sempre più dai risvolti sinistri. Forse, è il limite di questo Diario, Fumaroli esagera nel considerare tutta la storia moderna come una faccenda francese o di francesi, certo è che le pose distratte di Duchamp cambiarono le sorti dell’avanguardismo internazionale. Man mano, alla ingenua credenza in un Rinascimento americano da parte degli espressionisti astratti, subentrò l’indifferenza efferata del pop. Nasceva lì, complice o meno la noia di Duchamp, il «contemporaneo» senza storia.
La buona sorpresa - Il macabro da Barnum – la morte senza il velo dell’allegoria e della litote, la morgue priva di eros, la «tautologia cadaverica» – è, insieme al cinismo, quello che sembra maggiormente colpire l’autore di questo Diario. Il saggista marsigliese si trova molto a disagio dentro una feroce macelleria. Di nuovo Valéry viene in soccorso, Fumaroli ha scoperto un’altra sua glossa indiretta al discorso di Baudelaire sullo choc: «Non dimentichiamo che una cosa molto bella ci rende muti d’ammirazione. […] Ma questo non va confuso con il mutismo dello stupore, la grande ossessione di molti moderni. Esso non distingue i generi di sorpresa. Uno soltanto si rinnova a ogni sguardo e diventa tanto più indefinibile e sensibile quanto più profondamente si esamina l’opera e ci si familiarizza. Si tratta della buona sorpresa. L’altro invece è semplicemente lo choc, capace di rompere una convenzione o un’abitudine, riducendosi appunto a un urto». Chi scrive al soldo del bluff estetico altro non fa che segnalare quel vile choc, la rottura di una convenzione o di un’abitudine anche visiva. Penoso compito.
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Religione del libro o dell’immagine? - Avevamo scritto il 29 giugno scorso che d’ora in poi avremmo evitato in questo «Almanacco» di occuparci a lungo della fenomenologia del «contemporaneo», onde non lasciarsi mesmerizzare da simili pratiche. Ma Fumaroli partendo dal Barnum delle installazioni ci riconduce alla storia delle immagini e alla cultura cattolica dell’incarnazione che ne produsse le più divine. Al punto che ci si chiede se si possa parlare del cattolicesimo come religione del libro alla pari di fedi ‘auditive’ come l’ebraismo e l’islamismo. A Roma, l’astrattezza del monoteismo ‘platonico’ si fa concreto nell’immagine del Figlio incarnato. Non si abbia paura a dire che l’arte di derivazione cattolica discende direttamente dall’Eucarestia, dall’ostia che racchiude e nasconde corpo e sangue (non a caso la liturgia modernista vuole privilegiare la ‘parola’ nei confronti del mistero eucaristico). Anche il culto delle reliquie – i resti del corpo umano venerati dai cattolici e che provocano imbarazzo nelle altre fedi – discende dalla medesima fede nell’ostia. Nel mistero eucaristico, il divino è «ascoso nei mistici veli», nell’arte le velature trattengono il creato, il mondo redento. Il cristianesimo romano afferma che Dio ha lasciato l’empireo dei cieli ed è sceso in mezzo al vulgus delle parentele di sangue, dell’etnia ebraica, dei corpi umani troppo umani, delle donne e dei bambini che lo hanno frequentato, della giustizia umana che lo ha condannato, del gruppo di discepoli poveri di spirito. Le sue fattezze avranno suscitato già nei contemporanei l’aguzzamento del senso della vista: le folle si accalcavano per vederlo. Ma in tutto ciò i nostri parroci più candidi intravedono una pericolosa idolatria. Il professor Fumaroli invece ci ricorda che gustus è parola del latino tardo, del vocabolario cristiano, per indicare il desiderio di conoscere attraverso i sensi il Salvatore. Ed ora, quattro eretici che trafficano da oltre un secolo con le teorie spiritistiche ci vogliono convincere di un’arte puramente spirituale, o meglio del lugubre «spirituale nell’arte».
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L’arte della incarnazione - «Il Logos vivente di Platone – scrive Fumaroli – si è lasciato vedere e toccare, amare e odiare sotto dei tratti umani. Ci vollero tredici secoli perché questo ossimoro vivente narrato dagli evangelisti, ravvivato dal culto paradossale delle reliquie e delle icone, rievocato dalle visioni, le estasi e le rivelazioni dei santi mistici, rivissuto dal ‘quinto Vangelo’ di Francesco di Assisi, cominciasse a trovare, nella contrarietà dei colti, la sua traduzione visiva nell’arte occidentale». Ecco l’arte della incarnazione, dove non è più disdicevole esaltare l’aspetto fisico dell’umano perché quel corpo è divenuto lo strumento della salvezza cosmica. Gli storici dell’arte ottocenteschi, imbevuti di cultura protestante, riproposero lo scandalo provato a Roma da Lutero e presero a parlare di « ritorno al paganesimo» per la riappropriazione italiana, tra il XII e il XV secolo, della statuaria antica e della «rappresentazione eroica della forma umana». Si trattava davvero di un ritorno alla fede negli dèi? Assolutamente no, piuttosto la mitologia pagana era un linguaggio simbolico, ben spendibile dentro il quadro cristiano, se ne usavano le immagini, cioè le metafore, la grammatica, ecc., per narrare la redenzione del mondo e della carne. Così come per rappresentare la passione di Cristo, gli artisti si interrogarono sul corpo e sui misteri del dolore, andarono a scuola dai chirurghi, sfogliarono attenti i volumi di anatomia, studiarono l’ottica, fissarono nello spazio le ‘finzioni’ prospettiche: volevano «mostrare, in tutta la sua bellezza eroica, il corpo di Cristo vincitore» della morte. Finché alle soglie del moderno, questo «ammirabile compromesso tra scienza ottica e visione simbolica» fu progressivamente condannato, quasi fossero i pittori umanisti i precursori della fotografia. Si ebbe lo strano caso di congreghe di laici che censuravano ogni attacco allo «spirituale nell’arte» e provavano orrore, disgusto morale, per ogni riferimento della pittura alla concretezza del corpo. Oggi sono i cultori dei video arte, o di quel pompierismo attuale che va sotto il nome di iperrealismo, a mostrare maggiore imbarazzo per l’arte ‘fisica’ della tradizione, a proclamarsi iconoclasti pur celebrando la riproduzione fotografica.
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L’eterno ritorno della bellezza - Finalmente qui Fumaroli, con la grande erudizione che possiede nel campo della retorica antica, può liberarci dalle banalità sul Rinascimento molto pagano e poco cristiano. Ora è proprio con l’avvento dell’umanesimo che Roma, autonoma ormai dalle imposizioni bizantine come da quelle romano-imperiali, può mettere a punto la sua arte: il mondo ne sarà sbalordito.
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Lo splendore del vero visibile - Il direttore dei musei pontifici sembrava riprendere queste riflessioni scrivendo qualche giorno fa sul giornale ufficiale della Santa Sede: «Chi, come me, dall’osservatorio privilegiato dei Musei Vaticani considera la storia delle arti sotto il segno della Chiesa di Roma non può non provare sentimenti di stupore e di gratitudine. Gratitudine, naturalmente, per i capolavori di bellezza e di sapienza che il messaggio cristiano ci ha regalato ma anche, e soprattutto, stupore e ammirazione di fronte ai meravigliosi azzardi che, nei secoli, la nostra Chiesa ha saputo giocare. Come quando, per esempio, fra quarto e quinto secolo, ha scelto come sua lingua figurativa l’arte greco-romana, l’ellenismo naturalistico e illusionistico. Azzardo immenso e carico di futuro è stato quello se si pensa che il cristianesimo veniva dall’ebraismo, la più ferocemente aniconica fra le culture del Mediterraneo e che senza quella scelta, il destino dell’arte in Occidente – Michelangelo e Rembrandt, Velasquez e Goya, Monet e Picasso – rischiava di identificarsi con la cifra e col segno, di diventare ‘ieroscrittura’, come nell’islam. Oppure quando – è l’epoca che i manuali chiamano del rinascimento – la Chiesa riconobbe nello splendore del vero visibile, l’epifania dell’Altissimo, l’ombra di Dio sulla terra. Non avremmo avuto, altrimenti, le nuvole di Giovanni Bellini, i riflessi nello specchio di Jan Van Eyck, la Stanza della Segnatura di Raffaello, la Canestra di frutta di Caravaggio, la Zattera di Medusa di Géricault».
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La vista, il senso più cattolico - Walter Benjamin cercò di rendere visibile l’«esperienza accecante» di chi era costretto a vivere nell’«epoca della grande industria». Aveva capito che proprio la vista era la prima ad essere colpita dalla cultura industrializzata. Baudelaire, ancora una volta lui, aveva così tanta familiarità con la cultura cattolica delle immagini da esibire una intransigenza rigorosa verso le raffigurazioni deboli, compromesse con i luoghi comuni del presente. Fumaroli arriva a paragonare l’attenzione per le immagini delle gerarchie cattoliche della Controriforma, dei cardinali Borromeo e Paleotti, con l’inflessibile attività critica dei Baudelaire e degli Huysmans nell’Ottocento, quando i porporati non si prendevano più cura delle opere pittoriche. «Questo cattolico ama troppo l’arte di incarnare l’infinito nel finito per non mostrarsi impietoso nei confronti delle copie servili […]. Il ‘culto’ che pratica per le opere d’arte visuale non si rivolge a qualsiasi immagine. Egli ha uno sguardo d’aquila per distinguere quelle che blandiscono la vista per fare schermo all’anima da quelle che appagano la vista quanto più parlano all’anima. […] La sua iconofilia, come in Chateaubriand, è quella di un cattolico laico per il quale la grande arte è la sola reliquia degna e autentica, insieme alla grande poesia, che abbia lasciato dietro di sé la Chiesa che si allontana». A questo punto Fumaroli avrebbe potuto aggiungere una considerazione di Hofmannsthal che attribuiva alla Chiesa romana l’ultimo e concreto legame con il mondo classico. L’arte e la poesia, secondo il poeta francese, sarebbero le eredi della liturgia e dei grandi inni ecclesiastici. «La poetica e la critica d’arte di Baudelaire non derivano in nulla dall’estetismo e tutto dalla teologia».
I tre moschettieri - Tre moschettieri francesi combattono con scienza, bonomia e buonsenso contro i segni allucinati del «contemporaneo» e la loro comicità nera e involontaria: Alain Besançon, Jean Clair, Marc Fumaroli (schierandoli in ordine alfabetico). Tutti e tre sottolineano la radicale differenza con l’arte della tradizione cui si accostano richiamandosi con grande cognizione di causa alla cultura cattolica, anzi a quella che un tempo si sarebbe chiamata la civiltà cattolica, che almeno da un certo punto in poi coincise con la civiltà delle immagini. Besançon e Fumaroli ne hanno tentato anche una spiegazione teologica. In una pagina di questo Diario appena uscito ci si rifà addirittura all’insegnamento del prof. Ratzinger. Inimmaginabile una cosa del genere negli scritti dei nostri accademici. Loro sono ancora convinti che sia più chic magnificare lo choc.
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