giovedì 25 marzo 2010

Mistero ocra

~ «VEDRÀ L’ONESTO VISITATORE», CHE PER CASO ENTRI ALLA GALLERIA D’ARTE MODERNA DI ROMA, I QUADRI DI FAUSTO PIRANDELLO DOVE LA QUOTIDIANITÀ DESOLANTE AMATA DA TANTE AVANGUARDIE SI TRASFORMA IN PITTURA. ~

«Ho provato a uscire dal casuale e dall’occasionale per quanto mi fosse possibile e per quanto ne valesse la pena». Così diceva in una nota modesta di presentazione della sua pittura Fausto Pirandello. I più idolatrati luoghi comuni del romanticismo e poi delle avanguardie, il Casuale e l’Occasionale, erano evitati con una manovra avveduta, che li svuotava della loro sacralità: quanto varrà mai assoggettarsi alle strategie dell’arte? E, sempre fedele al sottotono, in un altro scritto chiamava in questo modo a testimone della probità di intenti: «vedrà l’onesto visitatore…».

Se l’«onesto visitatore» in un pomeriggio pigro di marzo vuole partecipare a una inaugurazione di pochi alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, dove si allestisce «Fausto Pirandello alle Quadriennali del 1935 e del 1939», deve prima attraversare un’ampia sala riempita di oggetti, un set di insegne pubblicitarie smontate, che non ostentano il tono beffardo del trovaroba surrealista, né tampoco il freudiano Unheimliche, bensì esumano risate di coattoni che si misero a copiare trovate americane con la voglia, sembra evidente, di far soldi miracolosi. È la rassegna del pop italico, tirato fuori dai magazzini o dalle consuete nicchie dove non colpisce più l’occhio assuefatto a ben altro, messo in mostra con la scusa di vivificare le collezioni, ossia toglier loro la polvere, o forse giustificare un acquisto collocato subito in cantina; ma gli oggetti inanimati restano tali, inutile testare i gusti dei posteri, né per tali balocchi di adulti s’accende la nostalgia, «cattive cose di pessimo gusto». Si sale quindi a un primo piano inzeppato di video ‘femministi’– resti di iniziative espositive viennesi – e, pur procedendo a passo speditissimo, lo sguardo distratto resta impigliato in raffigurazioni ossessive di gesti quotidiani delle donne, spazzolature dei capelli, armeggiare in cucina. Ora la medesima quotidianità si ritrova nelle salette dedicate alla pittura di Pirandello, magari in chiave più oziosa (bagni, spiagge, abbandoni sui letti) – mescolata a piccoli miti provinciali, echi del picassismo imperante, devozioni a Bracque, con impianti cubisti depurati d’ogni avanguardismo e più simili a cosmologie presocratiche –, ma non si frequenta impunemente de Pisis e de Chirico a Parigi, la quotidianità diventa pittura, buona pittura, questo il punto, mentre nelle sale dell’«avanguardia femminile» l’ordinario, benché avvolto d’aura feticista, resta documento sociologico, forse utile in un’università che studia simili temi, fuori luogo in un museo. L’«onesto visitatore» della piccola rassegna pirandelliana viene invece irretito dall’ocra e dal grigio, dalla patina arcaica che trasforma mediocrità e bruttezza pur non rendendole affatto belle. Animaleschi restano volti e corpi, maschili e femminili – questa mancanza di beltà è un forte segno del ‘moderno’, testimonia in incisive forme l’incanto perduto. Con il brutto, il selvatico, il tanfo del bordello, i sorsi di vino pesante e annichilente, i cori di sgraziati sullo sfondo, eccoci reso un universo combusto, fuoco empedocleo, senza ricorrere al gesto puerile di bruciare la plastica fuor di metafora, come in esempi conservati più in là in questi stessi ambienti. Una greve modella si stende nel quadro della Pioggia d’oro, intitolato così forse per evocare gli splendori del mito, ed è un’apparizione che attesta come anche attraverso miseri elementi un artista sappia far splendere il mondo. «Magischer Realismus» fu la formula cui ricorse Ernst Jünger, dopo il «realismo magico» dechirichiano, per decifrare i segni degli oggetti quotidiani, per la loro ermeneutica. Realismo senza orologi e senza Storia, dunque pieno di mistero, ma un mistero nient’affatto oscuro.

La critica saprà abusare piuttosto dell’aggettivo crudo (non a caso tale qualificazione fa parte del gruzzolo dei più ripetuti epiteti nelle recensioni, secondo l’enumerazione che una letterata americana si è recentemente divertita a fare), magari per non dire osceno. Come infatti l’osceno, il violentemente arcaico, possa avere una valenza metafisica è una bella questione, che Girard riuscirebbe a chiosare da par suo. Non la «futile violenza espressionista», come scrisse saggiamente un suo amico introducendo un catalogo, sarebbe più giusto ricorrere al senso del peccato, alla soverchieria del nostro stare al mondo, quell’intreccio tra eros e peccato di cui i migliori pittori hanno saputo sempre dirci qualcosa e che negli anni Trenta del Novecento sembrava trovare il suo ultimo asilo nella Penisola paradisiaca.

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