N A T A L E ...R O M A N O
L’intensità della nostalgia è forse direttamente proporzionale alla velocità del mutamento dei tempi. In una cittadina del Quattrocento italico, poteva accadere che due o tre generazioni passassero senza che nel panorama circostante mutasse alcunché. Dalla fine del secolo XVIII, la corsa al cambiamento travolge anche i villaggi più remoti, e oggi i ragazzi si commuovono ritrovando in appositi siti la pubblicità natalizia della Coca Cola di dieci anni fa. Per i più grandi poi, basta un’immaginetta dei Cinquanta, un richiamo civettuolo del mondo ormai totalmente trapassato, per far spuntare le lacrime. Epoca ossessivamente nostalgica, trova il suo culmine sentimentalistico nel Natale. La mitologia che lo circonda è alquanto recente, una invenzione soprattutto del romanticismo, che enfatizzò il lato pittoresco della festa religiosa. Anche quello infantile e fiabesco attrasse i sodali dei fratelli Grimm. Fu l’Ottocento a costruire le immagini patetiche, le cartoline degli auguri, i riti familiari che turbavano perfino il ‘dionisiaco’ Nietzsche (si vedano le lettere sull’albero di Natale a madre e sorella), le canzoni toccanti, i racconti delle piccole fiammiferaie, dei bambini laceri, della miseria, per confortare chi banchettava al caldo borghese. Si rispolverarono vecchie leggende nordiche, il mondo protestante del sacerdozio privato aveva finalmente una liturgia da celebrare in casa. Il resto lo fece l’industria dell’entertainment negli Stati Uniti. In pochi decenni si impose Babbo Natale e la fantasmagoria dei doni portati da san Nicola di Bari, del gesto gratuito cioè (i balocchi e dolciumi per i piccini), divenne la festa dell’universo delle merci, sia pure con un vago segno cristiano persistente.
Nel cuore del rito planetario dei buoni sentimenti, del consumo, della puerilità, dello zuccheroso, una frase perentoria di Benedetto XVI interrompe l’incantesimo e sembra sottrarre il Natale al romanticismo interminabile. Dalla Chiesa di Roma, e proprio da un papa tedesco – a riprova che l’universalismo cattolico supera le caratteristiche nazionali – viene un richiamo solenne: «il Natale non è una favola».
Nella tradizione romana della festa non c’è ombra di leziosaggine. Di fronte alla morte ciclica della natura, al memento annuale della nostra fine, i pagani celebravano il Dies Natalis Solis Invicti e accendevano nelle fredde notti dicembrine robusti fuochi di giubilo per le strade di Roma. Ma la consolazione conservava il sapore malinconico dell’eterno ritorno, dell’alternarsi di morte e vita, della perfetta simmetria temporale che annienta il futuro e perciò la speranza. I cristiani approfittarono di questa ricorrenza così vibrante per collocarvi il giorno natale del Vincitore della morte. Il cerchio pagano veniva spezzato, adesso c’era un prima e un dopo definitivi, si affermava l’irreversibilità trascinando tutte le cose. Frutto di uno spregiudicato accostamento, le antiche credenze però resistevano e papa Leone Magno se ne preoccupava: nel giorno di Natale «alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di S. Pietro, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente». Ma Ambrogio ribadiva senza indugi: «Cristo è il nostro nuovo sole». Dialettica luce/tenebre che va ben al di là dei ‘notturni’ romantici nel paese delle selve. Piuttosto quelli italici, senza tenebre e paure, luminosi e sereni sotto la luna. Nei presepi del nostro Rinascimento, ad alto valore simbolico, il paesaggio classico, le figure magniloquenti, i templi spezzati, il vecchio e nuovo mondo, mettevano in scena un dramma cosmico, non una storiella montanara. Roma aveva riequilibrato come sempre tutto. La stalla trasformata in reggia, i pastori mescolati ai re, gli umani agli angeli, Dio a una coppia di ebrei. A noi, invece, a furia di carillons e di motivetti facili ci è sfuggito di mente il legame del Natale con la Pasqua.
«Quanno nascette Ninno a Bettalemme/ Era nott', e pareva miezo juorno» cantava in napoletano sant’Alfonso riecheggiando il profeta Isaia che riconciliava il leone e l’agnello. Notte dei miracoli, mezzanotte che sembra mezzogiorno, gli animali e gli umani, il cielo e la terra si ricongiungono sospendendo il tempo e con il tempo l’èra del peccato. Da secoli l’umanità nella notte santa sembra ripensare l’età dell’oro. Le montagne silenti, i paesi luccicanti, uno stuolo di angeli, i magi con i turbanti, il cielo trapuntato di stelle, i doni, la cometa fissa su una grotta, e nella grotta una vergine che partorisce il puer divino. È il presepio che l’arte napoletana arricchì di spunti esotici con le scimmie che si aggiungono agli elefanti e ai cammelli, con le strane fogge dei re-indovini e dei loro innumerevoli cortigiani. È il presepio affollatissimo dove si incontra l’occidente e l’oriente. «La terra è arreventata Paraviso», ma questo è ancora una promessa: nella notte santa, nonostante sia la più incantata delle notti, gli umani continuano a morire e a soffrire, in particolare di solitudine estrema e dolorosa. Il Natale, il presepio, è solo prefigurazione della festa celeste.
Alla malinconia romantica risponde la Chiesa di Roma con argomenti vigorosi che vogliono sconfiggere morte e dolore, come nelle parole di papa Leone Magno che, per rincuorare i suoi neo-cristiani, predicava: «Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita: una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità». Al cospetto della morte, dunque, ci vuole qualcosa di forte, la futilità accentuando il senso di vuoto e la devastazione. La solennità dell’avvento messianico non è appunto riducibile al clima fiabesco: «il Natale non è una favola».
Il bambino di Betlemme «è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (…). Egli è più vecchio del cielo e della terra. ‘Giovane bimbo, Dio eterno’: così suona il refrain del kontakion sul Natale composto da Romano il Melode» ricordava Averincev, parlando dell’iconografia bizantina. Il culto dell’infanzia nel cristianesimo va di pari passo con il culto della vecchiaia, della «vecchiaia nell’infanzia» e dell’«infanzia nella vecchiaia», a riprova che nella sapienza tradizionale non si dà mai la piattezza di una sola faccia.
Nelle tre messe con cui nei primi secoli si solennizzava a Roma il Natale veniva ribadito il senso di quella notte. Il messia è ancora infans, non parlante – sono i profeti a parlare in sua vece – ma l’evento oggi è l’incarnazione di Dio. Contro tutte le eresie spiritualiste, la liturgia ripete: il Verbo invisibile si fece visibile consacrando il mondo delle immagini, rendendole di uno splendore che mancava nonostante tutto alla civiltà pagana. Contro i manichei si ricorda che Dio non si è rifiutato di assumere la nostra carne. Si annuncia infine che la sua grazia si spargerà «usque ad extremos terminos orbis terrarum», altro che la piccola comunità del villaggio sotto la neve prediletta dai romantici. Lo stesso presepio di Greccio, nonostante l’oleografia irritante che accompagna san Francesco, è una sacra rappresentazione dell’incipit del Vangelo non la sequenza delle scene di una Winterreise.
Immersi nell’oro, in solenni forme simboliche, i personaggi del presepio di Duccio – nell’Adorazione dei Magi conservata a Siena – officiano il mistero della parusia: i due più giovani si guardano perplessi per tanto portento, il più vecchio inchina la propria maestà al puer presentato dalla madre su un tronetto marmoreo, classico. Andiamo a vederlo almeno nella riproduzione elettronica della rete. Una capanna incornicia una grotta sotto una grande montagna che occupa quasi tutta la tavola. Il nero dell’antro è bilanciato dalla luce aurea che inonda la scena. Il bambino è stato già portato fuori dal buio dell’arcaico, dall’indistinto della colpa adamitica: la rivelazione è compiuta. Il mondo lo riconosce, un gruppo di servi, stretti tra i cavalli, osservano la scena. Ornamenti preziosi per uomini e bestie, quasi fossero abiti liturgici. E dettagli squisiti come i calzari del magio vegliardo: nel mondano avviene l’epifania. D’oro è anche la stella, cometa senza coda ma collegata con l’astro che brilla sulla grotta. Il cosmo partecipa alla festa terrena. Che l'aureo splendore duccesco avvolga l’augurio di un gioioso Natale ai lettori di questo «Almanacco».
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L’intensità della nostalgia è forse direttamente proporzionale alla velocità del mutamento dei tempi. In una cittadina del Quattrocento italico, poteva accadere che due o tre generazioni passassero senza che nel panorama circostante mutasse alcunché. Dalla fine del secolo XVIII, la corsa al cambiamento travolge anche i villaggi più remoti, e oggi i ragazzi si commuovono ritrovando in appositi siti la pubblicità natalizia della Coca Cola di dieci anni fa. Per i più grandi poi, basta un’immaginetta dei Cinquanta, un richiamo civettuolo del mondo ormai totalmente trapassato, per far spuntare le lacrime. Epoca ossessivamente nostalgica, trova il suo culmine sentimentalistico nel Natale. La mitologia che lo circonda è alquanto recente, una invenzione soprattutto del romanticismo, che enfatizzò il lato pittoresco della festa religiosa. Anche quello infantile e fiabesco attrasse i sodali dei fratelli Grimm. Fu l’Ottocento a costruire le immagini patetiche, le cartoline degli auguri, i riti familiari che turbavano perfino il ‘dionisiaco’ Nietzsche (si vedano le lettere sull’albero di Natale a madre e sorella), le canzoni toccanti, i racconti delle piccole fiammiferaie, dei bambini laceri, della miseria, per confortare chi banchettava al caldo borghese. Si rispolverarono vecchie leggende nordiche, il mondo protestante del sacerdozio privato aveva finalmente una liturgia da celebrare in casa. Il resto lo fece l’industria dell’entertainment negli Stati Uniti. In pochi decenni si impose Babbo Natale e la fantasmagoria dei doni portati da san Nicola di Bari, del gesto gratuito cioè (i balocchi e dolciumi per i piccini), divenne la festa dell’universo delle merci, sia pure con un vago segno cristiano persistente.
Nel cuore del rito planetario dei buoni sentimenti, del consumo, della puerilità, dello zuccheroso, una frase perentoria di Benedetto XVI interrompe l’incantesimo e sembra sottrarre il Natale al romanticismo interminabile. Dalla Chiesa di Roma, e proprio da un papa tedesco – a riprova che l’universalismo cattolico supera le caratteristiche nazionali – viene un richiamo solenne: «il Natale non è una favola».
Nella tradizione romana della festa non c’è ombra di leziosaggine. Di fronte alla morte ciclica della natura, al memento annuale della nostra fine, i pagani celebravano il Dies Natalis Solis Invicti e accendevano nelle fredde notti dicembrine robusti fuochi di giubilo per le strade di Roma. Ma la consolazione conservava il sapore malinconico dell’eterno ritorno, dell’alternarsi di morte e vita, della perfetta simmetria temporale che annienta il futuro e perciò la speranza. I cristiani approfittarono di questa ricorrenza così vibrante per collocarvi il giorno natale del Vincitore della morte. Il cerchio pagano veniva spezzato, adesso c’era un prima e un dopo definitivi, si affermava l’irreversibilità trascinando tutte le cose. Frutto di uno spregiudicato accostamento, le antiche credenze però resistevano e papa Leone Magno se ne preoccupava: nel giorno di Natale «alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di S. Pietro, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente». Ma Ambrogio ribadiva senza indugi: «Cristo è il nostro nuovo sole». Dialettica luce/tenebre che va ben al di là dei ‘notturni’ romantici nel paese delle selve. Piuttosto quelli italici, senza tenebre e paure, luminosi e sereni sotto la luna. Nei presepi del nostro Rinascimento, ad alto valore simbolico, il paesaggio classico, le figure magniloquenti, i templi spezzati, il vecchio e nuovo mondo, mettevano in scena un dramma cosmico, non una storiella montanara. Roma aveva riequilibrato come sempre tutto. La stalla trasformata in reggia, i pastori mescolati ai re, gli umani agli angeli, Dio a una coppia di ebrei. A noi, invece, a furia di carillons e di motivetti facili ci è sfuggito di mente il legame del Natale con la Pasqua.
«Quanno nascette Ninno a Bettalemme/ Era nott', e pareva miezo juorno» cantava in napoletano sant’Alfonso riecheggiando il profeta Isaia che riconciliava il leone e l’agnello. Notte dei miracoli, mezzanotte che sembra mezzogiorno, gli animali e gli umani, il cielo e la terra si ricongiungono sospendendo il tempo e con il tempo l’èra del peccato. Da secoli l’umanità nella notte santa sembra ripensare l’età dell’oro. Le montagne silenti, i paesi luccicanti, uno stuolo di angeli, i magi con i turbanti, il cielo trapuntato di stelle, i doni, la cometa fissa su una grotta, e nella grotta una vergine che partorisce il puer divino. È il presepio che l’arte napoletana arricchì di spunti esotici con le scimmie che si aggiungono agli elefanti e ai cammelli, con le strane fogge dei re-indovini e dei loro innumerevoli cortigiani. È il presepio affollatissimo dove si incontra l’occidente e l’oriente. «La terra è arreventata Paraviso», ma questo è ancora una promessa: nella notte santa, nonostante sia la più incantata delle notti, gli umani continuano a morire e a soffrire, in particolare di solitudine estrema e dolorosa. Il Natale, il presepio, è solo prefigurazione della festa celeste.
Alla malinconia romantica risponde la Chiesa di Roma con argomenti vigorosi che vogliono sconfiggere morte e dolore, come nelle parole di papa Leone Magno che, per rincuorare i suoi neo-cristiani, predicava: «Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita: una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità». Al cospetto della morte, dunque, ci vuole qualcosa di forte, la futilità accentuando il senso di vuoto e la devastazione. La solennità dell’avvento messianico non è appunto riducibile al clima fiabesco: «il Natale non è una favola».
Il bambino di Betlemme «è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (…). Egli è più vecchio del cielo e della terra. ‘Giovane bimbo, Dio eterno’: così suona il refrain del kontakion sul Natale composto da Romano il Melode» ricordava Averincev, parlando dell’iconografia bizantina. Il culto dell’infanzia nel cristianesimo va di pari passo con il culto della vecchiaia, della «vecchiaia nell’infanzia» e dell’«infanzia nella vecchiaia», a riprova che nella sapienza tradizionale non si dà mai la piattezza di una sola faccia.
Nelle tre messe con cui nei primi secoli si solennizzava a Roma il Natale veniva ribadito il senso di quella notte. Il messia è ancora infans, non parlante – sono i profeti a parlare in sua vece – ma l’evento oggi è l’incarnazione di Dio. Contro tutte le eresie spiritualiste, la liturgia ripete: il Verbo invisibile si fece visibile consacrando il mondo delle immagini, rendendole di uno splendore che mancava nonostante tutto alla civiltà pagana. Contro i manichei si ricorda che Dio non si è rifiutato di assumere la nostra carne. Si annuncia infine che la sua grazia si spargerà «usque ad extremos terminos orbis terrarum», altro che la piccola comunità del villaggio sotto la neve prediletta dai romantici. Lo stesso presepio di Greccio, nonostante l’oleografia irritante che accompagna san Francesco, è una sacra rappresentazione dell’incipit del Vangelo non la sequenza delle scene di una Winterreise.
Immersi nell’oro, in solenni forme simboliche, i personaggi del presepio di Duccio – nell’Adorazione dei Magi conservata a Siena – officiano il mistero della parusia: i due più giovani si guardano perplessi per tanto portento, il più vecchio inchina la propria maestà al puer presentato dalla madre su un tronetto marmoreo, classico. Andiamo a vederlo almeno nella riproduzione elettronica della rete. Una capanna incornicia una grotta sotto una grande montagna che occupa quasi tutta la tavola. Il nero dell’antro è bilanciato dalla luce aurea che inonda la scena. Il bambino è stato già portato fuori dal buio dell’arcaico, dall’indistinto della colpa adamitica: la rivelazione è compiuta. Il mondo lo riconosce, un gruppo di servi, stretti tra i cavalli, osservano la scena. Ornamenti preziosi per uomini e bestie, quasi fossero abiti liturgici. E dettagli squisiti come i calzari del magio vegliardo: nel mondano avviene l’epifania. D’oro è anche la stella, cometa senza coda ma collegata con l’astro che brilla sulla grotta. Il cosmo partecipa alla festa terrena. Che l'aureo splendore duccesco avvolga l’augurio di un gioioso Natale ai lettori di questo «Almanacco».
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