Citazione 25 Aprile
Gian Lorenzo Bezzi Mellini: «S’era alla fine di giugno [1944], i contadini stavano rientrando dai campi dopo la mietitura, all’improvviso s’udì un frastuono di automezzi e un vociare concitato, si levò un gran polverone, ci fu un fuggi fuggi e quando tornò il silenzio era un silenzio diverso, assoluto, quasi irreale. Non visto osservai varcare il portone del nostro cortile almeno una dozzina di soldati in fila, gialli di pelle e di pelo, gli elmi quadrati dal profilo saettato, le baionette innestate, le tute mimetiche a sbuffi, le bombe a mano infilate nella cintura, gli scarponi chiodati, gli sguardi senz’anima. Trascinarono via con forza tutti gli uomini validi, tutti gli animali, il giorno dopo si vedevano ancora fumigare gli incendi. Ricordo, questa volta dal vivo, mio padre, il quale pur odiando la guerra aveva un alto senso della disciplina militare, parlare in tedesco senza incrinature a uno di essi, dalle cui labbra sentii per la prima volta in un italiano stentato (l’unica che udissi da uno di loro): “la gvéra è gvéra”, che mi parve originale e crudele ed era solo un orrido stereotipo. Che s’instaurasse per noi ragazzini, anche se non si era in grado di valutare la situazione (ma chi allora lo era?) un clima di estremo disagio se non di terrore fu inevitabile, per l’impressione che faceva su di noi l’immagine degli adulti.
Ricordo ancora quando mia madre, dopo una notte insonne, riuscì a comporre e a vergare messaggi; uno dei quali, ai genitori suoi, voglio qui riportare dal biglietto ingiallito e consunto, perché dopo quasi mezzo secolo, cadute le passioni e obliati gli affanni, pare la traduzione letterale di un inedito frammento classico di spoglio e tragico pathos: “Ieri sera Giuseppe, Luigi, Celso, Marino e tutti gli altri uomini del paese sono stati presi e portati via… Non si sa ancora dove siano e dove andranno. Sono ore di angoscia… Sui monti vicini si sentiva, come nei boschi, il fragore del rastrellamento. Ora è calato un silenzio sinistro e grave. Quassù non si può comunicare con nessuno: solo il Signore ci vede… Anche le stalle sono vuote: ma nulla sarebbe, pur se si salvassero i nostri uomini. Non disperate, non piangete: pregate, pregate, pregate. E fate pregare”. […]
[aprile 1945] Nel giorno dell’ira la natura violata assisteva indifferente al massacro, così come noi ne ascoltavamo il racconto senza battere ciglio, provati da troppe paure, astinenze, tensioni. Anche altri racconti crudeli mi trovarono del tutto insensibile. Si favoleggiava di un tedesco che, pazzo di giubilo per aver udito prossima la fine della guerra, aveva esploso un caricatore e una pallottola di rimbalzo l’aveva fulminato. Un altro tedesco, questa volta un cecchino, aveva sparato un colpo mortale contro un carro alleato: subito catturato, era stato legato e schiacciato sotto i cingoli (per una manciata di secondi avevo mancato lo spettacolo). Non mancai però di vedere dietro la scuola una lunghissima fila di prigionieri con le mani in alto. Soldati americani provvedevano minuziosamente a spogliarli di ogni effetto, gettando portafogli, orologi e altri oggetti personali in un mucchio. Pareva un’operazione burocratica ma quando un prigioniero fece un gesto naturale di rammarico al vedere sparse per terra le foto dei familiari, si beccò un paio di sonori schiaffoni. Poco lontano, sui gradini del teatro, alcune donne, costrette su delle sedie da decine di mani venivano rapate a zero come pecore: talune anche belle, le cosiddette ausiliarie, si cuccavano oltraggi nefandi non solo a parole, perché venivano ferocemente palpeggiate e pizzicottate. Avevano un colorito terreo e tacevano, forse temendo il peggio. Ma ve n’erano anche di anziane ed era un gran brutto vedere; le loro strida salivano al cielo. Un soldato di colore aveva sfregiato col pugnale una ragazza che lo aveva respinto: la sera il suo comando aveva già provveduto a farlo appendere a un albero…
E tanto basti, perché non voglio sollevare il velo su altre innumeri atrocità che mi vennero per caso all’orecchio, se non davanti agli occhi, e di cui rimasero segnati quei giorni di trapasso. […] Nemmeno quell’esplosione di gioia e di salute collettiva, dopo tanta atrocità, poté mettere argine alla faida civile, triste inevitabile coda d’ogni guerra, a partire dalla notte dei tempi…». (da Petra Mala. Centiloquio, Edizioni Bolis, Bergamo 1991, pp.66-88; 156-158)
Gian Lorenzo Bezzi Mellini: «S’era alla fine di giugno [1944], i contadini stavano rientrando dai campi dopo la mietitura, all’improvviso s’udì un frastuono di automezzi e un vociare concitato, si levò un gran polverone, ci fu un fuggi fuggi e quando tornò il silenzio era un silenzio diverso, assoluto, quasi irreale. Non visto osservai varcare il portone del nostro cortile almeno una dozzina di soldati in fila, gialli di pelle e di pelo, gli elmi quadrati dal profilo saettato, le baionette innestate, le tute mimetiche a sbuffi, le bombe a mano infilate nella cintura, gli scarponi chiodati, gli sguardi senz’anima. Trascinarono via con forza tutti gli uomini validi, tutti gli animali, il giorno dopo si vedevano ancora fumigare gli incendi. Ricordo, questa volta dal vivo, mio padre, il quale pur odiando la guerra aveva un alto senso della disciplina militare, parlare in tedesco senza incrinature a uno di essi, dalle cui labbra sentii per la prima volta in un italiano stentato (l’unica che udissi da uno di loro): “la gvéra è gvéra”, che mi parve originale e crudele ed era solo un orrido stereotipo. Che s’instaurasse per noi ragazzini, anche se non si era in grado di valutare la situazione (ma chi allora lo era?) un clima di estremo disagio se non di terrore fu inevitabile, per l’impressione che faceva su di noi l’immagine degli adulti.
Ricordo ancora quando mia madre, dopo una notte insonne, riuscì a comporre e a vergare messaggi; uno dei quali, ai genitori suoi, voglio qui riportare dal biglietto ingiallito e consunto, perché dopo quasi mezzo secolo, cadute le passioni e obliati gli affanni, pare la traduzione letterale di un inedito frammento classico di spoglio e tragico pathos: “Ieri sera Giuseppe, Luigi, Celso, Marino e tutti gli altri uomini del paese sono stati presi e portati via… Non si sa ancora dove siano e dove andranno. Sono ore di angoscia… Sui monti vicini si sentiva, come nei boschi, il fragore del rastrellamento. Ora è calato un silenzio sinistro e grave. Quassù non si può comunicare con nessuno: solo il Signore ci vede… Anche le stalle sono vuote: ma nulla sarebbe, pur se si salvassero i nostri uomini. Non disperate, non piangete: pregate, pregate, pregate. E fate pregare”. […]
[aprile 1945] Nel giorno dell’ira la natura violata assisteva indifferente al massacro, così come noi ne ascoltavamo il racconto senza battere ciglio, provati da troppe paure, astinenze, tensioni. Anche altri racconti crudeli mi trovarono del tutto insensibile. Si favoleggiava di un tedesco che, pazzo di giubilo per aver udito prossima la fine della guerra, aveva esploso un caricatore e una pallottola di rimbalzo l’aveva fulminato. Un altro tedesco, questa volta un cecchino, aveva sparato un colpo mortale contro un carro alleato: subito catturato, era stato legato e schiacciato sotto i cingoli (per una manciata di secondi avevo mancato lo spettacolo). Non mancai però di vedere dietro la scuola una lunghissima fila di prigionieri con le mani in alto. Soldati americani provvedevano minuziosamente a spogliarli di ogni effetto, gettando portafogli, orologi e altri oggetti personali in un mucchio. Pareva un’operazione burocratica ma quando un prigioniero fece un gesto naturale di rammarico al vedere sparse per terra le foto dei familiari, si beccò un paio di sonori schiaffoni. Poco lontano, sui gradini del teatro, alcune donne, costrette su delle sedie da decine di mani venivano rapate a zero come pecore: talune anche belle, le cosiddette ausiliarie, si cuccavano oltraggi nefandi non solo a parole, perché venivano ferocemente palpeggiate e pizzicottate. Avevano un colorito terreo e tacevano, forse temendo il peggio. Ma ve n’erano anche di anziane ed era un gran brutto vedere; le loro strida salivano al cielo. Un soldato di colore aveva sfregiato col pugnale una ragazza che lo aveva respinto: la sera il suo comando aveva già provveduto a farlo appendere a un albero…
E tanto basti, perché non voglio sollevare il velo su altre innumeri atrocità che mi vennero per caso all’orecchio, se non davanti agli occhi, e di cui rimasero segnati quei giorni di trapasso. […] Nemmeno quell’esplosione di gioia e di salute collettiva, dopo tanta atrocità, poté mettere argine alla faida civile, triste inevitabile coda d’ogni guerra, a partire dalla notte dei tempi…». (da Petra Mala. Centiloquio, Edizioni Bolis, Bergamo 1991, pp.66-88; 156-158)
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