~ LA CICOGNA IRROMPE IN PARROCCHIA,
IL BEAT NELL’EREMO DI LISZT ~
Gesù disegnato come un marmocchio con un solo dentone, lentiggini e ciuffetto, che pende dal becco di una cicogna: così una parrocchia di Monte Mario a Roma narra sul suo bollettino l’incarnazione divina. Una spiritosaggine o piuttosto il dramma della incapacità di esprimersi, la confusione sui fondamentali, l’assoggettamento al gergo dominante, quello parodistico e comico. L’ossessivo ‘aggiornamento’ dei cattolici ha tanto in uggia l’eternità da diventare feticismo dell’immaginario reclamistico; il prete sull’altare non parla e canta nella lingua contemporanea, ripete nelle forme cheap della parrocchietta il tracotante idioma dei pubblicitari. A maggior gloria del Kitsch. I misteri cristiani spariscono, al loro posto si avverte l’enigma della merce.
Violata la regola universale della Catholica, si improvvisa continuamente con le migliori intenzioni di questo mondo (del mondo, appunto), ci si diverte a colpi di creatività da maestre di asilo in un ambito che non ha niente della ludoteca. C’è chi distribuisce la comunione facendo zuppetta con l’ostia nel «sangue di Cristo» contenuto in un calice che il celebrante affida a un ragazzo o a una matura signora della prima fila, chi pretende di ricevere l’ostia in mano e, appena girato, se la porta in bocca col gesto prosaico del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, c’è l’officiante che nel bel mezzo del sacro rito si dilunga nell’informazione spicciola, invogliando alla gita parrocchiale in Spagna o ad acquistare il biglietto dello spettacolo di beneficenza dove sono assicurate matte risate, chi dopo una breve lettura va a sedersi su uno scranno e resta in un lungo silenzio che mette in ansia i fedeli su un possibile mal di pancia del prete o su una sua improvvisa conversione al Quietismo, chi evita le candele e chi la croce, chi va a stringere la mano in segno di pace per tutta la chiesa, alla maniera dei politicanti in cerca di voti, rendendo vana quella lavanda dei polpastrelli da ogni impurità prima di toccare le sacre specie, chi spiega di volta in volta ogni suo gesto quasi si fosse in piena didattica catechistica invece che nella ripetizione di un sacrificio… Un prete in vena di cortesie per gli ospiti lodava la pazienza dei fedeli per aver assistito alla messa domenicale, quasi si trattasse di una sua conferenza poco brillante, chissà che ne avrebbe pensato sulla croce il Patiens per antonomasia.
Un giorno, in Paradiso, magari ci si accorgerà della manchevolezza armonica delle più elevate composizioni di Beethoven, e tutte le opere musicali, pittoriche e letterarie che tanto sembravano accostarci al Cielo – l’arte è quella attività che più somiglia alla religione, sosteneva Pio XII – mostreranno da una tale distanza la loro debolezza, però della volgarità di tutte le canzoncine post-conciliari si è consapevoli fin da adesso. Né vale obiettare che anche i pii canti di una volta apparivano teologicamente zoppicanti, i testi ingenui, semplici le melodie: erano infatti espressione popolare, niente di male, mentre ora si tratta di sottospecie del pop, di scarti festivalieri, ovvero di prodotti mercificati (non c’è bisogno di aver letto Adorno per capirlo), in ogni caso i dolci inni in onore della Madonna e dei santi si intonavano nelle processioni e nelle funzioni minori, non accompagnavano la somma liturgia della messa.
Restiamo a Monte Mario, l’altura che fa ombra alla valle del Vaticano, il Monte Gaudio dei pellegrini – risuona anche in Dante –, luogo felice dunque perché da lassù si vedeva finalmente la meta, la basilica di San Pietro. Su questo ‘monte’, di appena 139 metri, sorge la chiesa di Santa Maria del Rosario, un rifugio delizioso tra il modernismo delle case anni Cinquanta. Qui, Franz Liszt si nascose al mondo e contemplò Roma. Dopo «il virtuoso degli anni del pellegrinaggio», dopo «lo tzigano delle rapsodie ungheresi», dopo «il maestro di cappella di corte», si presentò alla vita musicale come «l’abate Liszt». Ospite del convento che affiancava la settecentesca chiesa, uno dei massimi geni musicali serviva umilmente la liturgia suonando un armonium – mancando i soldi per acquistare un organo – e componeva musica sacra nel silenzio del luogo. Liszt «vide in Roma – si legge in un vecchio programma di sala – un forum mondiale dove realizzare le sue ambizioni riformatrici nei generi e nelle istituzioni della musica liturgica cattolica. Suo desiderio era poter diventare un “nuovo Palestrina, salvatore della musica”». Quale migliore occasione allora, in queste celebrazioni del bicentenario lisztiano che ci hanno accompagnato nell’anno ormai alla fine, per una riflessione solenne, magari proprio in questo eremo, sul ruolo della musica nei riti cattolici di oggi? Invece, la scorsa domenica, forse per un improvvido dono di Natale, la messa nella chiesa ‘di Liszt’ era accompagnata dalle chitarre e dalle solite, bruttissime, canzonette.
Non è la chitarra in sé che irrita i disgraziati fedeli (anche se non è un caso che il regale organo, con i suoi soffi evocanti lo Spirito santo, sia il principe degli strumenti musicali liturgici), la leggenda che accompagna la notissima Stille Nacht sta a dimostrarlo: alla vigilia di Natale del primo Ottocento l’organo di una chiesetta alpina si era rotto e il compositore austriaco Franz Xaver Gruber, in mancanza di meglio, eseguì il suo canto romantico alla chitarra, ma suonandola appunto in modo ‘classico’, pizzicando, arpeggiando, non battendo tempi corrivi con ‘pennate’ – cioè a colpi di plettro – accompagnamento più adatto ai coretti della gita scolastica. Quando non si ricorre alla violenza beat, moda peraltro che risale a mezzo secolo fa, si ripiega su melodie del tutto simili alle colonne sonore delle soap: perché mai i fedeli devono trovare nel tempio di Dio i medesimi suoni che ci tormentano nel regno dell’effimero televisivo? Perché il prete deve trasformarsi in animatore? Tutti da rianimare, tutti senz’anima?
IL BEAT NELL’EREMO DI LISZT ~
Gesù disegnato come un marmocchio con un solo dentone, lentiggini e ciuffetto, che pende dal becco di una cicogna: così una parrocchia di Monte Mario a Roma narra sul suo bollettino l’incarnazione divina. Una spiritosaggine o piuttosto il dramma della incapacità di esprimersi, la confusione sui fondamentali, l’assoggettamento al gergo dominante, quello parodistico e comico. L’ossessivo ‘aggiornamento’ dei cattolici ha tanto in uggia l’eternità da diventare feticismo dell’immaginario reclamistico; il prete sull’altare non parla e canta nella lingua contemporanea, ripete nelle forme cheap della parrocchietta il tracotante idioma dei pubblicitari. A maggior gloria del Kitsch. I misteri cristiani spariscono, al loro posto si avverte l’enigma della merce.
Violata la regola universale della Catholica, si improvvisa continuamente con le migliori intenzioni di questo mondo (del mondo, appunto), ci si diverte a colpi di creatività da maestre di asilo in un ambito che non ha niente della ludoteca. C’è chi distribuisce la comunione facendo zuppetta con l’ostia nel «sangue di Cristo» contenuto in un calice che il celebrante affida a un ragazzo o a una matura signora della prima fila, chi pretende di ricevere l’ostia in mano e, appena girato, se la porta in bocca col gesto prosaico del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, c’è l’officiante che nel bel mezzo del sacro rito si dilunga nell’informazione spicciola, invogliando alla gita parrocchiale in Spagna o ad acquistare il biglietto dello spettacolo di beneficenza dove sono assicurate matte risate, chi dopo una breve lettura va a sedersi su uno scranno e resta in un lungo silenzio che mette in ansia i fedeli su un possibile mal di pancia del prete o su una sua improvvisa conversione al Quietismo, chi evita le candele e chi la croce, chi va a stringere la mano in segno di pace per tutta la chiesa, alla maniera dei politicanti in cerca di voti, rendendo vana quella lavanda dei polpastrelli da ogni impurità prima di toccare le sacre specie, chi spiega di volta in volta ogni suo gesto quasi si fosse in piena didattica catechistica invece che nella ripetizione di un sacrificio… Un prete in vena di cortesie per gli ospiti lodava la pazienza dei fedeli per aver assistito alla messa domenicale, quasi si trattasse di una sua conferenza poco brillante, chissà che ne avrebbe pensato sulla croce il Patiens per antonomasia.
Un giorno, in Paradiso, magari ci si accorgerà della manchevolezza armonica delle più elevate composizioni di Beethoven, e tutte le opere musicali, pittoriche e letterarie che tanto sembravano accostarci al Cielo – l’arte è quella attività che più somiglia alla religione, sosteneva Pio XII – mostreranno da una tale distanza la loro debolezza, però della volgarità di tutte le canzoncine post-conciliari si è consapevoli fin da adesso. Né vale obiettare che anche i pii canti di una volta apparivano teologicamente zoppicanti, i testi ingenui, semplici le melodie: erano infatti espressione popolare, niente di male, mentre ora si tratta di sottospecie del pop, di scarti festivalieri, ovvero di prodotti mercificati (non c’è bisogno di aver letto Adorno per capirlo), in ogni caso i dolci inni in onore della Madonna e dei santi si intonavano nelle processioni e nelle funzioni minori, non accompagnavano la somma liturgia della messa.
Restiamo a Monte Mario, l’altura che fa ombra alla valle del Vaticano, il Monte Gaudio dei pellegrini – risuona anche in Dante –, luogo felice dunque perché da lassù si vedeva finalmente la meta, la basilica di San Pietro. Su questo ‘monte’, di appena 139 metri, sorge la chiesa di Santa Maria del Rosario, un rifugio delizioso tra il modernismo delle case anni Cinquanta. Qui, Franz Liszt si nascose al mondo e contemplò Roma. Dopo «il virtuoso degli anni del pellegrinaggio», dopo «lo tzigano delle rapsodie ungheresi», dopo «il maestro di cappella di corte», si presentò alla vita musicale come «l’abate Liszt». Ospite del convento che affiancava la settecentesca chiesa, uno dei massimi geni musicali serviva umilmente la liturgia suonando un armonium – mancando i soldi per acquistare un organo – e componeva musica sacra nel silenzio del luogo. Liszt «vide in Roma – si legge in un vecchio programma di sala – un forum mondiale dove realizzare le sue ambizioni riformatrici nei generi e nelle istituzioni della musica liturgica cattolica. Suo desiderio era poter diventare un “nuovo Palestrina, salvatore della musica”». Quale migliore occasione allora, in queste celebrazioni del bicentenario lisztiano che ci hanno accompagnato nell’anno ormai alla fine, per una riflessione solenne, magari proprio in questo eremo, sul ruolo della musica nei riti cattolici di oggi? Invece, la scorsa domenica, forse per un improvvido dono di Natale, la messa nella chiesa ‘di Liszt’ era accompagnata dalle chitarre e dalle solite, bruttissime, canzonette.
Non è la chitarra in sé che irrita i disgraziati fedeli (anche se non è un caso che il regale organo, con i suoi soffi evocanti lo Spirito santo, sia il principe degli strumenti musicali liturgici), la leggenda che accompagna la notissima Stille Nacht sta a dimostrarlo: alla vigilia di Natale del primo Ottocento l’organo di una chiesetta alpina si era rotto e il compositore austriaco Franz Xaver Gruber, in mancanza di meglio, eseguì il suo canto romantico alla chitarra, ma suonandola appunto in modo ‘classico’, pizzicando, arpeggiando, non battendo tempi corrivi con ‘pennate’ – cioè a colpi di plettro – accompagnamento più adatto ai coretti della gita scolastica. Quando non si ricorre alla violenza beat, moda peraltro che risale a mezzo secolo fa, si ripiega su melodie del tutto simili alle colonne sonore delle soap: perché mai i fedeli devono trovare nel tempio di Dio i medesimi suoni che ci tormentano nel regno dell’effimero televisivo? Perché il prete deve trasformarsi in animatore? Tutti da rianimare, tutti senz’anima?
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