Tutti leggono, dalla mattina alla sera, nella metropolitana e sulle spiagge, e spendono assai nelle librerie, informandosi attraverso le recensioni e le presentazioni nella rete e sui giornali – piccole, continue evasioni senza respiro nel contemporaneo, roba da carcerati a vita – , ma chi sfoglia ancora Dante o Ariosto, Tommaso d’Aquino o Guicciardini? Anche più ristretta schiera quella di coloro che li meditano. Ecco perché George Steiner, pure in una intervista su «la Repubblica» del 25 luglio, tornava a parlare ormai di «una sub-cultura odierna». E alla intervistatrice che, perplessa, forse in quanto adepta dello spirito della testata, chiedeva: «perché si ostina a ripetere che l’idea di cultura è andata in pezzi?», Steiner spiegava con pazienza: «Sono i fatti a provarlo. In paesi come l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, la scuola primaria e secondaria è in una crisi gravissima. Quand’ero giovane, le università tedesche costituivano una garanzia per la vita intellettuale europea e statunitense. Poi non è più stato così. Oggi nelle università occidentali, e anche in Italia, ci sono alcuni docenti notevoli, ma in generale è tramontato il prestigio della ricerca e della trasmissione di cultura universitaria. Gli studenti più validi di Cambridge finiscono a lavorare in Borsa o nelle grandi banche, e considerano la politica come qualcosa di ridicolo e corrotto. Per non parlare della decadenza del mestiere d’insegnante».
Gli fa eco Jean Clair. Il «Corriere della Sera» dell’otto agosto riporta un’anticipazione del suo ultimo libro, L’inverno della cultura, dove i giochi del contemporaneo vengono dannati definitivamente; vi si parla di «degenerazioni dell’arte contemporanea»: «la discesa dall’high culture alla low culture è una discesa agli inferi», i suoi protagonisti conoscono solo le tecniche del marketing. Un’altra anticipazione del testo polemico di Clair è offerta in rete da «Il Covile», numero 653. «L’arte contemporanea – vi si legge – è la storia di un naufragio e di uno sprofondamento». Sacrosante reazioni di nobili figure a situazioni insopportabili. I giornali però, inclini a conclusioni a effetto, propendono per l'ipotesi di una prossima fine di questo infernale gioco, quasi si trattasse di una moda sconfitta ormai dalla noia. Si dovrebbe essere meno ottimisti. Davanti ai restauri contemporanei di un ufficio postale anni Trenta, di fronte alle soluzioni standard, omologate, un’amica ci diceva realista che questa specie di arte attuale non può che essere così, funzionale al sistema che non concede deroghe. Ovvero, l’arte del capitalismo estremo non può che essere brutta. L’arte di massa in una società definitivamente nichilista non ha più neppure delle tracce di bellezza. Soltanto l’avvento di un «regnum gratiae» potrebbe modificare l’estetica.
All’inizio del Novecento c’era ancora chi sosteneva che «per un uomo di cultura la peggiore immoralità sarebbe quella di accettare i parametri della sua epoca» (Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit). Per Carl Schmitt la parola «contemporaneo» suonava come «complice dell’epoca meccanicistica», perché colui che crede di dover andare col tempo si è già da sé escluso dalla cerchia degli spiriti indipendenti (si veda l’ediz. italiana di Aurora boreale, un saggio di Schmitt tradotto per le Edizioni scientifiche italiane e ricco di apparati a cura di S. Nienhaus). Intanto si andava diffondendo il dogma che economia, finanza e arte si riconciliassero tra loro. Oggi l’economia senz’anima rivolge ovunque i suoi artigli, facendo intorno a sé il deserto.
Gli fa eco Jean Clair. Il «Corriere della Sera» dell’otto agosto riporta un’anticipazione del suo ultimo libro, L’inverno della cultura, dove i giochi del contemporaneo vengono dannati definitivamente; vi si parla di «degenerazioni dell’arte contemporanea»: «la discesa dall’high culture alla low culture è una discesa agli inferi», i suoi protagonisti conoscono solo le tecniche del marketing. Un’altra anticipazione del testo polemico di Clair è offerta in rete da «Il Covile», numero 653. «L’arte contemporanea – vi si legge – è la storia di un naufragio e di uno sprofondamento». Sacrosante reazioni di nobili figure a situazioni insopportabili. I giornali però, inclini a conclusioni a effetto, propendono per l'ipotesi di una prossima fine di questo infernale gioco, quasi si trattasse di una moda sconfitta ormai dalla noia. Si dovrebbe essere meno ottimisti. Davanti ai restauri contemporanei di un ufficio postale anni Trenta, di fronte alle soluzioni standard, omologate, un’amica ci diceva realista che questa specie di arte attuale non può che essere così, funzionale al sistema che non concede deroghe. Ovvero, l’arte del capitalismo estremo non può che essere brutta. L’arte di massa in una società definitivamente nichilista non ha più neppure delle tracce di bellezza. Soltanto l’avvento di un «regnum gratiae» potrebbe modificare l’estetica.
All’inizio del Novecento c’era ancora chi sosteneva che «per un uomo di cultura la peggiore immoralità sarebbe quella di accettare i parametri della sua epoca» (Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit). Per Carl Schmitt la parola «contemporaneo» suonava come «complice dell’epoca meccanicistica», perché colui che crede di dover andare col tempo si è già da sé escluso dalla cerchia degli spiriti indipendenti (si veda l’ediz. italiana di Aurora boreale, un saggio di Schmitt tradotto per le Edizioni scientifiche italiane e ricco di apparati a cura di S. Nienhaus). Intanto si andava diffondendo il dogma che economia, finanza e arte si riconciliassero tra loro. Oggi l’economia senz’anima rivolge ovunque i suoi artigli, facendo intorno a sé il deserto.
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