sabato 23 gennaio 2010

L'odio del bello

~ UN ALTRO FRANCESE CHE PRESE MOLTO SUL SERIO LA STUPIDITÀ DEL «CONTEMPORANEO», ATTACCANDO LA DISINTEGRAZIONE DEL SENSO. ~ CORNELIUS CASTORIADIS, MILITANTE DI SINISTRA, ATEO, EPPURE TURBATO DAL MARCHIO DEL BRUTTO SUL NOSTRO MONDO ~

Si apre un libro di un pensatore già dimenticato, Cornelius Castoriadis (greco di Costantinopoli, trapiantato a Parigi, 1922-1995), attratti da un suo titolo: La montée de l’insignifiance, saggi sparsi che meditano sul «letargo del contemporaneo», e si ritrova un altro pezzo della critica francese agli idoletti del nostro tempo, una corrente quasi segreta ormai, messa in ombra da quelle star mediatiche che avevano fatto morire l’uomo, il soggetto, il significato, la storia, i vari Barthes, Foucault, Derrida, Althusser. Quest’ultimo, invece di studiare quel che accadeva in Russia, si rintanava a leggere il Capitale, scriveva il Costantinopolitano beffardo. Veleni diffusi all’interno della sinistra?

Eccentrico militante politico, filosofo, psicoanalista, marxista sui generis, e già negli anni Quaranta contro il ‘socialismo realizzato’ dei sovietici, Castoriadis si distinse ben presto anche dai comunisti trotzkisti, assimilati agli altri nelle intenzioni benché senza potere. Ma ancora più singolare fu la sua decisione di sciogliere la rivista e omonima micro-organizzazione, «Socialisme ou Barbarie», antesignana di tutte le sette eretiche del gauchisme, nel 1967, alla vigilia dell’anno fatale, con la motivazione che l’epoca della sinistra volgeva al termine. Errore risibile di fronte alla marea della politicizzazione forzata degli ultimi Sessanta? O intuizione che quel gran vociare un po’ coatto era già il frutto di un sistema economico-tecnologico occidentale? Fin dagli anni Cinquanta aveva affermato: «nelle società del capitalismo moderno, l’attività politica propriamente detta tende a scomparire».

Su un punto lui e i suoi compagni ammettevano di «essersi ingannati»: aver creduto che le lotte operaie in Occidente, per usare i termini di allora, potessero andare oltre il conflitto salariale e incidere sui rapporti capitalistici, cambiando dunque il sistema sociale. Si accorse invece che la «privatizzazione delle masse» – interessante espressione – presentava un nuovo fenomeno: i giovani che si erano avvicinati alla loro rivista speravano soprattutto di «uscire dall’isolamento» al quale il sistema sociale «condanna gli individui». Una faccenda esistenziale. I movimenti impetuosi dell’anno seguente potevano perciò essere considerati come l’esplosione delle masse «privatizzate», della comunità infranta, della solitudine estrema, che faceva accorrere festanti folle di giovani convinti di aver dato vita a una comunità su scala parigina, immensa e attiva nei giorni del Maggio, a una tumultuosa parasceve. Lo psicoanalista che si distaccherà via via da Freud scriveva di «ossessione settaria, delirio isterico pseudo-attivista, delirio di interpretazione» dei primi «gruppi di estrema sinistra».

Lasciò da parte il marxismo mentre i Sartre affermavano essere la «filosofia insuperabile del nostro tempo». Quindi fu la volta del freudismo. Andando indietro con la memoria, mostrava ancora stupore per il fatto che venissero considerati «rivoluzionari» gli anni e i movimenti che si rifacevano al «potere totalitario dei Mao». Neppure quell’imbarazzo, quel pudore che si riscontrò negli ex-fascisti, bensì un allegro vanto, un’innocenza perennemente puerile.

Sul «folclore» della trasgressione politico-sociale parlava vedendo molto lontano, il nostro presente, il linguaggio della letteratura trendy e vittimista: «la devianza non è mai stata rivoluzionaria, oggi non è più neppure devianza, semplicemente negativo che serve alla ‘pubblicità’ culturale». Con minore burbanza del discorso francese, Arbasino metteva in scena la Casalinga di Voghera che, raggiunta da questa ‘pubblicità culturale’, «si scatena nelle frasi più fatte della provocazione e della trasgressione: controcorrente e fuori dal coro – come tutti – irriverente e dissacrante…».

Nel testo con cui «Socialisme ou Barbarie» si autodissolse (rintracciabile nel web come molti scritti di Castoriadis) si parlava dei saperi marxiani e freudiani che […] ridiventano ogni giorno fonte di nuove mistificazioni». Perciò lui e i suoi mettevano da parte la prassi e si dedicavano allo studio, aspettando tempi più favorevoli alle loro credenza rivoluzionarie. Ma attese a parte, quel che conta sono le analisi, peraltro incredibilmente sintetiche rispetto ai verbosi intellettuali normaliens del tempo.

Tra le macerie del museismo

«Il progresso è un significato immaginario essenzialmente capitalistico, dal quale lo stesso Marx si è lasciato prendere», notava. La centralità del Logos ebraico-cristiano si era intanto trasformata in fede progressista, progresso monetizzato nell’espressione «innalzamento del livello di vita». Per mantenere ardente questa credenza si dovette velare il dettaglio storico non piccolo che la vittoria sul nazismo era stata accompagnata dalla conquista di mezza Europa da parte delle truppe staliniane, pronte a imporre una nuova schiavitù. Così andava dicendo, pressoché isolato nell’entusiasmo parigino per le magnifiche sorti dell’umanità, lontano vieppiù dal marxismo e da ogni forma di progressismo. Un conservatore di sinistra? Un rivoluzionario conservatore?

Ammetteva che i movimenti – giovanili, femminili, etnici, ambientali – hanno «cambiato il mondo occidentale» ma, aggiungeva subito, «lo hanno reso meno vivibile ancora». La litania di sinistra dovrebbe tener sempre presente un simile controcanto. Questi movimenti – spiegava – si limitarono alla distruzione, mai offrendo un progetto in positivo. Ne derivarono la disintegrazione dei ruoli tradizionali nella famiglia, l’impoverimento della istituzione scolastica. Uscendo allora da un famiglia debole e da una scuola che non sa più che cosa insegnare, il giovane individuo si trova davanti, in luogo delle norme, l’imperante consumo.«Né religione, né idee ‘politiche’, né solidarietà sociale con una comunità locale o di lavoro, con i ‘compagni di classe’». Se non si marginalizza per droga o delinquenza, «gli resta la via regale della privatizzazione» nella società delle lobbies e degli hobbies. Disorientato dunque da tanta anomia, l’individuo che ne deriva è «perpetuamente distratto, costretto a fare zapping da un ‘piacere’ all’altro, senza memoria e senza progetto, pronto a rispondere a ogni sollecitazione della macchina economica».

«Il sistema educativo classico si nutriva dell’‘alto’, della cultura viva della sua epoca. Per sua disgrazia, è anche il caso del sistema educativo contemporaneo. Così questa cultura è sempre più un mescolamento di impostura ‘modernista’ e di museismo». Già, perché «è un bel pezzo che il ‘modernismo’ è divenuto un vecchiume». Sono ammessi plagi delle prime avanguardie grazie al neo-analfabetismo del pubblico. Mentre «la cultura del passato non vive più in una tradizione, diventa oggetto di sapere museale e di curiosità mondane e turistiche regolate dalle mode». Pian piano, la storia, il commento e l’interpretazione prendono il posto del pensiero che crea, nonostante l’abuso di termini come creativo e artista. Basta sfogliare i mastodontici cataloghi delle mostre o le didascalie dei musei: acidi appunti di maestrine senza fantasia.

Quantomeno la società attuale non sa autorappresentarsi, sono entrati in crisi i «significati immaginari sociali», non c’è più un equilibrio che renda vivibile l’esistenza degli individui. Le società del passato – precisava – non rendevano felici i propri membri, ma possedevano almeno un senso. Oggi dalle «masse privatizzate» la società viene vissuta come una imposizione alla quale imputare tutti i mali del mondo chiedendole al contempo tutti gli aiuti possibili.

Una volta, di fronte alle solite recensioni acclamanti per un qualche vezzo i libri di sprovveduti, scrisse una lettera al «Nouvel Observateur» dove tra l’altro affermava: «Nella ‘Repubblica delle Lettere’, vi sono – vi erano prima dell’ascesa degli impostori – dei costumi, delle regole e degli standards. Se qualcuno non li rispetta, spetta agli altri di richiamarli all’ordine e di mettere in guardia il pubblico. Se questo non avviene, lo si sa da lunga data, la demagogia incontrollata conduce alla tirannide. Essa genera la distruzione – che progredisce davanti ai nostri occhi – delle norme e dei comportamenti». Proviamo a sostituire ‘Repubblica delle Lettere’ con ‘Repubblica delle Arti’: c’è qualcosa che vi suona familiare? E nell’‘innocente’ gioco delle parodie e dello scherzo, come non trovarvi i rischi verso cui mette in guardia l’austero Greco: «Non levarsi contro l’impostura, non denunciarla, significa rendersi corresponsabile della sua eventuale vittoria. Più insidiosa, l’impostura pubblicitaria non è, sul lungo periodo, meno pericolosa dell’impostura totalitaria. Con mezzi differenti, l’una e l’altra distruggono l’esistenza di uno spazio pubblico del pensiero, del confronto, della critica reciproca…». La censura tanto paventata è sempre in vigore, prepotente quanto più subdola: perché viene avvolto nel silenzio tutto ciò che non si piega alla moda imperante e alla divulgazione, alla faciloneria. «Il pudore è un’evidente virtù sociale e politica: senza pudore non c’è democrazia. (Nelle Leggi, Platone vedeva molto giustamente che la democrazia ateniese aveva fatto meraviglie per tutto il tempo in cui il pudore, l’aidôs, vi regnava). In queste materie, l’assenza di pudore è ipso facto disprezzo dell’altro e del pubblico». D’accordo, qua e là si affaccia il vecchio spirito giacobino, ma un Robespierre pudico nelle proprie virtù non è minaccioso.

Sapeva pure rendersi conto che se un Breznev sembrava avere un’autorità per forza di inerzia, Reagan possedeva di nuovo l’autorità carismatica di cui parlava Weber, benché ridotto a un «talento particolare di una specie di attore che gioca il ruolo di ‘capo’ e di ‘uomo di Stato’». Scopriva insomma che in Occidente, magari in forma quasi mimetica del grande carisma, il politico tentava di uscire dalla routine burocratica. Erano gli anni in cui la tragica definizione schmittiana «Sovrano è chi decide lo stato di emergenza», la kierkegaardiana Grenzsituation, il caso limite, diventavano qui da noi slogan per la mitologia del fantasioso socialismo lombardo (senza maggioranza e senza popolo) e teoria confusa per tardo-operaisti machiavellici, che dovevano aver dimenticato le insolenze di Schmitt per il «romanticismo politico». Di quel ‘decisionismo’ nell’epoca della fine della politica, Castoriadis riusciva almeno a cogliere l’aspetto parodistico.

Nell’Ottantanove, poco prima del crollo del Muro, sposterà sempre più l’attenzione dall’Est all’Ovest, alla crisi profonda dell’Occidente. Di nuovo un errore di prospettiva? Piuttosto che ridurlo a un teorico fuori orario, sarà meglio considerarlo un pensatore che avverte le novità del mondo in maniera meno piatta dell’opinione pubblica e della intelligencija francese. Il Greco conosce bene la parola densa della sua lingua, Kairos, il tempo opportuno, il tempo cruciale, con una valenza teologica quindi, il tempo della manifestazione divina, la benjaminiana Jetztzeit, il tempo-ora, il qui e subito. Fu forse la sua unica concessione esplicita all’aspetto religioso.

Chi è il critico contemporaneo?

Provò ad abbozzare un’analisi della cultura dei quasi analfabeti, ovvero quella contemporanea, alla moda: molto chiasso, frizzi e lazzi, polemiche misere, totale ignoranza del passato, ripetizione ad libitum di frasi fatte, incapacità di scrivere con una sintassi aguzza, organizzazione capillare del proprio lavoretto in modo che i lettori ripetano a loro volta le piccolissime verità o non-verità con un discreto entusiasmo…

Nonostante tanto civettare con gli echi della storia dei post d’ogni sorta, si registra la «più perfetta estraneità verso il passato»: questa la vera novità dei nostri giorni.

Il saccheggio del passato a opera del post-moderno lo tratteggiava così: «l’avanzata dell’eclettismo, del collage, del sincretismo invertebrato, e soprattutto la perdita dell’oggetto, la perdita del senso» procedono «di pari passo con l’abbandono della ricerca delle forme» (questa e le successive citazioni sono tratte da una raccolta di saggi di Castoriadis tradotta in italiano: Finestra sul caos, Elèuthera, Milano, 2007).

Di fronte all’«apparente esaurimento della creatività occidentale», lui non si arrendeva. Il ridicolo di certi salottinetti, tinelli anche virtuali, dove un po’ sgomenti si dibatte a vuoto sulla crisi dell’arte senza rinunciare ai cliché sul contemporaneo, la resa alla non-arte, l’odio per la bellezza comunque mascherato o la deformazione della bellezza comunque giustificata: Castoriadis insiste all’opposto sull’assurdità di porre limiti storici alla vis formandi, ovvero sull'assurdità dei precetti ideati dagli addetti al business culturale: non si può più dipingere, scolpire, ecc. (E guai se un politico cerca di arginare con buone intenzioni lo strapotere del mercato – tanto per scivolare nelle piccole vicende di casa – , incaricando un pubblico funzionario di mettere un qualche confine: subito gli si chiederanno le credenziali, i titoli, le specializzazioni negli inganni che il mercato stesso ha inventato e teso.)

Quanto ai vituperi che si usa lanciare contro la nostra civiltà, questo strano militante di sinistra si tenne lontano dalla pratica corrente della lapidazione concettuale. La cultura occidentale sarà stata pure quella capitalistica, imperialistica, colonialistica, ma – Castoriadis si diceva convinto – era pure molto altro. René Girard – che comunque non si trovò granché d’accordo con lui nei rari incontri pubblici – ha insistito sul fatto che noi occidentali, noi europei siamo etnocentrici come tutti gli altri ma attraverso «una passione per l’autocritica» riusciamo a essere anche il nostro opposto, anche il nostro nemico. Unici. Per merito della cultura ebraico-cristiana. Da quella stessa cultura, però, può derivare un «conformismo in negativo», la genuflessione verso tutti gli altri, il rifiuto dell’eredità, l’abbandono della nostra eleganza di pensiero. Del resto, si osservi un esempio ricorrente: se ho nostalgia delle formule liturgiche in latino sono un reazionario, un bieco codino; se gli zingari vivono e vogliono far vivere i loro figli in un nomadismo del peggior medioevo (almeno secondo quanto se lo immaginano i progressisti), vanno rispettati come una nobile cultura dissenziente.

In un mondo così, difficile creare arte, non «prodotti culturali» – diceva – che sempre si accumulano nei depositi delle industrie operanti in tale settore; difficile fare libri e non «oggetti a perdere». Nel supplemento del «Sole-24 Ore», omelie domenicali della sinistra imprenditoriale, il 17 gennaio scorso, si poteva leggere a pagina 2, un colonnino insolito, quasi un’eco di questa condanna della produzione industriale di libri spacciata per ‘cultura’: ««uno degli equivoci più diffusi sulla nozione di cultura è che sia di per sé un valore garantito». Invece, «ciò che troviamo e ci viene offerto in una mostra, in una libreria, in un concerto, non è cultura se non quando pronunciamo un giudizio compiendo delle scelte». Ma per i più basta la parola: cultura, il feticcio agitato, custodito nei musei come in un tempio della magia povera, simile a quella che turlupina i vecchi in televisione. «Non c’è cultura se non c’è critica. Nei casi in cui la capacità valutativa si indebolisce oltre un certo limite, la cultura si trasforma in un puro settore merceologico».

La critica ha la sua responsabilità. La stampa, a sua volta, «si inventa genî fittizi» e «ha distrutto la funzione critica». «A una prima approssimazione, la critica contemporanea è nulla». Articolando quindi il giudizio sprezzante: «quella che viene fatta passare per critica è promozione commerciale, cosa del resto assolutamente giustificata, data la natura del prodotto che si tratta di vendere». Ma per pudore, invece di promozione e pubblicità la si chiama con l’anodino termine di informazione. E già nel 1979 spiegava il meccanismo che, certo, a Parigi doveva risultare più chiaro che a Roma: la critica/réclame «porta alle stelle qualsiasi prodotto di moda nella stagione e per il resto non disapprova niente, tace, seppellisce sotto il silenzio». Perché è convinta che «all’inizio le grandi opere sono quasi sempre incomprensibili e inaccettabili», e quindi «non osa mai criticare». Maledetto presupposto di una teologia animistica che blocca la reazione normale del pubblico, che fa battere il petto ai vescovi, ai professori, a tutti. Perciò i critici sono incerti per scarso sapere, intimiditi, mediocri insomma. Perciò Castoriadis conclude con una battuta diventata famosa tra i suoi lettori: «il mestiere di critico contemporaneo è identico a quello di operatore di Borsa: indovinare ciò che l’opinione media pensa che l’opinione media penserà».

Ancora l’eco nell’articolo sul «Sole-24 Ore»: «il punto di maggiore debolezza nella cultura occidentale negli ultimi due o tre decenni è il declino della critica, sia letteraria sia artistica». Senza i limiti del giudizio si arriva al punto in cui «fare arte appare come un diritto aprioristico degli autori, come un valore da riconoscere a posteriori». Pare inopportuno «esprimere valutazioni». Anche per la filosofia, piuttosto che dibattiti, i festival in cui si sfila in passerella.

Si evoca Baudrillard, e al suo seguito si accorgono in molti che le forme avanguardistiche sono la migliore réclame delle merci. Castoriadis va oltre, mette in evidenza «la massimizzazione avanguardistica del consumo». Quello che chiamiamo il «contemporaneo» è un’arte di vendere il nulla o quasi, una tecnica spesso abilissima di vendere qualsiasi cosa, anche la più irritante. «Quanto tempo questa umanità resterà ossessionata dalle inanità e le illusioni chiamate merce?» si chiedeva sconsolato Castoriadis.

Da queste poche citazioni si capisce bene come egli fosse un filosofo assai severo, che non sembrava possedere quelle qualità mediterranee di «lusso, calma, voluttà», forse anche per il dressage marxista e freudiano, e come si presentasse alla ricerca di senso quasi si trattasse della ricerca di Dio, benché ateo convinto, con il gusto stoico dell’eroismo. Se l’opera non dura, non ci sopravvive, non resta che ricorrere ai sonniferi per vivere, concludeva.

L’arte atea

La domanda essenziale se la ripeteva spesso: «può esistere la creazione di un’opera in una società che non crede a niente?». Un bel problema. Hegel aveva già detto: « è Dio, è l’ideale che costituisce il centro. Non esiste bello o vera arte che non si caratterizzi per l’adeguamento del sensibile alla verità divina. E quando ciò non è più possibile, come accade oggi, non esiste più arte». Perfino questo annuncio della ‘morte dell’arte’ era stato camuffato da questioni soggettive, da capricciose scelte dell’artista.

Quello che Castoriadis chiama la vis formandi, pur nascendo dal caos assoluto, dalla mancanza di fondamenti, dalla sua visione ‘atea’, dà poi vita alla creatività umana, non si crogiola nell’informe, bensì appunto organizza la forma, con qualche apparentamento divino.

La sublimazione, diceva, correggendo a suo modo Freud, è la rinuncia al piacere organico, perfino al piacere della rappresentazione privata, per investire in qualcosa che abbia un significato sociale, sosteneva il vecchio militante in modo da salvare così l’agire dell’uomo religioso e dell’artista che si spingono a ricostituire l’unità dell’essere. Il simbolico e l’immaginario non si limitano, come riteneva Marx, a «rivestire» il funzionale, hanno invece un ruolo specifico nel dare senso al nostro mondo. Ecco la fulminante definizione: «La grande arte mentre dà forma al caos lo disvela e, nello stesso tempo, crea un cosmo»

Si cancella la memoria del passato, si realizza la tabula rasa invocata dagli avanguardisti. Ma poi, in luogo della «memoria viva», si allestisce una «memoria morta ipertrofica», le biblioteche, i musei, le banche-dati, ecc. Ne valeva la pena?

Come può esserci nuovo se non c’è tradizione viva alla quale reagire in modo dialettico? Come non finire nell’orpello se appunto l’arte non trova nella società alcun valore su cui appoggiarsi? Si ripiega sul denaro, si potrebbe rispondere.

«Dove non c’è presente – sosteneva – non c’è neppure passato. Il giornalismo contemporaneo inventa ogni trimestre un nuovo genio o una nuova ‘rivoluzione’ in questo o quel campo. Sono espedienti commerciali efficaci per far funzionare l’industria culturale, ma non sono in grado di nascondere un fatto lampante»: la cultura contemporanea non esiste. Naturalmente a una simile affermazione si scateneranno i luogocomunisti: il fatto di denominarla così è già una prova dell’esistenza di una tale cultura anche se non somiglia a quella che il nostalgico vorrebbe; hic Rhodus hic salta, dice il solito bonario di sinistra travestito per l’occasione da cinico splengleriano. Sofismi smentiti dal nostro cattivo umore: non esiste, non esiste.

«La maggior parte della letteratura attuale si contorce su se stessa per inventare nuove forme quando non ha più niente da dire, né di nuovo né di vecchio; quando il pubblico l’applaude, bisogna capire che sta applaudendo a un numero di contorsionisti». Se così fosse sarebbe tutto sommato uno sforzo lodevole, circense magari, ma degno di un plauso. Si può battere le mani però a un esercizio annoiato e vagamente aggressivo?

Tutte le arti di oggi gli apparivano insopportabili: «Quando si osservano le realizzazioni dell’architettura contemporanea, una soddisfazione c’è: si può pensare che se non cadranno in rovina nel giro di trent’anni, saranno comunque demolite in quanto obsolete».

«Società che non hanno creato niente di bello»: i peggiori regimi lasciavano trapelare anche nell’arte ufficiale qualche barlume di bello. Perciò il marchio del brutto, così diffuso nel nostro mondo, appare inquietante. E non è vero – diceva acutamente – che la faccenda nei sistemi totalitari riguardi la mancanza di libertà. In Stati del passato assai poco costituzionali si ebbero dei capolavori cui ci inchiniamo. Erano i tiranni a rivestire i panni dei committenti, con richieste precise, in onore dell’ordine stabilito e del suo sovrano. Perché oggi nel liberissimo Occidente mancano allora i capolavori? Perché l’artista creava per la credenza della società e lui stesso vi credeva, sostiene Castoriadis. Ma al cretinismo imperante nell’Urss nessuno sembrava prestare fede. Così come nel laicismo approntato dai nostri dottorini sottili nessuno può credere davvero, trattasi di uno sciocchezzaio scettico e basta. Infatti non c’è più arte o quasi. Purché non si confonda la «forma perfetta per il caos» con la feticizzazione del caos, con la sua celebrazione disordinata.

La malinconia degli atei

Di tanto in tanto conservatore con un animo anarchico, con una memoria di frequentazioni sovversive, lasciandosi andare alle frasi fatte su immigrati e poveri del mondo, riuscendo peraltro in altri momenti a distinguere egregiamente. Espone bene il vuoto della società occidentale, mascherato male dalla «mistificazione scientista», si rende conto della necessità di un controllo («stavolta non ecclesiastico») della ricerca scientifica onde tenere a bada la disumana hybris, scorge la fede nella tecnologia, nella sua onnipotenza, e la attribuisce alla paura della morte, ma poi ostile alla religione, meglio, convinto dei suoi presunti inganni, cui l’essere umano e l’intera società dovrebbero emanciparsi, è costretto ad accettare la morte. Più coerentemente di certi atei giulivi, predica che «un essere non può vantare la propria autonomia se non ha accettato la propria mortalità». All’insegna della morte si afferma la lunga e radicale emancipazione umana. Senza illusioni e senza religione, questi piccoli atleti dello stoicismo di sinistra si rivolgono a un’umanità che non può seguirli. Vediamo allora il Franco-Bizantino che seppe dir di no agli stalinismi di varia natura, che non si lasciò abbagliare dalle ideologie e dalle mode, né dagli inganni ottici della storia, ripiegare su un’arte che rimpiazza la religione e consola di una vita nella speranza, sempre frustrata, di cambiamenti politici del mondo: «la grande arte – dirà in una celebre intervista – è sia una finestra della società sul caos, sia la forma data a questo caos (laddove la religione è la finestra verso questo caos, e la maschera posta sul caos)». Affannate metafore, sempre una maschera o quantomeno un velo sarà pure l’arte di fronte alla flagranza esistenziale. Ma l’onesto pensatore arriva a credere che «l’arte è una forma che non maschera nulla». L’arte sarà un discorso veritiero, un monito severo che rimette in discussione il mondo, una terribile lezione in forma di seminario dal quale si esce cambiati e pronti a cambiare il mondo. Difficile concezione dell’arte per poterla coniugare ancora con la democrazia, anzi per trasformarla nella coscienza pubblica, invocando un Shakespeare che si fa «garante del senso» senza mai, a suo dire, ricorrere a Dio. Torna all’orecchio Mensonge romantique et vérité romanesque di René Girard, che pur accettando la verità (nascosta) dei romanzieri mostra altresì le menzogne romantiche.

La parola d’ordine conclusiva di Castoriadis sembra essere «autolimitazione», frutto di un’etica frugrale. Il vecchio rivoluzionario arriva a una conclusione che evita ormai ogni insubordinazione: l’ordine, la disciplina, la regola sono gli antidoti dell’hybris. L’anarchico si fa anarca, senza le jüngeriane virtù però, e immagina una comunità planetaria di autarchici, poco realistica. Ateismo e sobrietà. Oppure, in altri momenti, concepisce «una immensa istituzione educativa o autoeducativa», che fa pensare all’ormai lontano socialismo dei maestri di scuola. Se sa destreggiarsi senza scivolare nelle trivialità di un mondo dove sono tutti artisti, che è quello iperconsumistico delle false scelte nelle voghe imperanti, costretto dal suo ultrademocraticismo, approda a una comunità dove son tutti ‘creativi’, dove «tutti gli individui siano aperti alla creazione», si spera senza per questo ricadere nel ‘museismo’ di cui altrove Castoriadis lamentava l’onnipotenza nella cultura di oggi. Eppure sarebbe fare un torto al suo rigore se si riducesse alla farsa degli artistoidi di massa, dei corsi di creatività, dell’arte-terapia, le sue aspettative in questo campo. In realtà, quello che sottolinea con forza è l’esigenza delle grandi opere, proprio quelle negate dalla vulgata contemporanea. Giustamente relega la questione del «genio misconosciuto» nel solo periodo della fine Ottocento, un fenomeno limitato che viene agitato terroristicamente per tutto il secolo passato e per il nostro in modo da garantire a ogni sfizio la sua legittimità, temendo uomini e istituzioni di commettere il peccato mortale della società moderna: non accorgersi della genialità di qualcuno, come dire, nei secoli passati, della grazia e della santità. Castoriadis tende invece a limitare le figure di ‘geni nascosti’ a causa della sua concezione dell’opera come riflesso collettivo, espressione della società. Così l’avanguardia è il segno di una società divisa, malata, tra una cultura «pompiere», borghese, e una che si risolve nell’épater le bourgeois. E contrappone un po’ ingenuamente tale scissione proprio alla musica di Bach che avrebbe ottenuto il consenso del «popolo» addirittura. Gratta tra i fondamentali della sinistra onesta e generosa: rispunteranno le vecchie credenze romantiche.

Per quanto riguarda questa insistenza sulla necessità di accettare la propria finitudine – la malinconia degli atei, avrebbe detto Lorenzo Magalotti – Castoriadis teneva a precisare che la differenza con il pessimismo lugubre degli heideggeriani e dei decostruzionisti sarebbe stata nella «passività» di questi versus l’attivismo predicato dall’ex marxista. Nulla si può dire del nostro oggi, secondo questi filosofi, perché tutto è stato detto, quindi – insinuava il loro critico – non si possono esigere spiegazioni, né della società né dei suoi prodotti. Se un racconto vale un altro, insisteva contro il relativismo di Derrida e dei suoi esegeti, «in nome di cosa condannare il ‘racconto’ hitleriano e quel che esso comporta?». Il post-modernismo, concludeva, era «l’espressione più cinica del rifiuto (o dell’incapacità) di mettere in questione la società attuale». E pensare che quel che resta della sinistra italiana si genuflette davanti alla parolina che ci separa dal passato, forse sperando di cancellare sogni e colpe che a quel passato appartengono; lei l’apriti-sesamo delle sue pagine culturali, dei suoi abbozzi di teoria, del suo pensiero, lei che sparge un funereo velo sull’intera realtà: post.
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