~ I NUOVI DOGMI MOLTO POP DEI PROTESTANTI ~
La parabola è nella fase discendente e svuota il cristianesimo; l’acme fu raggiunto quando Lutero si attestò sulla «sola Scriptura», mandando al rogo le interpretazioni dei sapienti, l’autorità della élite che è più equilibrata e assennata del singolo. Così l’invenzione del sacerdozio universale mise a diretto contatto la Sacra Scrittura e l’individuo solo, consacrato dal protestantesimo alla sua solitudine. La scrittura strappata agli apostoli viventi, i successori dei Dodici, diventava un feticcio, morta come tutte le carte costituzionali affidate al loro formalismo, una «tomba imbiancata», avrebbe detto Gesù. Il dogma della scrittura si imponeva da allora sull’Occidente: diffidenti verso tutto e tutti, senza più fede nella istituzione divina affidata a Pietro, senza più fiducia negli umani, senza più capacità di discernimento tra la comunità apostolica e i falsi profeti, confusi dal nichilismo di una simile mancanza di fondamento, ci si condannava al culto filologico, alla scienza linguistica, al decriptare le parole antiche secondo le procedure moderne del genere poliziesco. D’altra parte, l’esegesi di massa, affidata alle fantasie e alla cultura dell’estremo individualismo, produceva una macchina spaventosa, quella degli sceriffi che fanno giustizia del mondo a colpi di citazioni bibliche. «Un semplice laico armato con le Scritture è più grande del papa», dirà Lutero, per incoraggiare i suoi a rompere con la tradizione millenaria. La norma dunque è nella carta scritta, basta leggere, diranno gli ingenui protestanti. Basta annotarsi un versetto dunque per distruggere le più sublimi leggi del Magistero ecclesiastico che non si accordano con le fisime dell’interprete di turno. Il luogo della verità non è più nell’istituzione Chiesa ma nel «libero esame». Anche l’autorità di molti pastori e predicatori è personale, e discende dalla loro preparazione o da un qualche carisma, non da una investitura gerarchica.
Durò poco. Le scienze ‘laiche’ provocarono nuovi dubbi ai fedeli della «sola Scriptura», il Pietismo già sembrava diventare l’altra faccia dell’illuminismo, umanizzando ulteriormente la teologia, «situando [Dio] all’interno dell’autocoscienza sovrana dell’uomo» (Karl Barth). Nei salotti settecenteschi dei seguaci di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf la parola scritta diventava parola interiore, sfuggente. Quindi fu la volta del contesto, della ricerca archeologica, storica, linguistica, seguendo positivismo e storicismo. Una questione accademica, una comparazione tra libri, e piccoli Erostrati moderni si affannano ancora oggi a incendiare i Vangeli, magari per attirare l’attenzione del professor Ratzinger. Fatto è che se adesso si leggono in Paolo, l’eroe del protestantesimo, parole di fuoco sugli omosessuali, basta invocare subito i «pregiudizi patriarcali del tempo» come fanno i valdesi in una recente polemica interna, per ridurre la Scrittura ispirata da Dio a documento di un’epoca lontana, démodé, inutilizzabile anche quando parla con estrema chiarezza, da sostituire con le decisioni prese attraverso il «consenso maturo e rispettoso raggiunto dalla chiese locali». Ovvero, l’ultima parola non spetta più a Dio, le sue leggi scritte sono anzi invecchiate, bensì all’assemblea locale, alla pubblica opinione. La Scrittura è suscettibile di un nuova interpretazione fornita da un magistero senza tradizione però, senza sapienza, senza mandato apostolico; soltanto una chiacchiera come in televisione, che riecheggia il senso comune. Qualcun altro anche dalle parti cattoliche, per quanto assimilabile di fatto al protestantesimo contemporaneo, nega addirittura la resurrezione. Il teologo da autogrill, per esempio, che vende i suoi libri come un comico, si richiama alla televisione: se ci fosse stata una telecamera davanti al sepolcro di Cristo, si chiede, avremmo potuto credere alla scena raffigurata da Piero della Francesca, con il Vincitore della morte che si leva sul sepolcro come un atleta? Insomma, al posto della «sola Scriptura» per i neo-protestanti c’è ormai «sola televisione».
La parabola è nella fase discendente e svuota il cristianesimo; l’acme fu raggiunto quando Lutero si attestò sulla «sola Scriptura», mandando al rogo le interpretazioni dei sapienti, l’autorità della élite che è più equilibrata e assennata del singolo. Così l’invenzione del sacerdozio universale mise a diretto contatto la Sacra Scrittura e l’individuo solo, consacrato dal protestantesimo alla sua solitudine. La scrittura strappata agli apostoli viventi, i successori dei Dodici, diventava un feticcio, morta come tutte le carte costituzionali affidate al loro formalismo, una «tomba imbiancata», avrebbe detto Gesù. Il dogma della scrittura si imponeva da allora sull’Occidente: diffidenti verso tutto e tutti, senza più fede nella istituzione divina affidata a Pietro, senza più fiducia negli umani, senza più capacità di discernimento tra la comunità apostolica e i falsi profeti, confusi dal nichilismo di una simile mancanza di fondamento, ci si condannava al culto filologico, alla scienza linguistica, al decriptare le parole antiche secondo le procedure moderne del genere poliziesco. D’altra parte, l’esegesi di massa, affidata alle fantasie e alla cultura dell’estremo individualismo, produceva una macchina spaventosa, quella degli sceriffi che fanno giustizia del mondo a colpi di citazioni bibliche. «Un semplice laico armato con le Scritture è più grande del papa», dirà Lutero, per incoraggiare i suoi a rompere con la tradizione millenaria. La norma dunque è nella carta scritta, basta leggere, diranno gli ingenui protestanti. Basta annotarsi un versetto dunque per distruggere le più sublimi leggi del Magistero ecclesiastico che non si accordano con le fisime dell’interprete di turno. Il luogo della verità non è più nell’istituzione Chiesa ma nel «libero esame». Anche l’autorità di molti pastori e predicatori è personale, e discende dalla loro preparazione o da un qualche carisma, non da una investitura gerarchica.
Durò poco. Le scienze ‘laiche’ provocarono nuovi dubbi ai fedeli della «sola Scriptura», il Pietismo già sembrava diventare l’altra faccia dell’illuminismo, umanizzando ulteriormente la teologia, «situando [Dio] all’interno dell’autocoscienza sovrana dell’uomo» (Karl Barth). Nei salotti settecenteschi dei seguaci di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf la parola scritta diventava parola interiore, sfuggente. Quindi fu la volta del contesto, della ricerca archeologica, storica, linguistica, seguendo positivismo e storicismo. Una questione accademica, una comparazione tra libri, e piccoli Erostrati moderni si affannano ancora oggi a incendiare i Vangeli, magari per attirare l’attenzione del professor Ratzinger. Fatto è che se adesso si leggono in Paolo, l’eroe del protestantesimo, parole di fuoco sugli omosessuali, basta invocare subito i «pregiudizi patriarcali del tempo» come fanno i valdesi in una recente polemica interna, per ridurre la Scrittura ispirata da Dio a documento di un’epoca lontana, démodé, inutilizzabile anche quando parla con estrema chiarezza, da sostituire con le decisioni prese attraverso il «consenso maturo e rispettoso raggiunto dalla chiese locali». Ovvero, l’ultima parola non spetta più a Dio, le sue leggi scritte sono anzi invecchiate, bensì all’assemblea locale, alla pubblica opinione. La Scrittura è suscettibile di un nuova interpretazione fornita da un magistero senza tradizione però, senza sapienza, senza mandato apostolico; soltanto una chiacchiera come in televisione, che riecheggia il senso comune. Qualcun altro anche dalle parti cattoliche, per quanto assimilabile di fatto al protestantesimo contemporaneo, nega addirittura la resurrezione. Il teologo da autogrill, per esempio, che vende i suoi libri come un comico, si richiama alla televisione: se ci fosse stata una telecamera davanti al sepolcro di Cristo, si chiede, avremmo potuto credere alla scena raffigurata da Piero della Francesca, con il Vincitore della morte che si leva sul sepolcro come un atleta? Insomma, al posto della «sola Scriptura» per i neo-protestanti c’è ormai «sola televisione».
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