~ SI TIENE OGGI NELLA CAPPELLA SISTINA UNA STRANA CERIMONIA: LA CHIESA SEMBRA MENDICARE UN PO’ DI ARTE DA CHI PER LO PIÙ APPARE ESTRANEO ALL’ARTE. ~ QUI SI PROVA A FARE ENTRARE BAUDRILLARD NELLA ELETTA ADUNANZA PER SPIEGARE LA NUOVA ICONOCLASTIA: «LE IMMAGINI DOVE NON C’È NIENTE DA VEDERE» ~
Giulio II, eccelso committente, si appassionava talmente all’opera richiesta da scappargli qualche volta una bastonata per l’artista troppo lento nell’esecuzione. Accadde a Michelangelo, lo narra Vasari. I pontefici contemporanei dovrebbero munirsi di auree clave e distribuire copiose randellate su alcuni tipacci che imbrattano le chiese cattoliche. Ma i papi degli ultimo secolo sono di tutt’altra pasta. Pazienti, cortesi, meno mondani dei loro predecessori, sembrano quasi chiedere scusa quando intervengono con affabilità e discrezione negli affari del mondo moderno. Così l’intera Chiesa, che fu la massima mecenate dell’arte occidentale, adesso mendica un po’ di favori estetici anche da chi non è in grado di donare alcuna bellezza. E chiede venia se, glorificata dai maggiori artisti, architetti e poeti della storia, non benedisse benevola da subito i wc delle avanguardie.
Partono per il mondo cinquecento inviti a un incontro conciliante con il papa, si distribuiscono generosamente patenti di ‘artista’ da cattedre altissime, anche a sghignazzanti caricaturisti dei pontefici, e soltanto la metà risponde con un sì. Prevalentemente italiani. E già questo non va bene per l’universalismo romano, oltralpe difficilmente faranno caso a un «Sanremo in Vaticano». Ci sono inoltre nell’elenco gruppi di musica assai pop che neppure nei villaggi rurali hanno più qualche ascolto, comici da avanspettacolo, figurine della moda televisiva. Cormac McCarthy non c’è. «A vivere oggi si respira nichilismo. Dentro e fuori la Chiesa è il gas che si respira»: così annotava Mary Flannery O’Connor, la grande scrittrice cattolica del Novecento. Chissà se lei sarebbe venuta sulla tomba di Pietro con simili compagni di pellegrinaggio?
La Chiesa dialoga giustamente con quel che passa il convento, ossia con chi lavora in campo estetico nel nostro tempo. Ma forse dovrebbe chiedersi se in quel campo non sia accaduto qualcosa che impedisce il dialogo. Non per cattiva volontà, rigidezza, passatismo, non per «incomprensione», come ci si autoaccusa ossessivamente. E se, anzi, proprio la Chiesa avesse capito bene fin dall’inizio? Mica si crederà davvero alla favola delle forme nuove che richiedono tempo per essere digerite, sulla falsariga delle grandi innovazioni linguistiche nella storia dell’arte. Il «contemporaneo», la post-avanguardia, il postmoderno, comunque lo si chiami, è un’altra cosa. I più diretti dei loro presentatori lo dicono senza remore, come questo che abbiamo scelto soltanto perché più sintetico: «Volendo essere drastici, il criterio ispiratore dell’arte oggi non è più l’amore del bello e del vero (secondo la poetica definizione di John Keats) ma sono principalmente i soldi, l’ego e la ricerca della notorietà» (va precisato che il tizio lo afferma con compiacimento, fiero anche della patetica «ricerca di notorietà» che lo accomuna alle adolescenti sognanti le luci della ribalta). Bene, legittime aspirazioni – che cosa c’è di più comune, volgare, che voler fare soldi e gonfiare l’ego – ma che c’entra la Chiesa?
Gli affossatori della bellezza – quindi, un po’ satanici, ma solo per ‘fare soldi’ – si auto-trasformano con un atto di magia nera in artisti, cioè nella categoria umana più simile a quella divina. Il nome auratico serve per catturare la fantasia del pubblico come quando si vuole imporre un detersivo (del resto, già i sarti e i dipendenti del sistema reclamistico del ‘sempreuguale’ presero in prestito niente di meno che il titolo di creatori e creativi). Che c’entra la Chiesa con simili trucchi?
Nei corsi universitari dedicati al «sistema economico dell’arte» si insegnano i presupposti epistemologici del «contemporaneo». Ne riportiamo una presentazione contenuta nei programmi di un prestigioso ateneo (scusandoci per la terminologia gergale), ma è vulgata di ogni manuale, sorpresi che prelati coltissimi non ne traggano le dovute conseguenze: «… La causa, ma in certi casi anche la conseguenza, di questi “cedimenti” oppositivi è da ricercarsi in una serie di mutamenti sia teorici, sia tecnici sia disciplinari, di importanza epocale, esprimenti, se non sempre una realtà data, quanto meno una forte linea di tendenza: la complessità si è sostituita alla linearità, il rizoma alla radice e all’albero, l’ibridazione alla selezione, il mutante al tipo, la performance all’oggetto d’arte, la dispersione alla concentrazione, il digitale all’analogico, il multimediale al mediale, la simultaneità al tempo, la televisione al cinema, internet a posta, fax, telegrafo, telefono, le onde e le fibre ottiche ai cavi di rame, la biogenetica e la chirurgia alla medicina, le scienze neuronali alla psicologia e alla pisicoanalisi, la clonazione alla procreazione, il bilinguismo alla monolingua, il globale al particolare, l’imperfetto al perfetto, il virus all’identitario». Chi parte da simili premesse dovrebbe illustrare il Verbo?
Un personaggio che ricorse pure a tali gerghi, inventandoli però, non limitandosi a ripeterli, ebbe a un certo punto un sospetto. A furia di decifrare i segni del nostro tempo, Jean Baudrillard cominciò a parlare di «arte che scompare». Era già un dato, ma tale scomparsa veniva ancora abbellita: «L’arte oggi – diceva negli anni Ottanta – non esiste che nella forma della scomparsa. Ma essa può giocare la sua scomparsa per molto tempo con degli effetti sublimi». Anche qualche chiesa deve aver creduto in tali effetti speciali e commissionato delle opere a coloro che si industriavano per far sparire l’arte. Baudrillard continuava intanto a scrutare il magma del «contemporaneo»: «la merce – scriveva – è leggibile, in opposizione all’oggetto che non svela mai il proprio segreto, la merce manifesta sempre la propria essenza visibile, il proprio prezzo». Questa «arte» del tutto trasparente era dunque soltanto merce. Si affermava la preponderanza del significante: l’«onnipotenza di un sistema di lettura su un mondo diventato un sistema di segni», ciò che deve essere letto, il leggendario. Non era più questione della « verità del mondo e della sua storia, ma solamente della coerenza interna del sistema di lettura». Trionfava la tautologia. Brillavano allora nei saggi dello studioso francese delle importanti intuizioni: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». Le immagini «dove non c’è niente da vedere» attraevano forse i nostri teologi negativi, illudendosi in un risvolto metafisico, non capendo che si trattava di puro consumo.
Suscitando scandalo internazionale, Baudrillad fece il passo decisivo. Nel 1996 pubblicò un articolo dove denunciava Le complot de l’art. Stavolta i suoi sofisticati fans ebbero difficoltà a salvare l’immagine progressista del maestro. Baudrillard metteva insieme il sesso della pornografia – senza più segreto e senza più desiderio – e l’«arte contemporanea» senza più rappresentazione. Distingueva perciò dagli ultimi esiti le avanguardie, il modernismo estremo rappresentato da espressionisti e cubisti, che volevano «forzare il segreto del desiderio e dell’oggetto». Resisteva nelle loro opere l’«enigma in negativo», il «mistero in filigrana», ossia una traccia di «autenticità» che ammaliava gli spiritualisti d’ogni religione. Nel post-moderno però anche l’aspetto segreto veniva meno. «Che cosa se ne sta rincantucciato dietro a questo mondo falsamente trasparente?» si chiedeva riassumendo le aspettative di chi per bisogno di arte sembra poi accontentarsi di tutto. La risposta era netta: «ci si appropria del banale, del rifiuto, del mediocre come valore e come ideologia», anzi una confessione di banalità «eretta a valore». Baudrillard cercava la chiave di questo «godimento estetico perverso» e distingueva dentro la ricerca nichilista. Dovrebbero prestare attenzione a queste riflessioni gli amanti degli astrattismi e dell’arte anoressica che danno fiducia agli installatori. Il pensatore francese separava il Nulla della mistica eckhartiana (anche se non la chiamava così), il nulla come «qualità segreta», dai «falsari del nulla», dallo «snobismo della nullità». «Pretendono esser nulla: “Non sono nulla! Non sono nulla!” e in effetti non sono proprio nulla». Si tratta allora di una strategia commerciale della nullità, alla quale «danno una forma pubblicitaria» e la «forma sentimentale della merce». In tal modo «si nascondono dietro alla propria nullità e dietro alle metastasi del discorso sull’arte, che si adopera generosamente per fare risaltare questa nullità come valore», anzitutto, naturalmente, sul mercato. In un simile quadro non c’è più «alcun giudizio critico possibile», soltanto un «convivio della nullità». I presuli che guidano allegri la brigata nei Sacri Palazzi non condividono certo quel nichilismo da strapazzo di alcuni ospiti ma il ‘complotto dell’arte’, direbbe Baudrillard, è contagioso. L’altro aspetto del «bluff della nullità» è infatti quello di «forzare la gente, a contrario, a dare importanza e credito a tutto questo, con il pretesto che non può essere che sia solo una nullità, che vi si nasconda qualcosa». È la trappola appunto in cui cadono gli spettatori in buona fede. Su di loro impietoso, con tono pamphlettario, Baudrillard concludeva: «L’arte contemporanea gioca su questa incertezza, sull’impossibilità di un giudizio di valore estetico fondato, e specula sul senso di colpa di chi non capisce niente o che non ha capito che non vi era niente da capire».
Temiamo allora che, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, non ci si potrà aspettare da un installatore niente di bello. Con le prediche di papi e vescovi discese su di lui sarà forse più ispirato ma continuerà a mancargli tecnica e talento. È comprensibile d’altronde che si provi una certa stanchezza per la traversata nel deserto iconoclasta e che, per quanto riguarda l’arte sacra, la liturgia abbia bisogno urgente di forme adatte, ma non conviene ripiegare sulla imitazione di un qualsiasi passato – il gioco dei revivals è parte integrante del post-moderno –, sull’idolatria del passato che è altra cosa dalla tradizione. Se le arti figurative devono ancora attendere, niente di apocalittico. Sarà una quaresima, una settimana santa con le immagini velate, la storia mostra altri austeri periodi per le arti belle. Pascal pensava addirittura che fosse finito il tempo della Biblia pauperum, ormai sostituita pienamente dalla parola piena, dalla preziosa prosa seicentesca. Meglio comunque un periodo di eclisse, penitenziale, che un autoinganno con le astrazioni, con l’emotività facile, con immaginette edificanti. Nel frattempo ci si rifarà magari con la letteratura, dove si scrive ancora e, per fortuna, non si ripetono più le filastrocche dell’avanguardia d’antan. Il Concilio di Trento definì la pittura «letteratura per illetterati». Oggi, una folla di illetterati, soltanto a causa dell’alfabetizzazione, inganna il tempo leggendo libri che non lasciano un segno. Sembra che non si abbia più bisogno della pittura né della letteratura ma di intrattenimento per il «tempo libero» dei carcerati. Eppure, come scriveva Guido Ceronetti: «Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi, indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura?». Ecco, una scrittura per «indebolire la morte», per sbalestrare il sistema nichilistico: quanti degli invitati in Vaticano operano in tal senso?
Il soave «culto delle immagini» che predicava Baudelaire diventa pernicioso nell’epoca delle immagini «dove non si vede niente». Ogni liturgia deve diffidarne. Tenendo gli occhi bene aperti onde non confondersi con quelli che ormai ammettono a chiare lettere che le loro merci hanno solo valore economico, che il contemporaneo è un modo di far girare i soldi. Altrimenti - spiace per le buone maniere del clero odierno - di fronte ai mercanti nel tempio (tema peraltro ricorrente di molti capolavori pittorici) bisogna, come il Salvatore, rovesciare i loro banchi, il senso del loro mercato, e buttarli fuori con la frusta.
Giulio II, eccelso committente, si appassionava talmente all’opera richiesta da scappargli qualche volta una bastonata per l’artista troppo lento nell’esecuzione. Accadde a Michelangelo, lo narra Vasari. I pontefici contemporanei dovrebbero munirsi di auree clave e distribuire copiose randellate su alcuni tipacci che imbrattano le chiese cattoliche. Ma i papi degli ultimo secolo sono di tutt’altra pasta. Pazienti, cortesi, meno mondani dei loro predecessori, sembrano quasi chiedere scusa quando intervengono con affabilità e discrezione negli affari del mondo moderno. Così l’intera Chiesa, che fu la massima mecenate dell’arte occidentale, adesso mendica un po’ di favori estetici anche da chi non è in grado di donare alcuna bellezza. E chiede venia se, glorificata dai maggiori artisti, architetti e poeti della storia, non benedisse benevola da subito i wc delle avanguardie.
Partono per il mondo cinquecento inviti a un incontro conciliante con il papa, si distribuiscono generosamente patenti di ‘artista’ da cattedre altissime, anche a sghignazzanti caricaturisti dei pontefici, e soltanto la metà risponde con un sì. Prevalentemente italiani. E già questo non va bene per l’universalismo romano, oltralpe difficilmente faranno caso a un «Sanremo in Vaticano». Ci sono inoltre nell’elenco gruppi di musica assai pop che neppure nei villaggi rurali hanno più qualche ascolto, comici da avanspettacolo, figurine della moda televisiva. Cormac McCarthy non c’è. «A vivere oggi si respira nichilismo. Dentro e fuori la Chiesa è il gas che si respira»: così annotava Mary Flannery O’Connor, la grande scrittrice cattolica del Novecento. Chissà se lei sarebbe venuta sulla tomba di Pietro con simili compagni di pellegrinaggio?
La Chiesa dialoga giustamente con quel che passa il convento, ossia con chi lavora in campo estetico nel nostro tempo. Ma forse dovrebbe chiedersi se in quel campo non sia accaduto qualcosa che impedisce il dialogo. Non per cattiva volontà, rigidezza, passatismo, non per «incomprensione», come ci si autoaccusa ossessivamente. E se, anzi, proprio la Chiesa avesse capito bene fin dall’inizio? Mica si crederà davvero alla favola delle forme nuove che richiedono tempo per essere digerite, sulla falsariga delle grandi innovazioni linguistiche nella storia dell’arte. Il «contemporaneo», la post-avanguardia, il postmoderno, comunque lo si chiami, è un’altra cosa. I più diretti dei loro presentatori lo dicono senza remore, come questo che abbiamo scelto soltanto perché più sintetico: «Volendo essere drastici, il criterio ispiratore dell’arte oggi non è più l’amore del bello e del vero (secondo la poetica definizione di John Keats) ma sono principalmente i soldi, l’ego e la ricerca della notorietà» (va precisato che il tizio lo afferma con compiacimento, fiero anche della patetica «ricerca di notorietà» che lo accomuna alle adolescenti sognanti le luci della ribalta). Bene, legittime aspirazioni – che cosa c’è di più comune, volgare, che voler fare soldi e gonfiare l’ego – ma che c’entra la Chiesa?
Gli affossatori della bellezza – quindi, un po’ satanici, ma solo per ‘fare soldi’ – si auto-trasformano con un atto di magia nera in artisti, cioè nella categoria umana più simile a quella divina. Il nome auratico serve per catturare la fantasia del pubblico come quando si vuole imporre un detersivo (del resto, già i sarti e i dipendenti del sistema reclamistico del ‘sempreuguale’ presero in prestito niente di meno che il titolo di creatori e creativi). Che c’entra la Chiesa con simili trucchi?
Nei corsi universitari dedicati al «sistema economico dell’arte» si insegnano i presupposti epistemologici del «contemporaneo». Ne riportiamo una presentazione contenuta nei programmi di un prestigioso ateneo (scusandoci per la terminologia gergale), ma è vulgata di ogni manuale, sorpresi che prelati coltissimi non ne traggano le dovute conseguenze: «… La causa, ma in certi casi anche la conseguenza, di questi “cedimenti” oppositivi è da ricercarsi in una serie di mutamenti sia teorici, sia tecnici sia disciplinari, di importanza epocale, esprimenti, se non sempre una realtà data, quanto meno una forte linea di tendenza: la complessità si è sostituita alla linearità, il rizoma alla radice e all’albero, l’ibridazione alla selezione, il mutante al tipo, la performance all’oggetto d’arte, la dispersione alla concentrazione, il digitale all’analogico, il multimediale al mediale, la simultaneità al tempo, la televisione al cinema, internet a posta, fax, telegrafo, telefono, le onde e le fibre ottiche ai cavi di rame, la biogenetica e la chirurgia alla medicina, le scienze neuronali alla psicologia e alla pisicoanalisi, la clonazione alla procreazione, il bilinguismo alla monolingua, il globale al particolare, l’imperfetto al perfetto, il virus all’identitario». Chi parte da simili premesse dovrebbe illustrare il Verbo?
Un personaggio che ricorse pure a tali gerghi, inventandoli però, non limitandosi a ripeterli, ebbe a un certo punto un sospetto. A furia di decifrare i segni del nostro tempo, Jean Baudrillard cominciò a parlare di «arte che scompare». Era già un dato, ma tale scomparsa veniva ancora abbellita: «L’arte oggi – diceva negli anni Ottanta – non esiste che nella forma della scomparsa. Ma essa può giocare la sua scomparsa per molto tempo con degli effetti sublimi». Anche qualche chiesa deve aver creduto in tali effetti speciali e commissionato delle opere a coloro che si industriavano per far sparire l’arte. Baudrillard continuava intanto a scrutare il magma del «contemporaneo»: «la merce – scriveva – è leggibile, in opposizione all’oggetto che non svela mai il proprio segreto, la merce manifesta sempre la propria essenza visibile, il proprio prezzo». Questa «arte» del tutto trasparente era dunque soltanto merce. Si affermava la preponderanza del significante: l’«onnipotenza di un sistema di lettura su un mondo diventato un sistema di segni», ciò che deve essere letto, il leggendario. Non era più questione della « verità del mondo e della sua storia, ma solamente della coerenza interna del sistema di lettura». Trionfava la tautologia. Brillavano allora nei saggi dello studioso francese delle importanti intuizioni: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». Le immagini «dove non c’è niente da vedere» attraevano forse i nostri teologi negativi, illudendosi in un risvolto metafisico, non capendo che si trattava di puro consumo.
Suscitando scandalo internazionale, Baudrillad fece il passo decisivo. Nel 1996 pubblicò un articolo dove denunciava Le complot de l’art. Stavolta i suoi sofisticati fans ebbero difficoltà a salvare l’immagine progressista del maestro. Baudrillard metteva insieme il sesso della pornografia – senza più segreto e senza più desiderio – e l’«arte contemporanea» senza più rappresentazione. Distingueva perciò dagli ultimi esiti le avanguardie, il modernismo estremo rappresentato da espressionisti e cubisti, che volevano «forzare il segreto del desiderio e dell’oggetto». Resisteva nelle loro opere l’«enigma in negativo», il «mistero in filigrana», ossia una traccia di «autenticità» che ammaliava gli spiritualisti d’ogni religione. Nel post-moderno però anche l’aspetto segreto veniva meno. «Che cosa se ne sta rincantucciato dietro a questo mondo falsamente trasparente?» si chiedeva riassumendo le aspettative di chi per bisogno di arte sembra poi accontentarsi di tutto. La risposta era netta: «ci si appropria del banale, del rifiuto, del mediocre come valore e come ideologia», anzi una confessione di banalità «eretta a valore». Baudrillard cercava la chiave di questo «godimento estetico perverso» e distingueva dentro la ricerca nichilista. Dovrebbero prestare attenzione a queste riflessioni gli amanti degli astrattismi e dell’arte anoressica che danno fiducia agli installatori. Il pensatore francese separava il Nulla della mistica eckhartiana (anche se non la chiamava così), il nulla come «qualità segreta», dai «falsari del nulla», dallo «snobismo della nullità». «Pretendono esser nulla: “Non sono nulla! Non sono nulla!” e in effetti non sono proprio nulla». Si tratta allora di una strategia commerciale della nullità, alla quale «danno una forma pubblicitaria» e la «forma sentimentale della merce». In tal modo «si nascondono dietro alla propria nullità e dietro alle metastasi del discorso sull’arte, che si adopera generosamente per fare risaltare questa nullità come valore», anzitutto, naturalmente, sul mercato. In un simile quadro non c’è più «alcun giudizio critico possibile», soltanto un «convivio della nullità». I presuli che guidano allegri la brigata nei Sacri Palazzi non condividono certo quel nichilismo da strapazzo di alcuni ospiti ma il ‘complotto dell’arte’, direbbe Baudrillard, è contagioso. L’altro aspetto del «bluff della nullità» è infatti quello di «forzare la gente, a contrario, a dare importanza e credito a tutto questo, con il pretesto che non può essere che sia solo una nullità, che vi si nasconda qualcosa». È la trappola appunto in cui cadono gli spettatori in buona fede. Su di loro impietoso, con tono pamphlettario, Baudrillard concludeva: «L’arte contemporanea gioca su questa incertezza, sull’impossibilità di un giudizio di valore estetico fondato, e specula sul senso di colpa di chi non capisce niente o che non ha capito che non vi era niente da capire».
Temiamo allora che, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, non ci si potrà aspettare da un installatore niente di bello. Con le prediche di papi e vescovi discese su di lui sarà forse più ispirato ma continuerà a mancargli tecnica e talento. È comprensibile d’altronde che si provi una certa stanchezza per la traversata nel deserto iconoclasta e che, per quanto riguarda l’arte sacra, la liturgia abbia bisogno urgente di forme adatte, ma non conviene ripiegare sulla imitazione di un qualsiasi passato – il gioco dei revivals è parte integrante del post-moderno –, sull’idolatria del passato che è altra cosa dalla tradizione. Se le arti figurative devono ancora attendere, niente di apocalittico. Sarà una quaresima, una settimana santa con le immagini velate, la storia mostra altri austeri periodi per le arti belle. Pascal pensava addirittura che fosse finito il tempo della Biblia pauperum, ormai sostituita pienamente dalla parola piena, dalla preziosa prosa seicentesca. Meglio comunque un periodo di eclisse, penitenziale, che un autoinganno con le astrazioni, con l’emotività facile, con immaginette edificanti. Nel frattempo ci si rifarà magari con la letteratura, dove si scrive ancora e, per fortuna, non si ripetono più le filastrocche dell’avanguardia d’antan. Il Concilio di Trento definì la pittura «letteratura per illetterati». Oggi, una folla di illetterati, soltanto a causa dell’alfabetizzazione, inganna il tempo leggendo libri che non lasciano un segno. Sembra che non si abbia più bisogno della pittura né della letteratura ma di intrattenimento per il «tempo libero» dei carcerati. Eppure, come scriveva Guido Ceronetti: «Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi, indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura?». Ecco, una scrittura per «indebolire la morte», per sbalestrare il sistema nichilistico: quanti degli invitati in Vaticano operano in tal senso?
Il soave «culto delle immagini» che predicava Baudelaire diventa pernicioso nell’epoca delle immagini «dove non si vede niente». Ogni liturgia deve diffidarne. Tenendo gli occhi bene aperti onde non confondersi con quelli che ormai ammettono a chiare lettere che le loro merci hanno solo valore economico, che il contemporaneo è un modo di far girare i soldi. Altrimenti - spiace per le buone maniere del clero odierno - di fronte ai mercanti nel tempio (tema peraltro ricorrente di molti capolavori pittorici) bisogna, come il Salvatore, rovesciare i loro banchi, il senso del loro mercato, e buttarli fuori con la frusta.
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