~ UN PUBBLICO INCAPACE DI «CAPIRE LA SUA ARTE», LA «MACABRA RIESUMAZIONE» DELLE SUE OSSA,
IL PAROSSISITICO RAPPORTO CON IL SUO NOME: RIPORTIAMO UN ESEMPLARE INTERVENTO DI ANTONIO PAOLUCCI SULL’«OSSERVATORE ROMANO» ~
A Roma, al numero 16 di via degli Astalli, di fianco a Palazzo Venezia, c’è l’Ingresso del Convento del Gesù. A quel numero civico ho suonato nel tardo pomeriggio di lunedì 19 luglio. Il mio amico Giovanni Maria Vian voleva che vedessi dal vero e da vicino il dipinto che – pubblicato a colori e in prima pagina su «L’Osservatore Romano» del 18 luglio – aveva suscitato una subitanea fiammata di curiosità caravaggesche. A onor del vero, occorre dire che l’autrice dell'articolo scritto per illustrare la foto di un inedito Martirio di san Lorenzo non si sbilanciava in attribuzioni azzardate. Con apprezzabile correttezza scientifica sospendeva il giudizio sulla paternità della tela, affermando essere un altro l’obiettivo della sua ricerca: studiare gli eventuali rapporti del Merisi con i gesuiti. In effetti, si tratta di una questione di grande rilievo che affatica da decenni gli storici dell’arte italiani e stranieri.
Come l’arte moderna – fondata, grazie a Caravaggio, sulla terribile modalità del Vero visibile svelato alla luce – abbia incrociata e fatta propria la moderna religiosità nata dal concilio di Trento e divulgata dai grandi ordini ‘nuovi’: gli oratoriani, i gesuiti, i cappuccini. Questo è in sintesi l’assunto storiografico da tempo affrontato e vivacemente dibattuto. Solo in parte risolto o avviato a soluzione. Che Caravaggio fosse in documentati rapporti con la comunità oratoriana della Chiesa Nuova, è noto. La Deposizione della Pinacoteca Vaticana ne è la prova più eloquente. Che conoscesse e frequentasse i circoli gesuiti è possibile e persino probabile. Tuttavia, va dimostrato. La presenza al Gesù di Roma di una tela di impianto stilistico caravaggesco può essere un indizio e gli indizi, si sa, sono i primi passi per arrivare alla verità. Questa era ed è l’ipotesi di lavoro di Lydia Salviucci Insolera, autrice dell'articolo sopra citato. Il quale articolo, nel pomeriggio di sabato 17, ha incendiato i telefoni degli storici dell’arte di mezza Italia (il mio fra gli altri) pressati tutti da giornalisti che, con la brutalità e l’impazienza necessari al loro mestiere, volevano sapere subito se si trattava di un Caravaggio vero oppure no. D’altra parte, le pressioni della stampa sono ben comprensibili. Viviamo tempi di parossistica «caravaggiomania». I quasi seicentomila visitatori alla mostra delle Scuderie del Quirinale, la macabra riesumazione delle (presunte) ossa del pittore che ha riempito le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, ce lo fanno capire.
A Roma, al numero 16 di via degli Astalli, di fianco a Palazzo Venezia, c’è l’Ingresso del Convento del Gesù. A quel numero civico ho suonato nel tardo pomeriggio di lunedì 19 luglio. Il mio amico Giovanni Maria Vian voleva che vedessi dal vero e da vicino il dipinto che – pubblicato a colori e in prima pagina su «L’Osservatore Romano» del 18 luglio – aveva suscitato una subitanea fiammata di curiosità caravaggesche. A onor del vero, occorre dire che l’autrice dell'articolo scritto per illustrare la foto di un inedito Martirio di san Lorenzo non si sbilanciava in attribuzioni azzardate. Con apprezzabile correttezza scientifica sospendeva il giudizio sulla paternità della tela, affermando essere un altro l’obiettivo della sua ricerca: studiare gli eventuali rapporti del Merisi con i gesuiti. In effetti, si tratta di una questione di grande rilievo che affatica da decenni gli storici dell’arte italiani e stranieri.
Come l’arte moderna – fondata, grazie a Caravaggio, sulla terribile modalità del Vero visibile svelato alla luce – abbia incrociata e fatta propria la moderna religiosità nata dal concilio di Trento e divulgata dai grandi ordini ‘nuovi’: gli oratoriani, i gesuiti, i cappuccini. Questo è in sintesi l’assunto storiografico da tempo affrontato e vivacemente dibattuto. Solo in parte risolto o avviato a soluzione. Che Caravaggio fosse in documentati rapporti con la comunità oratoriana della Chiesa Nuova, è noto. La Deposizione della Pinacoteca Vaticana ne è la prova più eloquente. Che conoscesse e frequentasse i circoli gesuiti è possibile e persino probabile. Tuttavia, va dimostrato. La presenza al Gesù di Roma di una tela di impianto stilistico caravaggesco può essere un indizio e gli indizi, si sa, sono i primi passi per arrivare alla verità. Questa era ed è l’ipotesi di lavoro di Lydia Salviucci Insolera, autrice dell'articolo sopra citato. Il quale articolo, nel pomeriggio di sabato 17, ha incendiato i telefoni degli storici dell’arte di mezza Italia (il mio fra gli altri) pressati tutti da giornalisti che, con la brutalità e l’impazienza necessari al loro mestiere, volevano sapere subito se si trattava di un Caravaggio vero oppure no. D’altra parte, le pressioni della stampa sono ben comprensibili. Viviamo tempi di parossistica «caravaggiomania». I quasi seicentomila visitatori alla mostra delle Scuderie del Quirinale, la macabra riesumazione delle (presunte) ossa del pittore che ha riempito le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, ce lo fanno capire.
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Cento anni fa Caravaggio era così poco apprezzato che, al momento dell’acquisizione da parte dello Stato della Collezione d’arte del Principe Borghese, la stima ufficiale valutava la Buona ventura un terzo della Madonna col Bambino dipinta dall’oggi pressoché incognito Sassoferrato. Ai nostri giorni, al contrario, il Merisi tocca l’acme dell’universale consenso. Non perché il popolo delle mostre dei musei sia in grado di capire davvero la sua arte, ma semplicemente perché la sua storia e il suo destino di «pittore maledetto», di trasgressore e di eversore, si riflettono come in uno specchio nel temperamento, nelle attese, nelle simpatie delle donne e degli uomini di oggi. Il che dimostra, posto che ce ne sia bisogno, come gli artisti e le opere d’arte non siano valori assoluti e immodificabili ma cambino a seconda del mutare delle culture e della sensibilità di chi le guarda. Ma, questo è un discorso complesso che ci porterebbe lontano. Conviene quindi chiuderlo subito.
Cento anni fa Caravaggio era così poco apprezzato che, al momento dell’acquisizione da parte dello Stato della Collezione d’arte del Principe Borghese, la stima ufficiale valutava la Buona ventura un terzo della Madonna col Bambino dipinta dall’oggi pressoché incognito Sassoferrato. Ai nostri giorni, al contrario, il Merisi tocca l’acme dell’universale consenso. Non perché il popolo delle mostre dei musei sia in grado di capire davvero la sua arte, ma semplicemente perché la sua storia e il suo destino di «pittore maledetto», di trasgressore e di eversore, si riflettono come in uno specchio nel temperamento, nelle attese, nelle simpatie delle donne e degli uomini di oggi. Il che dimostra, posto che ce ne sia bisogno, come gli artisti e le opere d’arte non siano valori assoluti e immodificabili ma cambino a seconda del mutare delle culture e della sensibilità di chi le guarda. Ma, questo è un discorso complesso che ci porterebbe lontano. Conviene quindi chiuderlo subito.
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Torniamo dunque alla sera del 19 luglio scorso quando, accolto dalla squisita e colta cortesia di padre Daniele Libanori, ho potuto vedere il Martirio di san Lorenzo. Al momento è conservato nella sagrestia della Cappella dell’Assunta alla Confraternita dei Nobili, un luogo meraviglioso a me fino a quel momento incognito. Un teatrino barocco, ancora saltuariamente officiato (per i «Nobili», mi è stato detto), arrivato fino a noi miracolosamente intatto dopo quattro secoli. Varrebbe la pena di andare lì solo per vedere le dieci sculture mezzane in bronzo dorato (alcune di Alessandro Algardi come ha studiato e capito la Montaigue) raffiguranti immagini di santi. È la gloria della Ecclesia triumphans consegnata alla dimensione privata di un aristocratico luogo di culto. È l’idea che negli stessi anni o poco dopo Gianlorenzo Bernini affidava alla Chiesa universale nelle sculture di coronamento a piazza San Pietro. Nell’un caso e nell'altro intuizione formidabile, qualità progettuale ed esecutiva semplicemente superba! È importante l'accenno alla qualità perché (più della diagnostica sui materiali e sui pigmenti oggi tanto usata e abusata, persino più degli stessi supporti bibliografici e documentari) è il rilevamento della qualità il vero consenso che certifica dell’autenticità di un’opera. Ebbene, il livello qualitativo della tela che si conserva nella sagrestia della Cappella dei Nobili al Gesù di Roma è modesto. Bella l’idea del san Lorenzo drammaticamente dialogante sulla graticola del suo martirio, suggestivi i ceffi dei manigoldi impegnati nell'esecuzione atroce. Poi però guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti, stesura pittorica inadeguata. Insomma, la qualità non c’è mentre in Caravaggio c’è sempre e altissima anche quando (si pensi all’Amorino dormiente o al Wignancourt di Palazzo Pitti) egli usa il massimo della sprezzatura e il minimo delle risorse espressive. Che dire allora? La mia opinione è che si tratti di una copia antica da un originale non di Caravaggio (altrimenti ce ne sarebbe traccia nelle memorie documentarie e nelle fonti) ma piuttosto di un suo «creato», forse di ambito napoletano, alla Battistello Caracciolo. Un caravaggesco di qualità, negli anni fra i Venti e i Trenta del XVII secolo, ha voluto dare al Martirio di san Lorenzo la smagliante evidenza del Vero, il valore esemplare in certo senso catechetico del martirio. La memoria di un dipinto che deve essere stato comunque notevole e che per qualche ragione è andato perduto, è oggi consegnata alla tela, oggettivamente modesta, che sta al Gesù di Roma.
Torniamo dunque alla sera del 19 luglio scorso quando, accolto dalla squisita e colta cortesia di padre Daniele Libanori, ho potuto vedere il Martirio di san Lorenzo. Al momento è conservato nella sagrestia della Cappella dell’Assunta alla Confraternita dei Nobili, un luogo meraviglioso a me fino a quel momento incognito. Un teatrino barocco, ancora saltuariamente officiato (per i «Nobili», mi è stato detto), arrivato fino a noi miracolosamente intatto dopo quattro secoli. Varrebbe la pena di andare lì solo per vedere le dieci sculture mezzane in bronzo dorato (alcune di Alessandro Algardi come ha studiato e capito la Montaigue) raffiguranti immagini di santi. È la gloria della Ecclesia triumphans consegnata alla dimensione privata di un aristocratico luogo di culto. È l’idea che negli stessi anni o poco dopo Gianlorenzo Bernini affidava alla Chiesa universale nelle sculture di coronamento a piazza San Pietro. Nell’un caso e nell'altro intuizione formidabile, qualità progettuale ed esecutiva semplicemente superba! È importante l'accenno alla qualità perché (più della diagnostica sui materiali e sui pigmenti oggi tanto usata e abusata, persino più degli stessi supporti bibliografici e documentari) è il rilevamento della qualità il vero consenso che certifica dell’autenticità di un’opera. Ebbene, il livello qualitativo della tela che si conserva nella sagrestia della Cappella dei Nobili al Gesù di Roma è modesto. Bella l’idea del san Lorenzo drammaticamente dialogante sulla graticola del suo martirio, suggestivi i ceffi dei manigoldi impegnati nell'esecuzione atroce. Poi però guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti, stesura pittorica inadeguata. Insomma, la qualità non c’è mentre in Caravaggio c’è sempre e altissima anche quando (si pensi all’Amorino dormiente o al Wignancourt di Palazzo Pitti) egli usa il massimo della sprezzatura e il minimo delle risorse espressive. Che dire allora? La mia opinione è che si tratti di una copia antica da un originale non di Caravaggio (altrimenti ce ne sarebbe traccia nelle memorie documentarie e nelle fonti) ma piuttosto di un suo «creato», forse di ambito napoletano, alla Battistello Caracciolo. Un caravaggesco di qualità, negli anni fra i Venti e i Trenta del XVII secolo, ha voluto dare al Martirio di san Lorenzo la smagliante evidenza del Vero, il valore esemplare in certo senso catechetico del martirio. La memoria di un dipinto che deve essere stato comunque notevole e che per qualche ragione è andato perduto, è oggi consegnata alla tela, oggettivamente modesta, che sta al Gesù di Roma.
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