~ DAL VANGELO DI MATTEO AL SERMONE DI MARSILIO FICINO, ALLE LEGGENDE POPOLARI SUGLI ANIMALI CHE PARLANO: COME IL MERAVIGLIOSO SI INTRODUCE NELLA DODICESIMA NOTTE, LA MAGICA VIGILIA DELL’EPIFANIA ~
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Nella XII notte si introduce il magico. Addirittura il testo più avverso alla magia, il Vangelo, parla di Magi, li chiama in greco con un termine estraneo alla lingua ebraica, magoi, ne parla con rispetto, cosicché i misteriosi visitatori saranno poi santificati dalla tradizione, venerati in vari angoli d’Europa, celebrati nei diversi Orienti religiosi. Santi Maghi? O dobbiamo pensare che non si trattasse di maghi? Già, maghi o re? Prefigurazione degli scienziati o dei sovrani, ciarlatani o sapienti?
La teofania regale del «re dei Giudei» negli altri Vangeli sinottici avviene alla presenza dei pastori, davanti agli ultimi nella dignità sociale, inattendibili come testimoni, al pari delle donne. In quello di Matteo la teofania ha come pubblico l’enigmatico trio.
Magoi, e si evocavano i sacerdoti mazdei, gli indovini, i negromanti, gli esorcisti, le etimologie indo-iraniche; risuona la parola sanscrita maghà (che allude all’idea di dono), confonde con le ascendenze mitraiche, con l’altra nascita di un infante divino nella grotta, con tutti i terribili concorrenti mediorientali del Dio ebraico.
Eraclito – riportano i tanti libri dotti sull’argomento (una buona sintesi di vari autori: Tre saggi e la stella, Rimini 1999) – cita i magoi e li associa ai «vaganti di notte» e ai «posseduti da Dioniso». Nietzsche sorriderebbe. Ma sicuramente Matteo nulla sapeva della filosofia ‘presocratica’, anzi neppure del greco, e chissà come sarebbe stupito delle esercitazioni di lingue tanto nobili a proposito di una parola tradotta dal misero aramaico.
Magi che come il pharmakos rinvia a guaritori e avvelenatori, essendo la pozione salvifica estremamente delicata. La magia nera e quella bianca, gli incantesimi e gli incanti. La duplicità, nella variante profana e bassa, della Befana strega e nonnina. Ed avanzano anche riferimenti alle concezione tanatologiche zoroastriane. In modo che meglio si capisce quel dono inquietante della mirra che sta lì, nella logica del Vangelo, ad annunciare il sacrificio messianico iscritto già nella nascita pur ammantata di grazia e di gioia.
I tre Magi sono emblema della confusione ellenistica, dei sincretismi di quella zona, delle incerte frontiere. Alcune leggende vogliono che loro stessi arrivino allo scontro davanti alle porte di Gerusalemme, rappresentando così il conflitto prima e la pace ritrovata alla fine davanti alla grotta. In quella caotica «saggezza straniera» era successo che addirittura gli ebrei venissero considerati dai greci dell’ellenismo i «discendenti dei filosofi indiani», chiamati kalanoi, «i quali erano a loro volta discendenti dai magi persiani» (Momigliano). Un albero genealogico che somiglia alla Torre di Babele.
In questi giorni ci è capitato di vedere un originale presepio che metteva in scena un deserto fatto di carta argentata dove i Magi sui cammelli sembravano perdersi, tra i riflessi incandescenti della enorme piana, persi benché sapienti, conoscitori delle vie terrene e di quelle del cielo. Una noche oscura del alma a dorso di cammello. Solo grazie all’astro trovano l’orientamento, vengono guidati alla rivelazione cristiana, al messaggio semplice che si fa beffa degli intellettualismi gnostici.
De stella magorum è il titolo di un sermone che Marsilio Ficino scrisse in occasione dell’Epifania. Vi si parlava di una stella-angelo. Ribaltando infatti la concezione degli irreligiosi, non era il racconto evangelico a nascere in occasione del fenomeno astrofisico, alla vicenda siderale ricostruita dagli scienziati dei secoli a venire, bensì una stella portentosa si faceva segno dell’evento divino.
Che le attese dei secoli confluissero negli anni augustei può essere considerato uno Zeitgeist ma può essere ricondotto anche a questo incontro tra il «vero Dio» e le ricerche di tutti i gentili che davanti a lui, il puer, confluiscono nel sontuoso corteo. La scena dei Magi anticipa quella degli apostoli che tornano indietro delusi perché gli ebrei come loro hanno respinto il messaggio messianico di rabbi Gesù e allora il Maestro li manda a con-vertire i Gentili che non attendono alcun messia. L’universalismo del Vangelo è testimoniato da quel corteo delle Genti, l’universalismo cattolico (con l’aggettivo che suona ridondante) si richiama a quell’esempio e la cappella berniniana e poi borrominiana del Collegio Urbano, della seicentesca centrale delle missioni nel mondo a Roma, si intitola non a caso ai tre santificati: Cappella dei Magi. Perciò l’indicazione evangelica sulla provenienza da Est si cambia, strada facendo, in una convergenza da i tre punti del mondo, figli dei figli di Noè, a significare le razze umane, cosicché quando fu scoperto un quarto continente la fantasia ideò anche un quarto Magio, in modo che ciascuno avesse una sua rappresentanza nella scena primaria. L’Occidente si misurò con l’ambigua sapienza orientale, questa l’infinita ermeneutica europea alla storia dei Magi; il Logos si espone al mondo dei colti che non lo conosceva.
Vi erano inoltre i riflessi luministici del platonismo, del neoplatonismo rivisitato dalla Chiesa bizantina, che fa della liturgia epifanica una festa della luce metafisica. La dottrina di Platone, tradotta nelle pratiche popolari diviene non ancora favola ma quantomeno una cornice fiabesca. I tre simbolici visitatori risplenderanno dell’oro che orna vesti e acconciature, qua e là a impreziosire il corteo, il viaggio, alludendo pittoricamente all'iperuranio, fin nelle bardature di cavalli e cammelli, come furono raffigurati dagli artisti toscani e in generale dell’Italia centrale, nell’epoca in cui Platone tornava al centro della nostra cultura. Fino a che il tema dei Magi nella Firenze del Quattrocento trovò un’accoglienza speciale alla corte dei Medici e in una Natività di Botticelli i maggiori rappresentanti della ricca famiglia prestarono le loro facce ai tre re del presepio.
Nonostante tutto, nonostante cioè questa presenza dei Magi, su cui si è ricamato assai, il racconto evangelico vuole essere storico, come le scienze bibliche hanno cercato di dimostrare. Ancora una volta, dunque, «il Natale non è una favola», spiega il papa-teologo.
Ma tanto pareva una invenzione letteraria che, al contrario, su questo elegante mistero si cimentarono due tra i sommi poeti del Novecento, Eliot e Yeats. Se il primo virò la storia dei Magi in chiave attuale, in un affollato e travagliato journey, l’irlandese trasse stille del suo «avvento del nuovo» vagamente teosofico e occultistico (ma la grandezza della sua poesia – diceva Giorgio Melchiori – penetrava «la fitta nebbia esoterica e mistica in cui sembrava perduto»), un gioco di occhi dei tre re che confusi (e respinti) dal «tumulto del Calvario» fissano i loro sguardi sul «pavimento bestiale» della mangiatoia, non solo il bue e l’asinello ma la violenza animalesca della nuova èra, la violenza cosmica della bestia apocalittica. Senza le pesanti armature teoriche, ben più natalizie risuonano i suoi versi per la povera Mabel Beardsley, sorella del raffinatissimo Aubrey, dove il poeta rivolgendosi alla Morte dice: «Perdona, grande nemica, / Senza pensieri iracondi / Abbiamo recato il nostro albero, / E abbiamo fatto acquisti qua e là / Finché ogni ramo ne fosse gaio, / Ed ella potesse vedere dal letto / Cose graziose tali da piacere / Ad una testolina fantasiosa / Concedile una breve dilazione, / Che conta se un occhio ridente / Ti ha guardato in faccia? Sta per morire».
Ancora del magico dalla notte epifanica. In queste ore, folle immense bloccano la parte rinascimentale della città di Roma per portarsi, senza alcuna convocazione, pubblicità, cartello indicativo, a piazza Navona, all’antico mercato natalizio, nei pressi del quale, secondo la leggenda, nei solai oscuri di case fuori del tempo si nasconderebbe nel resto dell’anno la Befana e i suoi Befanini, personaggi che comporrebbero il corteo volante, una specie di brigata dionisiaca cui è stato somministrato il battesimo (non c’è l’edera ma certamente gira il vino per riscaldare le notti fredde). Una tradizione sotterranea che non ha bisogno di proclami. Si va nella piazza dove si vendono cose dimesse che potrebbero essere acquistate in qualsiasi bottega della città, e ormai le bancarelle diminuiscono, crescono gli spazi vuoti tra una e l’altra sulla linea che riprende la forma pressappoco ellittica della piazza, con al centro il tripudio marmoreo di Bernini. Però i ragazzi sbandati delle periferie vi si recano in pellegrinaggio non imposto da una qualche moda. Ebbene questa festa tanto popolare, profondamente radicata nell’immaginario, sulla fine degli anni Settanta, fu abolita. Estirpata con un decreto governativo dal cuore delle famiglie. La cosa impressionante è che nessuno si ribellò. Molti mugugni, naturalmente, tristezza soffusa, ma non si fa la rivoluzione per una festa cancellata. Forse anche se decidessero da un giorno all’altro che il Natale è abolito, tutti soffrirebbero in silenzio ma nient’altro. La cancellazione della festa millenaria si volle soltanto per copiare male il resto d’Europa che non festeggiava.
La stampa aveva tormentato l’opinione pubblica sul fatto che nella penisola i giorni feriali fossero troppo pochi. Bisognava aumentare il tempo lavorativo, somigliare maggiormente ai paesi nordici, dimenticare il mondo mediterraneo. Nessuno o quasi ricordò con orgoglio il nostro modo di vivere, la nostra dolce vita; ci si batteva il petto con foga per i peccati di mancata omologazione. Del resto lo Stato unitario era nato circa centocinquant’anni fa proprio per spirito di imitazione. Una mini-Francia sembrava l’Italietta agli occhi di Dostoevskij che la derideva. Per imitazione della Francia si era perduto una particolarità, l’esser la penisola una specie di paradiso in terra, giardino che era patria a tutta l’umanità. Ma gli ultra-provinciali volevano sembrare nordici, si travestivano da weberiani e dimezzavano le festività, i santi popolarissimi nei paesi a loro dedicati, le piazze allegre, le luminarie, le processioni, le girandole, gli ozi. I burocrati presero una mannaia e colpirono con poco riguardo. Buttarono via l’Epifania senza magari far caso che anche la nordica e severa nonché protestante Germania, almeno per metà, manteneva nel calendario la celebrazione dei Magi. Così la terza festa, quella che le completa tutte, veniva a mancare. Recita l’adagio malinconico: «l’Epifania tutte le feste si porta via», sigillo della celebrazione invernale, della consolazione della morta natura, della speranza nella resurrezione che le vili decorazioni, gli scintillii infantili vogliono testimoniare. Una trentina di anni fa, quelle feste furono mozzate. Eppure non si trattava soltanto di Roma.
Si pensi per esempio a Firenze dove a Casa Medici venne istituita la Compagnia dei Magi, di cui facevano parte i migliori umanisti che, in eccelsa confraternita, organizzavano un grande corteo per le vie della città in una rievocazione del viaggio dei Magi, quello che Benozzo Gozzoli dipinse aggiungendo le scene di caccia, le gioie terrene, gli splendori della corte fiorentina.
Milano addirittura vantava le reliquie dei presunti corpi dei Magi che considerava protettori della città. Barbarossa mise a ferro e fuoco il Comune ribelle, si impadronì delle reliquie e se le portò a Colonia. Il culto tedesco restò fedele ai tre e l’arca che li contiene continua a essere mèta di pellegrinaggi. Ma all’inizio del Novecento, grazie all’amicizia tra l’arcivescovo di Milano e quello di Colonia, tornarono nella capitale lombarda delle reliquie ossee dei vecchi patroni. Nel dopoguerra riprese anche la tradizione del corteo dei Magi per le vie della città.
Né soltanto le capitali ricordavano il 6 gennaio, anzi soprattutto nel mondo contadino, nelle migliaia di paesi memori che costellano tutte le regioni d’Italia, si ebbero sempre in quella notte dei prodigi i fuochi e le sorprese gastronomiche e i doni e le tradizioni di eccentrici riti. Riti apotropaici, dicono gli antropologi, e delle superstizioni dei pronostici. Festa nelle case contadine davanti ai camini e festa soprattutto nelle stalle. Si voleva perfino che gli animali parlassero dei loro padroni nella notte di veglia. Intelligente fu l’idea della Rai novella di istituire la più grande lotteria dell’anno nel giorno dell’Epifania.
In un codice senese del XIV secolo si trova forse per la prima volta la menzione di una «festa de’ Magi», con «divota rappresentazione», ovvero corteo regale. Ma sicuramente a più lontano nel tempo doveva risalire queste usanze che continuano ancora oggi. Cortei paesani di reucci per un giorno, canti, poesie (quanto verseggiare sulla Befana!).
Per tutte, una filastrocca ubriaca, tanto che i saccenti la direbbero surrealista: «O Befana, mia Befana esci fuori dalla tana / con le calze color di rosa / buttaci giù qualche cosa!». Strampalata: la vecchia chiusa in una tana, come un animale, che si innalza cavalcando una scopa, montata in senso contrario a quello delle streghe dannate, per lasciar cadere dunque i doni dall’alto. Befana povera: non un dono specifico le si chiede bensì una qualunque cosa, una elemosina, una mercè. La donna carica di secoli non ha una divisa, veste di stracci raccogliticci, di improbabili colori, «con le scarpe tutte rotte», recita un’altra cantilena rimeggiata, addirittura delle calze rosa per la bizzarra e talvolta bisbetica maga.
Volando sulla penisola appaiono innumerevoli falò nella notte santa e magica: la vecchia viene bruciata, la vecchia viene invocata per i doni. Come in ogni rito importante, ecco il capro espiatorio nascosto ma non troppo, ammonirebbe René Girard.
Ma il cinismo degli anni Settanta buttò tutto all’aria. Si abolì la Befana e si abolì il latino nella liturgia romana. Son scelte diversissime, è chiaro, ma furono compiute con la medesima crudeltà. E santi veneratissimi dal popolo, nel medesimo tempo, vennero depennati da arcigni filologi che confondevano la Chiesa con una istituzione accademica; o semplicemente per l’acrimonia di parvenus della cultura che volevano rivalersi sui più semplici e far vedere ai parenti contadini che ormai padroneggiavano il latinorum.
A quel tempo i giovani scendevano in piazza per dileggiare i padri e i nonni. Si imponeva la gioventù, un nuovo soggetto del consumo, i vecchi dovevano essere eliminati dal mercato. Non erano i bonari sfottò, il perenne contrasto tra chi si pensa eterno e vede gli altri al lumicino ed esorcizza perciò quel giorno lontano, oppure l’orgoglio di chi ha capito qualcosa ma solo quando il tempo scarseggia. Si trattava di una inusitata battaglia politica. La generazione dei ribelli di allora, adusa oggi a esser coccolata dal plauso generale, dal rispetto dei più giovani che affabulano narrando delle loro gesta, non riescono neppure a immaginare una processione di garzoncelli che marciando con passo militare e grida orribili prenda a insultare in tono greve i loro simboli, il loro sacro, la loro persona. La vecchiaia come colpa, l’avvizzimento quale obiettivo ‘politico’ da colpire, lo squadrismo di ‘Giovinezza’ in opposto estremismo: si fa fatica a pensarlo ormai. E difficilmente potrebbe darsi uno spettacolo di tal fatta perché tutti si è imbrigliati oggidì nella cosiddetta ‘correttezza politica’ che vieta ogni pensiero non approvato dai potenti del momento, una dogmatica imposizione che non va violata neanche per quegli stupidi scherzi che sono le invenzioni del «contemporaneo». Ci si lasci andare, infatti, a uno sfottò sulla Costituzione, gli idolatri della Carta quarantottesca grideranno unanimamente allo scandalo. Allora vigevano o meglio sopravvivevano invece le buone maniere, che sono cosa ben diversa dalla correttezza politica, regole formali – quindi che non presuppongono alcun contenuto – per evitare la violenza fisica e verbale. La loro fragilità le mise in balia degli scarponi dei violenti. Attaccarono il passato come il male assoluto, distrussero ogni sorta di tradizione, di buona forma. La Befana fu tra i vinti. Ma in Russia non bastarono settant’anni di duro dominio degli atei, di uno Stato poliziesco degli atei, con polizie assai manesche, stanze di tortura diffuse, articoli del codice che comminavano anni nei Lager per gli spiriti religiosi, distruzione di chiese e conventi, scioglimento di ordini, vescovi e preti in catene: appena l’Urss venne giù tornò a galla il cristianesimo che non possedeva neppure più i libri sacri. A maggior ragione, appena la nostra festa dell’Epifania fu riammessa, tornarono le folle ai riti misteriosi della notte magica. Sempre più inconsapevoli tuttavia, sfumato vieppiù il significato religioso, gestita ormai la festa principalmente dai mercanti.
La notte dei doni però, almeno la notte, si sottrae, nei limiti di questo nostro mondo, a quello scambio forsennato. Non c’è il cinema e il sistema mediatico made in Usa a metterla in scena. Resta pur sempre una occasione in ombra, una riserva europea, una magia comunque segreta. Il racconto è affidato al conciso Matteo: «E aperti gli scrigni offrirono in dono oro, argento e mirra».
La teofania regale del «re dei Giudei» negli altri Vangeli sinottici avviene alla presenza dei pastori, davanti agli ultimi nella dignità sociale, inattendibili come testimoni, al pari delle donne. In quello di Matteo la teofania ha come pubblico l’enigmatico trio.
Magoi, e si evocavano i sacerdoti mazdei, gli indovini, i negromanti, gli esorcisti, le etimologie indo-iraniche; risuona la parola sanscrita maghà (che allude all’idea di dono), confonde con le ascendenze mitraiche, con l’altra nascita di un infante divino nella grotta, con tutti i terribili concorrenti mediorientali del Dio ebraico.
Eraclito – riportano i tanti libri dotti sull’argomento (una buona sintesi di vari autori: Tre saggi e la stella, Rimini 1999) – cita i magoi e li associa ai «vaganti di notte» e ai «posseduti da Dioniso». Nietzsche sorriderebbe. Ma sicuramente Matteo nulla sapeva della filosofia ‘presocratica’, anzi neppure del greco, e chissà come sarebbe stupito delle esercitazioni di lingue tanto nobili a proposito di una parola tradotta dal misero aramaico.
Magi che come il pharmakos rinvia a guaritori e avvelenatori, essendo la pozione salvifica estremamente delicata. La magia nera e quella bianca, gli incantesimi e gli incanti. La duplicità, nella variante profana e bassa, della Befana strega e nonnina. Ed avanzano anche riferimenti alle concezione tanatologiche zoroastriane. In modo che meglio si capisce quel dono inquietante della mirra che sta lì, nella logica del Vangelo, ad annunciare il sacrificio messianico iscritto già nella nascita pur ammantata di grazia e di gioia.
I tre Magi sono emblema della confusione ellenistica, dei sincretismi di quella zona, delle incerte frontiere. Alcune leggende vogliono che loro stessi arrivino allo scontro davanti alle porte di Gerusalemme, rappresentando così il conflitto prima e la pace ritrovata alla fine davanti alla grotta. In quella caotica «saggezza straniera» era successo che addirittura gli ebrei venissero considerati dai greci dell’ellenismo i «discendenti dei filosofi indiani», chiamati kalanoi, «i quali erano a loro volta discendenti dai magi persiani» (Momigliano). Un albero genealogico che somiglia alla Torre di Babele.
In questi giorni ci è capitato di vedere un originale presepio che metteva in scena un deserto fatto di carta argentata dove i Magi sui cammelli sembravano perdersi, tra i riflessi incandescenti della enorme piana, persi benché sapienti, conoscitori delle vie terrene e di quelle del cielo. Una noche oscura del alma a dorso di cammello. Solo grazie all’astro trovano l’orientamento, vengono guidati alla rivelazione cristiana, al messaggio semplice che si fa beffa degli intellettualismi gnostici.
De stella magorum è il titolo di un sermone che Marsilio Ficino scrisse in occasione dell’Epifania. Vi si parlava di una stella-angelo. Ribaltando infatti la concezione degli irreligiosi, non era il racconto evangelico a nascere in occasione del fenomeno astrofisico, alla vicenda siderale ricostruita dagli scienziati dei secoli a venire, bensì una stella portentosa si faceva segno dell’evento divino.
Che le attese dei secoli confluissero negli anni augustei può essere considerato uno Zeitgeist ma può essere ricondotto anche a questo incontro tra il «vero Dio» e le ricerche di tutti i gentili che davanti a lui, il puer, confluiscono nel sontuoso corteo. La scena dei Magi anticipa quella degli apostoli che tornano indietro delusi perché gli ebrei come loro hanno respinto il messaggio messianico di rabbi Gesù e allora il Maestro li manda a con-vertire i Gentili che non attendono alcun messia. L’universalismo del Vangelo è testimoniato da quel corteo delle Genti, l’universalismo cattolico (con l’aggettivo che suona ridondante) si richiama a quell’esempio e la cappella berniniana e poi borrominiana del Collegio Urbano, della seicentesca centrale delle missioni nel mondo a Roma, si intitola non a caso ai tre santificati: Cappella dei Magi. Perciò l’indicazione evangelica sulla provenienza da Est si cambia, strada facendo, in una convergenza da i tre punti del mondo, figli dei figli di Noè, a significare le razze umane, cosicché quando fu scoperto un quarto continente la fantasia ideò anche un quarto Magio, in modo che ciascuno avesse una sua rappresentanza nella scena primaria. L’Occidente si misurò con l’ambigua sapienza orientale, questa l’infinita ermeneutica europea alla storia dei Magi; il Logos si espone al mondo dei colti che non lo conosceva.
Vi erano inoltre i riflessi luministici del platonismo, del neoplatonismo rivisitato dalla Chiesa bizantina, che fa della liturgia epifanica una festa della luce metafisica. La dottrina di Platone, tradotta nelle pratiche popolari diviene non ancora favola ma quantomeno una cornice fiabesca. I tre simbolici visitatori risplenderanno dell’oro che orna vesti e acconciature, qua e là a impreziosire il corteo, il viaggio, alludendo pittoricamente all'iperuranio, fin nelle bardature di cavalli e cammelli, come furono raffigurati dagli artisti toscani e in generale dell’Italia centrale, nell’epoca in cui Platone tornava al centro della nostra cultura. Fino a che il tema dei Magi nella Firenze del Quattrocento trovò un’accoglienza speciale alla corte dei Medici e in una Natività di Botticelli i maggiori rappresentanti della ricca famiglia prestarono le loro facce ai tre re del presepio.
Nonostante tutto, nonostante cioè questa presenza dei Magi, su cui si è ricamato assai, il racconto evangelico vuole essere storico, come le scienze bibliche hanno cercato di dimostrare. Ancora una volta, dunque, «il Natale non è una favola», spiega il papa-teologo.
Ma tanto pareva una invenzione letteraria che, al contrario, su questo elegante mistero si cimentarono due tra i sommi poeti del Novecento, Eliot e Yeats. Se il primo virò la storia dei Magi in chiave attuale, in un affollato e travagliato journey, l’irlandese trasse stille del suo «avvento del nuovo» vagamente teosofico e occultistico (ma la grandezza della sua poesia – diceva Giorgio Melchiori – penetrava «la fitta nebbia esoterica e mistica in cui sembrava perduto»), un gioco di occhi dei tre re che confusi (e respinti) dal «tumulto del Calvario» fissano i loro sguardi sul «pavimento bestiale» della mangiatoia, non solo il bue e l’asinello ma la violenza animalesca della nuova èra, la violenza cosmica della bestia apocalittica. Senza le pesanti armature teoriche, ben più natalizie risuonano i suoi versi per la povera Mabel Beardsley, sorella del raffinatissimo Aubrey, dove il poeta rivolgendosi alla Morte dice: «Perdona, grande nemica, / Senza pensieri iracondi / Abbiamo recato il nostro albero, / E abbiamo fatto acquisti qua e là / Finché ogni ramo ne fosse gaio, / Ed ella potesse vedere dal letto / Cose graziose tali da piacere / Ad una testolina fantasiosa / Concedile una breve dilazione, / Che conta se un occhio ridente / Ti ha guardato in faccia? Sta per morire».
Ancora del magico dalla notte epifanica. In queste ore, folle immense bloccano la parte rinascimentale della città di Roma per portarsi, senza alcuna convocazione, pubblicità, cartello indicativo, a piazza Navona, all’antico mercato natalizio, nei pressi del quale, secondo la leggenda, nei solai oscuri di case fuori del tempo si nasconderebbe nel resto dell’anno la Befana e i suoi Befanini, personaggi che comporrebbero il corteo volante, una specie di brigata dionisiaca cui è stato somministrato il battesimo (non c’è l’edera ma certamente gira il vino per riscaldare le notti fredde). Una tradizione sotterranea che non ha bisogno di proclami. Si va nella piazza dove si vendono cose dimesse che potrebbero essere acquistate in qualsiasi bottega della città, e ormai le bancarelle diminuiscono, crescono gli spazi vuoti tra una e l’altra sulla linea che riprende la forma pressappoco ellittica della piazza, con al centro il tripudio marmoreo di Bernini. Però i ragazzi sbandati delle periferie vi si recano in pellegrinaggio non imposto da una qualche moda. Ebbene questa festa tanto popolare, profondamente radicata nell’immaginario, sulla fine degli anni Settanta, fu abolita. Estirpata con un decreto governativo dal cuore delle famiglie. La cosa impressionante è che nessuno si ribellò. Molti mugugni, naturalmente, tristezza soffusa, ma non si fa la rivoluzione per una festa cancellata. Forse anche se decidessero da un giorno all’altro che il Natale è abolito, tutti soffrirebbero in silenzio ma nient’altro. La cancellazione della festa millenaria si volle soltanto per copiare male il resto d’Europa che non festeggiava.
La stampa aveva tormentato l’opinione pubblica sul fatto che nella penisola i giorni feriali fossero troppo pochi. Bisognava aumentare il tempo lavorativo, somigliare maggiormente ai paesi nordici, dimenticare il mondo mediterraneo. Nessuno o quasi ricordò con orgoglio il nostro modo di vivere, la nostra dolce vita; ci si batteva il petto con foga per i peccati di mancata omologazione. Del resto lo Stato unitario era nato circa centocinquant’anni fa proprio per spirito di imitazione. Una mini-Francia sembrava l’Italietta agli occhi di Dostoevskij che la derideva. Per imitazione della Francia si era perduto una particolarità, l’esser la penisola una specie di paradiso in terra, giardino che era patria a tutta l’umanità. Ma gli ultra-provinciali volevano sembrare nordici, si travestivano da weberiani e dimezzavano le festività, i santi popolarissimi nei paesi a loro dedicati, le piazze allegre, le luminarie, le processioni, le girandole, gli ozi. I burocrati presero una mannaia e colpirono con poco riguardo. Buttarono via l’Epifania senza magari far caso che anche la nordica e severa nonché protestante Germania, almeno per metà, manteneva nel calendario la celebrazione dei Magi. Così la terza festa, quella che le completa tutte, veniva a mancare. Recita l’adagio malinconico: «l’Epifania tutte le feste si porta via», sigillo della celebrazione invernale, della consolazione della morta natura, della speranza nella resurrezione che le vili decorazioni, gli scintillii infantili vogliono testimoniare. Una trentina di anni fa, quelle feste furono mozzate. Eppure non si trattava soltanto di Roma.
Si pensi per esempio a Firenze dove a Casa Medici venne istituita la Compagnia dei Magi, di cui facevano parte i migliori umanisti che, in eccelsa confraternita, organizzavano un grande corteo per le vie della città in una rievocazione del viaggio dei Magi, quello che Benozzo Gozzoli dipinse aggiungendo le scene di caccia, le gioie terrene, gli splendori della corte fiorentina.
Milano addirittura vantava le reliquie dei presunti corpi dei Magi che considerava protettori della città. Barbarossa mise a ferro e fuoco il Comune ribelle, si impadronì delle reliquie e se le portò a Colonia. Il culto tedesco restò fedele ai tre e l’arca che li contiene continua a essere mèta di pellegrinaggi. Ma all’inizio del Novecento, grazie all’amicizia tra l’arcivescovo di Milano e quello di Colonia, tornarono nella capitale lombarda delle reliquie ossee dei vecchi patroni. Nel dopoguerra riprese anche la tradizione del corteo dei Magi per le vie della città.
Né soltanto le capitali ricordavano il 6 gennaio, anzi soprattutto nel mondo contadino, nelle migliaia di paesi memori che costellano tutte le regioni d’Italia, si ebbero sempre in quella notte dei prodigi i fuochi e le sorprese gastronomiche e i doni e le tradizioni di eccentrici riti. Riti apotropaici, dicono gli antropologi, e delle superstizioni dei pronostici. Festa nelle case contadine davanti ai camini e festa soprattutto nelle stalle. Si voleva perfino che gli animali parlassero dei loro padroni nella notte di veglia. Intelligente fu l’idea della Rai novella di istituire la più grande lotteria dell’anno nel giorno dell’Epifania.
In un codice senese del XIV secolo si trova forse per la prima volta la menzione di una «festa de’ Magi», con «divota rappresentazione», ovvero corteo regale. Ma sicuramente a più lontano nel tempo doveva risalire queste usanze che continuano ancora oggi. Cortei paesani di reucci per un giorno, canti, poesie (quanto verseggiare sulla Befana!).
Per tutte, una filastrocca ubriaca, tanto che i saccenti la direbbero surrealista: «O Befana, mia Befana esci fuori dalla tana / con le calze color di rosa / buttaci giù qualche cosa!». Strampalata: la vecchia chiusa in una tana, come un animale, che si innalza cavalcando una scopa, montata in senso contrario a quello delle streghe dannate, per lasciar cadere dunque i doni dall’alto. Befana povera: non un dono specifico le si chiede bensì una qualunque cosa, una elemosina, una mercè. La donna carica di secoli non ha una divisa, veste di stracci raccogliticci, di improbabili colori, «con le scarpe tutte rotte», recita un’altra cantilena rimeggiata, addirittura delle calze rosa per la bizzarra e talvolta bisbetica maga.
Volando sulla penisola appaiono innumerevoli falò nella notte santa e magica: la vecchia viene bruciata, la vecchia viene invocata per i doni. Come in ogni rito importante, ecco il capro espiatorio nascosto ma non troppo, ammonirebbe René Girard.
Ma il cinismo degli anni Settanta buttò tutto all’aria. Si abolì la Befana e si abolì il latino nella liturgia romana. Son scelte diversissime, è chiaro, ma furono compiute con la medesima crudeltà. E santi veneratissimi dal popolo, nel medesimo tempo, vennero depennati da arcigni filologi che confondevano la Chiesa con una istituzione accademica; o semplicemente per l’acrimonia di parvenus della cultura che volevano rivalersi sui più semplici e far vedere ai parenti contadini che ormai padroneggiavano il latinorum.
A quel tempo i giovani scendevano in piazza per dileggiare i padri e i nonni. Si imponeva la gioventù, un nuovo soggetto del consumo, i vecchi dovevano essere eliminati dal mercato. Non erano i bonari sfottò, il perenne contrasto tra chi si pensa eterno e vede gli altri al lumicino ed esorcizza perciò quel giorno lontano, oppure l’orgoglio di chi ha capito qualcosa ma solo quando il tempo scarseggia. Si trattava di una inusitata battaglia politica. La generazione dei ribelli di allora, adusa oggi a esser coccolata dal plauso generale, dal rispetto dei più giovani che affabulano narrando delle loro gesta, non riescono neppure a immaginare una processione di garzoncelli che marciando con passo militare e grida orribili prenda a insultare in tono greve i loro simboli, il loro sacro, la loro persona. La vecchiaia come colpa, l’avvizzimento quale obiettivo ‘politico’ da colpire, lo squadrismo di ‘Giovinezza’ in opposto estremismo: si fa fatica a pensarlo ormai. E difficilmente potrebbe darsi uno spettacolo di tal fatta perché tutti si è imbrigliati oggidì nella cosiddetta ‘correttezza politica’ che vieta ogni pensiero non approvato dai potenti del momento, una dogmatica imposizione che non va violata neanche per quegli stupidi scherzi che sono le invenzioni del «contemporaneo». Ci si lasci andare, infatti, a uno sfottò sulla Costituzione, gli idolatri della Carta quarantottesca grideranno unanimamente allo scandalo. Allora vigevano o meglio sopravvivevano invece le buone maniere, che sono cosa ben diversa dalla correttezza politica, regole formali – quindi che non presuppongono alcun contenuto – per evitare la violenza fisica e verbale. La loro fragilità le mise in balia degli scarponi dei violenti. Attaccarono il passato come il male assoluto, distrussero ogni sorta di tradizione, di buona forma. La Befana fu tra i vinti. Ma in Russia non bastarono settant’anni di duro dominio degli atei, di uno Stato poliziesco degli atei, con polizie assai manesche, stanze di tortura diffuse, articoli del codice che comminavano anni nei Lager per gli spiriti religiosi, distruzione di chiese e conventi, scioglimento di ordini, vescovi e preti in catene: appena l’Urss venne giù tornò a galla il cristianesimo che non possedeva neppure più i libri sacri. A maggior ragione, appena la nostra festa dell’Epifania fu riammessa, tornarono le folle ai riti misteriosi della notte magica. Sempre più inconsapevoli tuttavia, sfumato vieppiù il significato religioso, gestita ormai la festa principalmente dai mercanti.
La notte dei doni però, almeno la notte, si sottrae, nei limiti di questo nostro mondo, a quello scambio forsennato. Non c’è il cinema e il sistema mediatico made in Usa a metterla in scena. Resta pur sempre una occasione in ombra, una riserva europea, una magia comunque segreta. Il racconto è affidato al conciso Matteo: «E aperti gli scrigni offrirono in dono oro, argento e mirra».
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