~ LA NEVE, IL GAUDIO E I VERSI ~
Archiviando la nevicata romana 2012, questo «Almanacco» che ne ha viste molte altre ricorda come nei decenni passati si accogliesse il bianco manto con maggiore giubilo, i bambini vocianti per le strade, le persone d’ogni età estasiate e liete (nel 1958, ad esempio, Cristina Campo scriveva euforica per questa subitanea e allegra discesa dei fiocchi su Trinità dei Monti già al confine con la primavera e sognava di accordarla al rito della conversazione con gli amici fiorentini, cui è dedicato l’ultimo suo epistolario appena pubblicato), senza l’angoscia indotta dai media e soprattutto dallo sgraziatissimo sindaco con le sue mosse scriteriate (paghiamo di più i politici se vogliamo che accorra in quei luoghi qualcuno che vale), senza le ordinanze che tenevano tutti a casa in un vano coprifuoco e senza quell’aria da piccola apocalisse che i laici tirano fuori a ogni occasione insolita. Insomma stavolta non sembrava la festa mobile decisa dal cielo che repentinamente cambia i colori e le dimensioni dei nostri spazi urbani, la beata sospensione della vita quotidiana, la calma, gli echi, il camminare impacciato come da infanti, affondando o scivolando… Non risuonavano le grida di allegrezza né le risate piene per la smentita, con simili freddi siberiani nel Mediterraneo, delle tesi sinistre sulla desertificazione del pianeta. Ma di tali meste reazioni forse una causa risiede anche nell’invecchiamento della popolazione.
Allora davanti a un fenomeno meteorologico tanto raro a Roma, l’«Almanacco» ricorre a un dono altrettanto d’eccezione e pubblica dei versi poetici di cui è programmaticamente avaro. Per l’inquietante senso di assenza che ha accompagnato l’imbiancamento della città, per il vuoto apertosi fin dalla prima sera – dopo le code di auto in periferia e gli abbandoni selvaggi delle carcasse, nel centro storico non c’era più un umano, non ragazzi che giocassero a tirarsi le palle ghiacciate, non adulti curiosi, non vecchi commossi: se ne stavano tutti rinserrati, stupiti e impauriti i sempre più scarsi abitanti della city da uffici, all’ora di cena di un venerdì, di solito giorno di struscio e di caos –, per quello sgomento di fronte a un evento naturale che scompagina la nostra vita avvolta dalla tecnologia ecco una poesia di Sergio Solmi su un algido emblema, barocco come si conviene a questa città: La rosa gelata.
«La rosa / che l’inverno dischiuse, / svolse, innervò, arricciò, / vetrificò / d’incarnatini zuccheri, / venò d’impercettibile sangue. Fissata / nel suo gelo oltrevita, la penso / perfetto emblema d’un giorno, a disfarsi / non destinata foglia / dopo foglia nel molle / sfacelo delle stagioni, ma come / aereo, spettrale cristallo, di colpo / a frangersi» (dicembre 1968, in Quadernetto giallo, Adelphi).
Archiviando la nevicata romana 2012, questo «Almanacco» che ne ha viste molte altre ricorda come nei decenni passati si accogliesse il bianco manto con maggiore giubilo, i bambini vocianti per le strade, le persone d’ogni età estasiate e liete (nel 1958, ad esempio, Cristina Campo scriveva euforica per questa subitanea e allegra discesa dei fiocchi su Trinità dei Monti già al confine con la primavera e sognava di accordarla al rito della conversazione con gli amici fiorentini, cui è dedicato l’ultimo suo epistolario appena pubblicato), senza l’angoscia indotta dai media e soprattutto dallo sgraziatissimo sindaco con le sue mosse scriteriate (paghiamo di più i politici se vogliamo che accorra in quei luoghi qualcuno che vale), senza le ordinanze che tenevano tutti a casa in un vano coprifuoco e senza quell’aria da piccola apocalisse che i laici tirano fuori a ogni occasione insolita. Insomma stavolta non sembrava la festa mobile decisa dal cielo che repentinamente cambia i colori e le dimensioni dei nostri spazi urbani, la beata sospensione della vita quotidiana, la calma, gli echi, il camminare impacciato come da infanti, affondando o scivolando… Non risuonavano le grida di allegrezza né le risate piene per la smentita, con simili freddi siberiani nel Mediterraneo, delle tesi sinistre sulla desertificazione del pianeta. Ma di tali meste reazioni forse una causa risiede anche nell’invecchiamento della popolazione.
Allora davanti a un fenomeno meteorologico tanto raro a Roma, l’«Almanacco» ricorre a un dono altrettanto d’eccezione e pubblica dei versi poetici di cui è programmaticamente avaro. Per l’inquietante senso di assenza che ha accompagnato l’imbiancamento della città, per il vuoto apertosi fin dalla prima sera – dopo le code di auto in periferia e gli abbandoni selvaggi delle carcasse, nel centro storico non c’era più un umano, non ragazzi che giocassero a tirarsi le palle ghiacciate, non adulti curiosi, non vecchi commossi: se ne stavano tutti rinserrati, stupiti e impauriti i sempre più scarsi abitanti della city da uffici, all’ora di cena di un venerdì, di solito giorno di struscio e di caos –, per quello sgomento di fronte a un evento naturale che scompagina la nostra vita avvolta dalla tecnologia ecco una poesia di Sergio Solmi su un algido emblema, barocco come si conviene a questa città: La rosa gelata.
«La rosa / che l’inverno dischiuse, / svolse, innervò, arricciò, / vetrificò / d’incarnatini zuccheri, / venò d’impercettibile sangue. Fissata / nel suo gelo oltrevita, la penso / perfetto emblema d’un giorno, a disfarsi / non destinata foglia / dopo foglia nel molle / sfacelo delle stagioni, ma come / aereo, spettrale cristallo, di colpo / a frangersi» (dicembre 1968, in Quadernetto giallo, Adelphi).
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