domenica 27 marzo 2011

Il peccato dei puritani

~ SATANA NELLE VESTI CALVINISTE:
UN ROMANZO DEL PASTORE JAMES HOGG ~

Con ogni pretesto si condannano da parte cristiana le antiche crociate contro i musulmani o meglio le battaglie della cristianità per liberare il sepolcro della resurrezione dalle mani politiche dei maomettani, ma poco o nulla si dice delle crociate puritane contro i cristiani, dello zelo nevrotico con il quale si va all’attacco del peccato degli altri. L’orgoglio smisurato di chi presume di appartenere alla ristretta schiera degli eletti, di chi giudica continuamente le colpe più intime degli umani, le loro intenzioni perfino, ed emette la condanna finale, classificandoli antropologicamente tra i sotto-uomini, gli eterni reietti, mentre loro, i giudici, si collocano sul trono di Dio per pronunciare la sentenza: tutto ciò produce il peccato dei puritani, qualcosa che somiglia alla parabola luciferina.

La predestinazione assoluta, di origine calvinista, spinse alcune congreghe britanniche a sentirsi del tutto al sicuro da ogni tentazione, anzi da ogni errore; inoltre loro sapevano maledire i sensi, maledire la natura, magari non rendendosi conto di maledire il creato. Su questa degenerazione del cristianesimo, il pastore scozzese James Hogg (1770-1825) scrisse nel 1824 un romanzo, The Private Memoirs and Confessions of a Justified Sinner, di un peccatore «giustificato», cioè, secondo la terminologia protestante, di un peccatore impeccabile, come fu anche tradotto (in italiano uscì da Guanda nel 1961 con il titolo semplificato Confessioni di un peccatore, da cui citiamo), opera letteraria che fu sepolta immediatamente nel silenzio. L’epoca romantica non amava forse indagare sulla radice di simili spiritualismi nonostante il romanzo di Hogg offrisse pagine che avrebbero potuto gareggiare in effetti allucinatori con il romanticissimo Hoffmann. Esattamente un secolo dopo, le Confessioni di un peccatore finirono nelle mani di André Gide mentre lo scrittore francese cercava di liberarsi dalla cultura familiare di ascendenza ugonotta: con la sua fama riuscì a trarle fuori dal dimenticatoio. Le rilanciò in nome della tolleranza, che allora trionfava in tutti i salotti delle Belle Lettere, e contro le «aberrazioni della Fede», ma probabilmente vi ritrovava lo spunto inquietante della sua narrazione sul «delitto gratuito» con cui aveva scandalizzato il secolo nuovo, accorgendosi grazie a Hogg che l’idea iniziale era di Satana. L’estetica dell’atto gratuito, che dai Sotterranei deriva, stendeva un’ombra diabolica sulla strana attività delle avanguardie. Ma già de Quincey avrebbe eccitato i futuri surrealisti con L’assassinio come una delle belle arti, scritto tre anni dopo il Justified Sinner di quel povero Hogg che lavorava nella medesima rivista e che si trovò a essere schiacciato giustappunto dalla fama del «mangiatore d’oppio».

La teologia del diavolo messa in luce nella trama delle Confessioni punta anch’essa sulla impunibilità dei puri. Il romanzo, ambientato nella Scozia del XVII secolo, narra di un ragazzo, figlio adottivo di un fanatico pastore, divenuto amico di un diavolo che gli si presenta nei panni di un gentleman e lo spinge ai peggiori crimini per purificare il mondo. Del resto, di qualsiasi colpa si macchi il giovane Robert – suggerisce insinuante il demonio al protagonista –, se anche sarà assalito dallo scrupolo dell’eccesso di zelo per l’uccisione di parenti e amici, egli sarà salvo, la elezione di marca calvinista è infatti assicurata per l’eternità. Questo il facile escamotage satanico che garantisce quel tono di superiorità, qualsiasi cosa commetta il fedele puritano. Fin dalle prime pagine vediamo lui e la sua cerchia agitarsi «per infiammare i giudici e la plebe» contro coloro che provano piacere nelle cose del mondo. Bastava si persuadesse che gli avversari erano «al di fuori della legge» e «della vera fede» perché immediatamente essi rientrassero nel numero dei maledetti per l’eternità, da giustiziare segretamente.

La strategia satanica, che ebbe risvolti politici tra i rivoluzionari, consisteva nel «votare alla perdizione tutti gli uomini e tutte le donne, offrendo poi a coloro che lo seguivano la speranza di appartenere all’esiguo numero degli eletti, inclusi nella promessa divina, e di essere quindi nell’impossibilità di perdersi» e, naturalmente, come dice l’autore, «tutto lascia supporre che questa farisaica dottrina sia quanto mai attraente e piacevole per i bricconi» (p. 59). Diabolici sofismi, cari agli uomini quando giocano con gli ingranaggi delicatissimi della morale.

Disse il diavolo al suo amico che gli chiedeva, convinto fosse un teologo puritano come lui, a quale personaggio biblico gli sembrava somigliasse: «In cuor vostro state dicendo a voi stesso: ‘Mio Dio, ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, di non somigliare al povero peccatore non rigenerato, a quel miscredente di John Barnet’» (p. 99). Il principe infernale sapeva essere ironico, qualità che mancava ai calvinisti.

Il peccatore puritano, quando aveva già cominciato a uccidere quelli che considerava cattivi cristiani, rifaceva a modo suo il Decalogo: «C’erano numerosi peccati, tra i più mortali, tra i quali non ero mai caduto, perché nutrivo un sacro terrore per quelli che la Rivelazione designa come peccati che portano con sé l’esclusione, e me ne guardavo costantemente. Più in particolare giunsi a disprezzare se non addirittura a esecrare la bellezza femminile e a considerarla come la più grande insidia cui sia stata soggetta l’umanità. Per quanto i giovani e le ragazze, e perfino le vecchie signore (tra le quali mia madre) mi accusassero di essere una specie di mostro sventurato, io mi gloriavo di ciò, e mi sento ancor oggi contento di essere sfuggito a quella che, son convinto, è la più pericolosa delle insidie» (pp.106-107). Chesterton, il cattolico Chesterton, avrebbe dato una risposta appropriata a questi ondeggiamenti farneticanti delle sètte cristiane. Ma oggi il Decalogo riscritto a misura dei propri desiderata e tendenze includerebbe forse altre gerarchie: l’«onestà» anzitutto, i formalismi nei contratti commerciali come massima virtù, mentre vengono retrocessi se non dimenticati del tutto i primi tre comandamenti, quelli che Dio mise in testa alla sua legge.

Viene in luce il paradosso di certo protestantesimo. Liberato dall’obbligo delle opere e dei riti, delle penitenze e delle indulgenze, il cristiano riformato arrivava a credere che «le mie azioni, buone o cattive che fossero, non potessero avere il minimo potere di influire sugli eterni decreti di Dio nei miei riguardi, sia per accettarmi che per riprovarmi». Dipendevo interamente dalla generosità della libera grazia, considerando la buona condotta degli uomini non più di un miserabile cencio» (p. 107). Più o meno nella stessa epoca di Hogg, Sade riprendendo le teorie gnostiche dei carpocraziani mostrava le conseguenze delle ipocrite morali scaturite dalla rivoluzione.

Dal momento che il suo orgoglio spirituale si scontrava con la miseria morale del mondo, Robert era tentato dalla scorciatoia e rifletteva: «Come sarebbe stato più saggio […] passare tutti i peccatori a fil di spada! Finché ciò non sarà avvenuto, i santi non potranno ereditare la terra in pace. Se mai mi toccasse l’onore di iniziare, strumento di Dio, la grande opera di purificazione…» (p. 115). Le utopie della pace perenne, del mondo riconciliato, trasparente, senza disonesti, passa per forza di cose attraverso rimuginamenti di tal sorta che prevedono lo sterminio. Castighi smisurati, disprezzo della legge – mentre si idolatra la forma giuridica nel giudicare i reprobi – in nome della purezza delle intenzioni.

Talvolta il diavolo parlava come un nostro ‘cristiano adulto’: «Disse che disapprovava completamente la preghiera nel modo come la si pratica generalmente. L’uomo ne faceva un’occupazione meramente egoista, impiegandola continuamente nel chiedere, e chiedere ogni genere di cose, mentre conveniva che le creature di Dio si accontentassero della loro sorte e s’inginocchiassero davanti a Lui unicamente per ringraziarlo» (p. 119).

Naturalmente il Principe del Male ricorreva all’inganno di tutte le utopie, il «bene dell’umanità», e stigmatizzava la «natura carnale» dell’uomo, quasi da ex angelo invidiasse quell’equilibrio umano. A lui era concesso solo di tentare, di costruire con le parole gli insani desideri, di deformare il mondo attraverso pensieri storti. Come per esempio quest’altro sofisma: «Forse che la vita di un uomo val più di quella di un agnello o di un animale innocente?» (p. 127). Certi animalisti contemporanei gli fanno ancora eco.

Pieno di zelo per «la grande opera di bonifica», Robert si accingeva a togliere la vita ai peccatori. Come hanno poi raccontato decine di terroristi della nostra epoca, egli attendeva con questi pensieri la vittima che doveva colpire: «quell’uomo si avvicinava passo passo a colui che lo avrebbe precipitato da questa in un’altra esistenza, mostrando la docilità e l’indifferenza di un bue diretto alla stalla» (p. 130). L’innocenza e la pazienza dell’animale sacrificale. Era l’inizio, dice Robert, della «epurazione del mondo cristiano»; l’ostinato tentativo della Riforma protestante, in nome della soggettività che legge e interpreta la Scrittura, abbandonando le gerarchie della Tradizione, poteva condurre anche a soluzioni estreme di questo tipo. Per una buona parte del Novecento si accesero le più capricciose riforme del mondo e dell’uomo, spesso benintenzionate, spesso sanguinarie. Redimere il mondo dal capitale, dai capitalisti, dagli ebrei, dai ricchi, dai poveri, e così via: di causa in causa si risaliva alla prima colpa, al peccato originale che aveva infestato questa Terra e che finalmente andava estirpato. Bisognava affrettare la Redenzione. Perché, tra le cause nefaste delle scelleratezze politiche del secolo scorso non viene mai in mente la responsabilità protestante per queste letture soggettive del libro della morale? Ci si costruiva una redenzione personale e anche un peccatore personale, magari nel vicino di casa che non salutava mai, macchina inquisitrice ben più spaventosa e diffusa di quelle istituite contro le streghe. Tanti piccoli intellettuali che coincidevano con tanti piccoli lettori, mentre giungevano in libreria le edizioni tascabili, e ogni impiegato poteva trasformarsi in sacerdote della rivolta morale o in duce se trovava degli adepti. Bastava leggere un po’ o, peggio ancora, scrivere qualche risoluzione. Avrebbero dovuto essere umani simili a dèi per risultare tutti sacerdoti, – un popolo di santi, si era illuso anche Mosè con i suoi – ma in un popolo di peccatori…

Il giovane amico del demonio, nel corso della sua pratica omicida, dubita del «più intangibile dei dogmi cristiani, cioè l’infallibilità degli eletti». L’ultimo secolo ha irriso e condannato con grande strepito il dogma dell’infallibilità pontificia, ma il dogma dell’autoproclamazione degli «eletti» calvinisti passa per un segno di modernità. Questo romanzo ne mostra la deriva satanica.

Se finisce in cella Robert mantiene la superbia dell’eletto: «mi misi a pregare, deprecando che Dio fosse così longanime verso peccatori tanto abominevoli. Il mio carceriere entrò nella cella e mi insultò. Era un uomo rude e senza princìpi, dedito ai costumi dissoluti e carnali di quel tempo…». Quasi comico il commento dell’assassino; ma non si vide nel nostro tempo gente che si richiamava alle tragiche e violente vicende bolsceviche, che giustificava cioè stragi immani, giudicare scandalizzati come beghine furtarelli e creste sulla spesa pubblica?

«Un ‘giustificato’ è sempre esente da ogni colpa» si dice il puritano e probabilmente è solo grazie a questa convinzione che, assetato di eterna vendetta, può godere delle sofferenze giudiziarie degli altri umani: «non dimenticherò la gioia che prese me e il mio reverendo padre quando il giudice pronunciò la sentenza, secondo la quale l’empio mio fratello doveva essere gettato in prigione e passare in giudizio…» (p. 150).

La corruzione di cui parlano ossessivamente riguarda soltanto il sesso e il denaro. Per tali paure non riescono a cogliere la bellezza dell’annuncio evangelico di una incarnazione divina, non sanno gioire per un Dio che prende le fattezze umane. Hogg mette in bocca al diavolo che spinge il suo adepto all’uccisione di esseri umani il rimprovero severo per le distrazioni dalla rigorosa militanza, per le tentazioni della carne. E quando lo chiama a «spargere il sangue dei peccatori» ammette: «Sperate dunque di trovare la felicità perseguendo il difficile compito di sterminare la gente?» (p. 175). Sterminio reale o sterminio immaginario di un cuore che odia, ecco la ragione della tristezza dei puritani, la tristezza di certi cristiani. Qualcuno spiega saggiamente a Robert: «Da quando con la Rivoluzione [puritana], l’Evangelo si è così diffuso, [Satana] ha spesso usato l’espediente di predicarlo lui stesso, proprio per introdurre falsi princìpi e per renderlo in tal modo ridicolo e blasfemo» (p. 179).

«Il pericolo tremendo di credersi giusti». Con queste parole si conclude la vicenda del giovane scozzese ingannato dal diavolo. Ingenuo come molti utopisti, non conosceva il saggio insegnamento di Stendhal: «l’arguzia è incompatibile con l’assassinio». Utile anche per i neopuritani dei nostri giorni.

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