~ LA MORTE DELL’ARCIDUCA OTTO D’ASBURGO ~
Si legge nella rete: «Nella notte tra il 4 e il 5 luglio il Signore ha chiamato a Sé l’anima buona e fedele dell’ultimo figlio vivente del beato Imperatore Carlo d’Asburgo e di Zita di Borbone-Parma, S.A.I.R. l’Arciduca Otto d’Asburgo-Lorena, ultimo discendente della dinastia imperiale d’Austria. Nelle sue vene scorreva il sangue di tante famiglie reali e imperiali (Asburgo, Lorena, Borbone, Braganza, etc.). Le esequie saranno celebrate a Vienna il 16 Luglio. Riposerà con i suoi valorosi avi nella Cripta del Cappuccini (Kapuzinergruft). Con lui, grandissimo patriota europeo, scompare l’ultima nobile e tangibile vestigia di una delle più gloriose monarchie. In memoria aeterna erit justus: ab auditione mala non timebit. Requiescat in pace».
Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen aveva 99anni. Era stato un vero avversario dei nazisti, un pericolo per la loro Anschluss. Nel dopoguerra fu deputato e eurodeputato del Partito popolare. Condannato all’esilio per aver perso la guerra mondiale che la massoneria e i nazionalismi mossero nel 1914 all’impero davvero multietnico (cattolico), dovette chiedere la patente democratica agli austriaci che avevano votato in massa l’annessione alla Germania hitleriana. Ma era un garbatissimo signore e come tutti i gentiluomini d’un tempo sapeva sorridere generosamente davanti ai piccoli imbrogli politici. È morto in Baviera dove visse per mezzo secolo.
Joseph Roth, in fuga dai nazisti, si convinse che l’Arciduca fosse l’unico che potesse salvare l’Austria dalle camicie brune. In quegli anni il romanziere esaltava Pio XII come il provvidenziale difensore degli ebrei e si faceva paladino dell’erede degli Asburgo, ossia del protettore cattolico delle minoranze. Ci siamo ormai dimenticati che alcuni letterati ed artisti nella prima metà del Novecento seppero resistere alle sirene chiassose degli espressionismi d’ogni sorta, alle grida delle avanguardie, o talvolta superarono certi entusiasmi giovanili, per riscoprire il gusto elevato, la forma eterna. Per dei Brecht e dei Céline che mettevano il proprio talento al servizio della plebe, mimando il gergo grossolano che diventava il loro stigma, c’erano gli Hofmannsthal e i Borchardt che inseguivano un sogno antico più nobile d’ogni utopia moderna. Fantasticavano un’araldica del cuore, coniugavano in modo novalisiano Europa e poesia.
«Il plebeismo delle idee moderne è opera dell’Inghilterra», sosteneva Nietzsche, «il plebeismo dell’agire moderno è opera della cosiddetta arte contemporanea», si potrebbe aggiungere, ma un drappello di letterati, artisti e musicisti si schierò con l’aristocrazia anche nel Novecento. Da Baudelaire in poi, lungo è l’elenco dei pugnaci conservatori. Dall’«interiorità protetta dal potere» alla mobilitazione della interiorità per proteggere il potere: era lo schizzo per ricostruire un passaggio fondamentale della cultura europea tracciato dal nostro Marianello Marianelli, chiosatore di Borchardt. E quest’ultimo, prendendo a pretesto il giovane Kaiser germanico che nel 1908 compiva vent’anni, considerava l’imperatore un oggetto della «fantasia utilizzatrice dei popoli», la «figura che non invecchia mai», «il giovane re che esercita tutto il suo dominio sugli oscuri sentimenti, che una volta era proprio delle figure mitiche e poetiche» (in indubitabile assonanza con Stefan George). E ancora Marianelli, commentando il borchardtiano Der Fürst (dell’anno fatale 1933) spiega come «il principe, il monarca non ha più nulla di istituzionale, di storico: è, semmai, una delle figure fisse dell’umanità, come l’‘eroe, il santo, l’amazzone, il poeta, il giocoliere, il veggente, l’aedo’. Si tratta ovviamente delle figure riprese dal 'teatro del mondo', dal carillon di archetipi del suo amico Hofmannsthal…».
L’ebreo Borchardt auspicava un Terzo Reich, un Regno dello spirito che gli fu rubato nel nome da violenti demagoghi, il cattolico Hofmannsthal predicava la Rivoluzione conservatrice. In Der Fürst, Borchardt ragionava: «Annientata, la regalità nutre di sé ogni secolo e perfino le repubbliche sue naturali nemiche: le repubbliche francesi si sono protette dalle conseguenze della loro decadenza solo in grazia di un concetto di monarca nato nel medioevo. L’immagine di un universo fondato sulla giustizia romana, nato entro l’occhio regale di Cesare, ha costretto un millennio di storia europea a conformarsi su quella». Sembra di leggere Carl Schmitt. E aggiungeva un ammonimento: «il mondo intero sta diventando conservativo per autodifesa, per difesa della propria eredità». La regalità dipende dalla sua vitalità, non certo dalle sue fortune e sfortune storiche. La regalità dipendeva dal ‘clima nobile’ ricreato da Hofmannsthal che lo scopriva in quegli anni nei personaggi di Shakespeare come nella geografia teresiana che trova il suo vertice nella Venezia fuori del tempo del romanzo di Andreas. Se Roth aveva narrato l’epopea asburgica moderna e Musil ne aveva contemplato ironicamente il tramonto (ma in quell’ironia, nel sorriso mentre ci si inabissa, era nascosta la cifra aristocratica e cattolica), Hofmannsthal aveva parlato del sistema asburgico quale «imperio non solo temporale ma anche sacrale che si sovrappose alle nazioni». Abituati questi signori a pensare «sub specie aeternitatis», riuscivano a vedere il carattere sacrale della forma imperiale. Tuttavia, in quell’epoca incerta e carica di pericoli, l’impero era alla ricerca di un casato e con esso la piccola folla di letterati e artisti. Roth, con il senso pratico degli esuli inseguiti, lo trovava nel giovane arciduca scomparso l’altro giorno. Hofmannsthal in modo più letterario riprendeva da George tale ricerca e la trasformava nella versione calderoniana del suo ultimo dramma, Der Turm. Borchardt la rievocava, piuttosto, in quel possente canto d’amore dedicato a Pisa, città imperiale.
Ma in cerca di una aristocrazia 'moderna' furono pure i pensatori francofortesi che inventarono antenati alto-borghesi in luogo dei loro genitori bottegai, per ricreare una civiltà delle buone maniere novecentesca, un gusto aulico raggiunto con i più severi ascetismi, un understatement che li portò a nascondersi nei panni prosaici dei sociologi pur di non concedere nulla allo snobismo proustiano: era la nuova nobiltà degli ebrei. Else Lasker-Schüler ne tracciò alcune figure suggestive con le corone di latta benché assai eleganti. Gottfried Benn si spingeva fino ai Dori, Ernst Jünger con più cinismo lasciava da parte la ricerca di un casato e si limitava ai geniali cavalieri che salvano l'Occidente nella geografia tormentata intorno alle scogliere di marmo...
Si legge nella rete: «Nella notte tra il 4 e il 5 luglio il Signore ha chiamato a Sé l’anima buona e fedele dell’ultimo figlio vivente del beato Imperatore Carlo d’Asburgo e di Zita di Borbone-Parma, S.A.I.R. l’Arciduca Otto d’Asburgo-Lorena, ultimo discendente della dinastia imperiale d’Austria. Nelle sue vene scorreva il sangue di tante famiglie reali e imperiali (Asburgo, Lorena, Borbone, Braganza, etc.). Le esequie saranno celebrate a Vienna il 16 Luglio. Riposerà con i suoi valorosi avi nella Cripta del Cappuccini (Kapuzinergruft). Con lui, grandissimo patriota europeo, scompare l’ultima nobile e tangibile vestigia di una delle più gloriose monarchie. In memoria aeterna erit justus: ab auditione mala non timebit. Requiescat in pace».
Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen aveva 99anni. Era stato un vero avversario dei nazisti, un pericolo per la loro Anschluss. Nel dopoguerra fu deputato e eurodeputato del Partito popolare. Condannato all’esilio per aver perso la guerra mondiale che la massoneria e i nazionalismi mossero nel 1914 all’impero davvero multietnico (cattolico), dovette chiedere la patente democratica agli austriaci che avevano votato in massa l’annessione alla Germania hitleriana. Ma era un garbatissimo signore e come tutti i gentiluomini d’un tempo sapeva sorridere generosamente davanti ai piccoli imbrogli politici. È morto in Baviera dove visse per mezzo secolo.
Joseph Roth, in fuga dai nazisti, si convinse che l’Arciduca fosse l’unico che potesse salvare l’Austria dalle camicie brune. In quegli anni il romanziere esaltava Pio XII come il provvidenziale difensore degli ebrei e si faceva paladino dell’erede degli Asburgo, ossia del protettore cattolico delle minoranze. Ci siamo ormai dimenticati che alcuni letterati ed artisti nella prima metà del Novecento seppero resistere alle sirene chiassose degli espressionismi d’ogni sorta, alle grida delle avanguardie, o talvolta superarono certi entusiasmi giovanili, per riscoprire il gusto elevato, la forma eterna. Per dei Brecht e dei Céline che mettevano il proprio talento al servizio della plebe, mimando il gergo grossolano che diventava il loro stigma, c’erano gli Hofmannsthal e i Borchardt che inseguivano un sogno antico più nobile d’ogni utopia moderna. Fantasticavano un’araldica del cuore, coniugavano in modo novalisiano Europa e poesia.
«Il plebeismo delle idee moderne è opera dell’Inghilterra», sosteneva Nietzsche, «il plebeismo dell’agire moderno è opera della cosiddetta arte contemporanea», si potrebbe aggiungere, ma un drappello di letterati, artisti e musicisti si schierò con l’aristocrazia anche nel Novecento. Da Baudelaire in poi, lungo è l’elenco dei pugnaci conservatori. Dall’«interiorità protetta dal potere» alla mobilitazione della interiorità per proteggere il potere: era lo schizzo per ricostruire un passaggio fondamentale della cultura europea tracciato dal nostro Marianello Marianelli, chiosatore di Borchardt. E quest’ultimo, prendendo a pretesto il giovane Kaiser germanico che nel 1908 compiva vent’anni, considerava l’imperatore un oggetto della «fantasia utilizzatrice dei popoli», la «figura che non invecchia mai», «il giovane re che esercita tutto il suo dominio sugli oscuri sentimenti, che una volta era proprio delle figure mitiche e poetiche» (in indubitabile assonanza con Stefan George). E ancora Marianelli, commentando il borchardtiano Der Fürst (dell’anno fatale 1933) spiega come «il principe, il monarca non ha più nulla di istituzionale, di storico: è, semmai, una delle figure fisse dell’umanità, come l’‘eroe, il santo, l’amazzone, il poeta, il giocoliere, il veggente, l’aedo’. Si tratta ovviamente delle figure riprese dal 'teatro del mondo', dal carillon di archetipi del suo amico Hofmannsthal…».
L’ebreo Borchardt auspicava un Terzo Reich, un Regno dello spirito che gli fu rubato nel nome da violenti demagoghi, il cattolico Hofmannsthal predicava la Rivoluzione conservatrice. In Der Fürst, Borchardt ragionava: «Annientata, la regalità nutre di sé ogni secolo e perfino le repubbliche sue naturali nemiche: le repubbliche francesi si sono protette dalle conseguenze della loro decadenza solo in grazia di un concetto di monarca nato nel medioevo. L’immagine di un universo fondato sulla giustizia romana, nato entro l’occhio regale di Cesare, ha costretto un millennio di storia europea a conformarsi su quella». Sembra di leggere Carl Schmitt. E aggiungeva un ammonimento: «il mondo intero sta diventando conservativo per autodifesa, per difesa della propria eredità». La regalità dipende dalla sua vitalità, non certo dalle sue fortune e sfortune storiche. La regalità dipendeva dal ‘clima nobile’ ricreato da Hofmannsthal che lo scopriva in quegli anni nei personaggi di Shakespeare come nella geografia teresiana che trova il suo vertice nella Venezia fuori del tempo del romanzo di Andreas. Se Roth aveva narrato l’epopea asburgica moderna e Musil ne aveva contemplato ironicamente il tramonto (ma in quell’ironia, nel sorriso mentre ci si inabissa, era nascosta la cifra aristocratica e cattolica), Hofmannsthal aveva parlato del sistema asburgico quale «imperio non solo temporale ma anche sacrale che si sovrappose alle nazioni». Abituati questi signori a pensare «sub specie aeternitatis», riuscivano a vedere il carattere sacrale della forma imperiale. Tuttavia, in quell’epoca incerta e carica di pericoli, l’impero era alla ricerca di un casato e con esso la piccola folla di letterati e artisti. Roth, con il senso pratico degli esuli inseguiti, lo trovava nel giovane arciduca scomparso l’altro giorno. Hofmannsthal in modo più letterario riprendeva da George tale ricerca e la trasformava nella versione calderoniana del suo ultimo dramma, Der Turm. Borchardt la rievocava, piuttosto, in quel possente canto d’amore dedicato a Pisa, città imperiale.
Ma in cerca di una aristocrazia 'moderna' furono pure i pensatori francofortesi che inventarono antenati alto-borghesi in luogo dei loro genitori bottegai, per ricreare una civiltà delle buone maniere novecentesca, un gusto aulico raggiunto con i più severi ascetismi, un understatement che li portò a nascondersi nei panni prosaici dei sociologi pur di non concedere nulla allo snobismo proustiano: era la nuova nobiltà degli ebrei. Else Lasker-Schüler ne tracciò alcune figure suggestive con le corone di latta benché assai eleganti. Gottfried Benn si spingeva fino ai Dori, Ernst Jünger con più cinismo lasciava da parte la ricerca di un casato e si limitava ai geniali cavalieri che salvano l'Occidente nella geografia tormentata intorno alle scogliere di marmo...
Un culto democratico ormai secolare ha cancellato questo tema. Forse anche a causa della vulgata di Hermann Broch sul mondo decadente delle gaie apocalissi, degli ebrei amici di sovversivi, di freudismo, di modernismi, di cancellazione degli ornamenti, perfino di nostalgie asburgiche che si colorano di folclore, di rimpianti della Vienna degli ufficialetti, viene nascosto il tormento di coloro che lavorarono con le parole, i pensieri, i suoni e le immagini, alla restaurazione. La notizia della morte dell’ultimo erede di quel mondo, del prodigo amico dei letterati, finito con loro nell’esilio interminabile del nostro tempo, ne ha risvegliato per una notte il ricordo.
1 commento:
ONORE e GLORIA a Sua Altezza Imperiale e Reale Apostolica il Principe OTTONE ASBURGO LORENA, Arciduca d'Austria, Re di Ungheria, Re del Lombardo Veneto, Granduca di Toscana, ecc... Erede-Titolare del Sacro Romano Impero
R.I.P.
Principi Acedo Fernadez Pereira di Candia, Principi Comneno d'Otranto di Bisanzio, Principi Feo Filangeri di Cutò, Principi Giovannelli Marconi, Duchi Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita e San Donato, Marchesi Cusano di Chignolo, Marchesi De Filippis Delfico di Longano, Marchesi Ghetaldi Gondola, Marchesi Lalatta di Costerbosa, Conti Boezio Bertinotti Alliata, i Conti di Challant, Conti Crociani Baglioni di Serravalle di Norcia, Conti Della Torre, Conti De Puppi di Cividale, Conti Foscari Wideman Rezzonico, Conti Ganassini di Camerati, Conti Garavaglia, Conti von Haitzendorf, Conti Luraschi Cernuschi di Calvezano, Conti Manzoni di Chiosca e Poggiolo, Conti Modulo Morosini di Risicalla e Sant'Anna, Conti Moneta Caglio de Suvich, Conti Romei Longhena, Conti Rosati di Montepardone, Conti Ubaldi de Capei, Conti von Walburg, Baroni Aufschnaiter von Mandell, Conti Werdenberg Sargans von Rheinwald, Baroni Beck Peccoz, Baroni Cassinelli Lavezzo, Baroni Cucco Marino Protopapa, Baroni De Cles, Baroni Jonghi Lavarini von Urnavas, Baroni von Oetinger, Baroni Pellicanò Barletta, Baroni Salvadori von Wiesenhof, Baroni freiherr von Taucnitz, Baroni Teuffenbach, Baroni Tripcovich Holenmaier de Banfield, Baroni Vallaise di Issime, Baroni freiher von Wangenheim, Patrizi Veneti Alverà, Patrizi Veneti Panciera di Zoppola, Nobili Aliprandi, Nobili Ampollo di Rella, Nobili Herstellung von Druck, Nobili Berger de Perseval, Nobili von Block, Nobili Bresolini d'Ebenstein, Nobili Brambilla di Carpiano, Nobili Castagna de Giustiniani, Nobili Claricini von Dornpacher, Nobili Dolenc von Bubnoff, Nobili Lago Suardi, Nobili Lutterotti von Theres, Nobili Polani Beligeri, Nobili Puccinelli, Nobili Rosales Ordonno, Nobili Stewart Jamienson, Nobili Tolone Azzariti, Nobili von Trostprugg, Nobili Velasco, Nobili von Zeitschel, Nobili Zoia dei Puschina.
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