domenica 29 aprile 2012

L'armonia cattolica

~ PICCOLE CHIOSE AL «SAGGIO»
DI JUAN DONOSO CORTÉS.~
E MOLTE CITAZIONI DEI SUOI PENSIERI ~

La perfetta armonia, la bellezza, fu lacerata dal peccato. E bastò quella lacerazione, uno strappo, una ferita, perché l’armonia venisse meno e nell’Eden si introducesse la morte fino ad allora sconosciuta. Solo con la crocifissione divina, con il sacrificio messianico che cancellava l’antico peccato, il mondo tornava a risplendere. È quello il segreto intravisto nella luce di Piero a Sansepolcro come nel saggio di un diplomatico spagnolo dopo la grande macelleria napoleonica. «Deificazione» dell’uomo era un termine che l’ambasciatore di Madrid non temeva di impiegare, sottraendolo alla confusione dei moderni. Il concetto era familiare anche ai nostri artisti del Rinascimento. Gli umani cercavano una falsa via per uscire dai loro limiti, per modellarsi sul divino, quella suggerita da Lucifero; la Chiesa di Roma proponeva un percorso opposto. Michelangelo pose sotto gli occhi dei fedeli nella cappella papale la scintilla soprannaturale che si accende tra il Creatore e Adamo, ridotti in pittura a due grandi corpi, secondo le parole bibliche, simili.

Il maestro di tutti i tradizionalisti, il terzo della triade – a parere di Barbey d’Aurevilly – dopo de Maistre e de Bonald, la guida di Carl Schmitt, colui che insegna a chi si inorgoglisce della modernità e del laicismo come questi concetti siano la pallida traduzione della teologia (anche Nietzsche se ne renderà conto più tardi: «così profondamente siamo indebitati verso la vita religiosa»), Juan Francisco María Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas (1809-1853), ammonirebbe anche i nostri contemporanei se non fossero tanto fatui da far finta di niente (però, un secolo e mezzo dopo quei discorsi, un pensatore che raccoglie dispersi frammenti della sinistra politica si produce in studi intricati e in vari tomi sull’homo sacer, sia pure attraverso la lezione del sommo giurista tedesco che a Donoso dedicò quattro saggi devoti).

Donoso partiva da Roma. La ‘questione romana’ aveva nella sua opera principale, l’Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo un carattere universale, ben lontano dalle meschinerie nazionalistiche che assumerà nel cosiddetto Risorgimento. Roma è il centro. La Chiesa cattolica è romana come l’impero che accoglieva i popoli. Usa il latino che con il suo rigore tiene insieme questi popoli nella civiltà non umiliata da troppi confini, dagli arcaismi del sangue e del suolo che il romanticismo agitava in quegli anni all’orizzonte.

Il Saggio apparve nel 1851, Metternich lo salutava in questa maniera: «Nel mirabile Saggio tutto è severo come il vostro pensiero e luminoso come la vostra intelligenza». Anche al papa piaceva e la «Civiltà Cattolica» lo recensiva difendendolo di fronte a tutte le critiche. A Roma si pensò a lui per una risposta dura al liberalismo montante e da una sua Lettera che riassumeva i principali errori della modernità nacque il «Sillabo»: nell’epoca superliberista suona più che mai scandaloso un simile elenco. Le prime pagine dell’Ensayo erano, come si diceva, dedicate a Roma.

«Quel possente impero [romano] prese dall’Oriente il senso della legittimità che gli faceva amare la vastità dei confini e la forza, e dall’Occidente una legittimità che si manifestava nell’intelligenza e nella disciplina. Per questo, Roma soggioga tutti e nulla può resisterle, tutto assoggetta e nessuno osa lamentarsene. Come la teologia romana ha qualcosa di diverso e qualcosa di comune con tutte le altre, Roma ha qualcosa che le è peculiare e molto che la fa simile a tutte le nazioni vinte dalle sue armi e offuscate dalla sua gloria: di Sparta ha il rigore, di Atene la cultura, di Menfi lo splendore, di Babilonia e di Ninive la grandezza. In altri termini, l’Oriente è la tesi, l’Occidente l’antitesi, Roma la sintesi. L’impero romano sta a significare che la tesi orientale e l’antitesi occidentale sono confluite nella sintesi romana. Si scomponga ora codesta mirabile sintesi e sarà evidente che essa non è solo il risultato di armonie politiche e sociali ma anche il frutto di una unità nell’ordine religioso». (Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, a cura di Giovanni Allegra, Rusconi, 1972, p. 56). Viene subito da chiedersi: avrà letto Notti romane di Alessandro Verri? In quel tempo, mentre la capitale delle arti mondiali si trasferiva a Parigi, il ruolo di Roma era l’asse portante di ogni riflessione sul Génie du Christianisme: anche nella superbia di un visconte francese al centro dell’Europa di allora e sebbene il tema sia nascosto negli ultimi capitoli del suo libro a gloria della cultura cattolica, all’ombra delle rovine, Chateaubriand ammette: «Rome chrétienne a été pour le monde moderne ce que Rome païenne fut pour le monde antique, le lien universel; cette capitale des nations remplit toutes les conditions de sa destinée, et semble véritablement la Ville éternelle». A noi fa pure venire in mente certi pensieri di Leo Strauss in una «Nota» sull’autore del De rerum natura: «essere romano [al tempo di Lucrezio] significa avere un’affinità, negata agli altri uomini, con chi guida e governa il tutto».

Ma a differenza di Chateaubriand, Donoso non è devoto del rovinismo, non si inebria per la desertificazione della Campagna romana. Nei tempi seguiti alla morte di Cristo – scriverà –, non solo Gerusalemme paga il fio del deicidio, «Gerusalemme spopolata, le sue mura al suolo, il suo popolo disperso per il mondo, e il mondo in guerra», anche Roma, soprattutto la Roma rappresentata da Pilato, la Roma che sempre si accompagna e si intreccia con Gerusalemme, «vide cose mai viste da occhio umano». «Roma senza imperatori e senza dèi, le città spopolate e pieni di gente i deserti; barbari analfabeti, vestiti di rozze pelli, governare le nazioni, le folle obbedire alla voce di colui che diceva sulle rive del Giordano: ‘Fate penitenza’ […]. Perché questi vasti cambiamenti, queste perturbazioni? Perché simili desolazioni e cataclismi? Che cosa significa tutto ciò? Che cosa succede? Nulla: nuovi teologi vanno annunziando per il mondo una nuova teologia» (pp. 62-63).

Il capitolo successivo si apre con tali parole: «Questa nuova teologia si chiama cattolicesimo». E articola la spiegazione: «Il cattolicesimo è un sistema completo di civiltà, giacché, nella sua immensità tutto comprende: la scienza di Dio, la scienza degli angeli, la scienza dell’universo, la scienza dell’uomo. L’incredulo è colpito dalla ‘inconcepibile stravaganza’ di questo sistema, il credente dalla sua ‘straordinaria grandezza’. […] L’umanità intera ha frequentato per diciannove secoli le scuole dei suoi teologi e dei suoi dottori; e dopo aver tanto imparato, dopo aver così a lungo frequentato, ancora non è arrivato a sondare completamente l’abisso della sua scienza» (p. 65). L’umanità insomma ha appreso una «teologia universale» che abbraccia ogni verità e abbraccia «tutto ciò che è contenuto in tutte le verità». Qua e là Donoso traduce in chiave romana certo hegelismo.

L’infallibilità del Vicario

«Il cattolicesimo si impadronì dell’uomo intero, carne, sensi e anima». L’ordine religioso si trasferì all’ordine morale e da questo al mondo politico. L’autorità concepita dai cattolici non solo viene da Dio ma ritiene coerentemente con tale principio che i governanti non siano nulla, appena dei «ministri di Dio e servitori dei popoli». Per l’universalismo cattolico inoltre i popoli stanno su un piano di parità (ma qui chiude un occhio su vescovi ed eminenze francesi che furono meno universali): «Per la Chiesa non esistono né barbari né greci, né giudei né pagani. Vi trovano posto lo scita e il romano, il persiano e il macedone, chi viene dall’Oriente e chi viene dall’Occidente, chi dalle parti del Settentrione e chi dal Mezzogiorno […]. Suoi cittadini sono re e imperatori, i suoi eroi sono i martiri e i santi. Il suo invincibile esercito è formato da quei valorosi che vinsero in se stessi tutti gli appetiti della carne […]. Quando i suoi pontefici parlano alla terra, la loro parola infallibile è stata già trascritta da Dio stesso nel cielo» (p. 80). Donoso sta anticipando il Vaticano I, la proclamazione del dogma che più sconcerta i moderni, l’infallibilità della cattedra petrina.

L’infallibilità della Chiesa gli sembra derivare dalla sua immortalità nella storia umana: «la Chiesa rappresenta la natura umana senza peccato, così come uscì dalle mani di Dio», una creatura dunque senza peccato originale e non condannata alla mortalità. Ma che direbbe adesso lo Spagnolo, quando le massime autorità cattoliche ripetono ogni giorno dei peccati della Chiesa in quanto costituita da uomini? La Chiesa infallibile può indicare la verità e affermare che fuori di essa non c’è salvezza, ma i moderni si rivolgono ad altri: «il giorno in cui la società, dimentica delle sue decisioni dottrinali, ha domandato che cosa sia verità ed errore alla stampa e ai parlamenti, ai giornalisti e alle assemblee, in quel giorno errore e verità si sono confusi in tutti gli intelletti e la società è caduta nella regione delle ombre e sotto l’imperio dei sofismi. Sentendo in sé, da una parte, un’imperiosa necessità a sottomettersi alla verità e a sottrarsi all’errore, ed essendogli d’altra parte impossibile verificare che cosa sia l’errore e che cosa la verità, il nostro tempo ha compilato un catalogo di verità convenzionali ed arbitrarie e un altro di supposti errori, e si è detto: ‘Adorerò le prime e condannerò i secondi’, ignorando, tale è la sua cecità, che mentre adora e condanna gli altri esso non adora né condanna nulla, o che condannando o adorando qualcosa, adora e condanna se stesso» (pp. 85-86). La verità senza rivelazione è ridotta all’opinione, al giornalismo, il quale a sua volta addestra i propri lettori fedeli allo «scetticismo assoluto». Forse neppure l’acuto Donoso poteva prevedere teologi ed ecclesiastici nutrirsi di quel medesimo verbo giornalistico, senza fondamento, e predicare l’incertezza, il dubbio come virtù. L’ossimorico predicare il vangelo del dubbio. E intanto le biblioteche sprofondano sotto il peso di questi cataloghi di «verità convenzionali e arbitrarie», più o meno urlate con gusto espressionista.

La democrazia cattolica

«Nel cattolicesimo l’uomo non è mai solo» diceva Donoso e già spiegava in negativo la nostra epoca acattolica, le alienazioni d’ogni tipo, le solitudini più o meno disperate, l’atomizzazione dell’Occidente. La letteratura e il cinema polizieschi dei mondi protestanti ne sono oggi la conferma.

La figura del papa unisce quella del monarca assoluto con la scelta elettiva che elimina appunto il sangue, l’aristocrazia per diritto di sangue. Anche il pastore abruzzese può salire sul trono di Pietro è l’eterno Leitmotiv cattolico che riprende Schmitt nel suo Cattolicesimo romano e forma politica, e questa possibilità unisce i vantaggi delle due forme di potere, afferma Donoso. Un’altra caratteristica di universalità, monarchia e democrazia fuse insieme. Se la monarchia simboleggerà quel Dio unico di cui il pontefice è il vicario in terra, la democrazia cattolica apparirà, agli occhi di Donoso, «immensa». «Nulla in questa società prodigiosa è stabilito in favore di chi comanda ma tutto è per la salvezza di chi obbedisce […]; il buon pastore deve morire per le sue pecore» (p. 94). In un certo qual senso una simile democrazia è anche la «potentissima oligarchia» che costituisce la gerarchia e ha come «prerogativa altissima» non quella dell’esercizio del governo bensì di «rendere il Figlio di Dio schiavo della sua voce». L’espressione forte di Donoso è una parafrasi di quella che il Vangelo riporta come parola di Cristo a Pietro: ciò che scioglierai su questa terra sarà sciolto nei Cieli. Quindi la loro alta prerogativa è quella del «diritto di perdonare».

Una soprannaturale deificazione dell’uomo

La fede in una «trasformazione radicale» che cambi le creature, anzi che modifichi la natura umana, è presente in varie culture e «non c’è erudito che non ne scopra le tracce in ogni religione per poco che se ne occupi» (p. 100). Il comparativismo dei Lumi può volgersi nella glorificazione del cattolicesimo: quelle sparse e vaghe nozioni presenti anche se più o meno nascoste in tutta l’umanità rifulgono nella chiarezza esemplare dei dogmi della Chiesa di Roma. Satana «non ingannò del tutto i nostri progenitori quando disse loro che sarebbero diventati simili agli dèi […], l’errore della teologia pagana non è tanto nell’affermare che l’umano e il divino sono destinati a congiungersi, ma piuttosto nella loro totale confusione fra natura divina e natura umana, laddove il cattolicesimo, considerando le due nature del tutto separate, giunge alla unità attraverso la soprannaturale deificazione dell’uomo» (pp. 100-101). Quel Rinascimento che vedeva Roma affermarsi sui residui bizantini e sulle teologie germaniche – e che non a caso produceva in poco tempo la scissione eretica dell’Europa resistente alla latinizzazione – aveva al centro proprio il miracolo della «soprannaturale deificazione dell’uomo», qui era il punto-chiave dell’identità cattolica, qui nasceva il duro contrasto con l’uomo visto solo come peccatore, ovvero l’angosciosa visione luterana. È merito di Donoso averlo riconosciuto. Satana comunque è speciale nel copiare, Simia Dei, scimmia di Dio,che dice apparentemente le stesse cose: sarete come Dio, non precisa – manca il Logos – che, pur somigliando, resterete umani divinizzati, non vi trasformerete mai in dèi, come avviene nei miracoli gnostici. Questo l’antico imbroglio. Perciò la Chiesa ha sempre dovuto fissare dei dogmi, facile essendo lo scivolamento di senso, da cui deriva quel carattere «indistinto» che, secondo Donoso, caratterizza il moderno.

Il «Dio della verità» nei cieli e il «Dio dell’assurdo», l’uomo, sulla terra, in una specie di parodia. Molta teologia dell’assurdo, disperata o quantomeno inquieta, celebra forse senza saperlo soltanto l’uomo. Continui capovolgimenti di senso, i paradossi dei «figli di Caino» fanno sì che la saggezza dei secoli diventi superstiziosa ignoranza, che il governo appaia come una tirannia, l’obbedienza schiavitù, «che il bello è brutto e il brutto bellissimo». Siamo con quest’ultima inversione nel cuore dei problemi contemporanei. Negli anni di Donoso, un convertito al cattolicesimo, un apostolo del Romanticismo, Friedrich Schlegel predicava il «bello del brutto» senza l’ironia di Chesterton. Contro questo continuo prendersi gioco della logica, Donoso ribadisce «l’incomparabile bellezza delle soluzioni cattoliche».

L’uguaglianza nel dolore

L’«uguaglianza nel dolore»: ecco il principio che annichilisce tutto l’affannarsi per le questioni sociali. Che cosa sono i piccoli privilegi materiali di fronte alle malattie e alla morte? Questa l’essenza del pensiero conservatore. Nient’altro che invidia sociale pare quello scrutare la ricchezza altrui e chiederne una manciata mettendo tra parentesi l’ingiustizia profonda dei malanni fisici. In alto o in basso, «non esiste carne che non abbia conosciuto il dolore e spirito che non abbia conosciuto l’angoscia». Una volta placata la fame, come ai nostri giorni, l’attivismo progressista per enfatizzare i segni di classe viene meno. Resta l’offesa alla dignità dell’uomo fatto a somiglianza di Dio nel lavoro di fabbrica che pare inventato per negare la sua immagine divina, così come avviene in molte stanze del museo contemporaneo dove un ossessivo caricaturizzare, una sempiterno ridacchiare – quale quello che secondo i Padri della Chiesa caratterizza l’Inferno – tentano ugualmente di cancellare, e con violenza, le tracce di ogni metafisica. Alla ricerca di un equilibrio su questo mondo, Donoso lo scorge anche nel modo maldestro cui son dannati gli impostori e nei limiti messi «alle stesse virtù di coloro che sono mirabilmente sagaci». È il demonio ad avere «la sagacia senza la virtù» e «la malizia senza la goffaggine», con tutto lo «smisurato potere» che ne consegue.

C’è un termine che ricorre nelle conversazioni progressiste, soprattutto in tempi recenti: quando si tratta di scegliere, di affermare se una cosa è bianca o nera, se si sta con Gesù o con Barabba, esce il magico aggettivo, la questione è complessa. La complessità impedirebbe di scegliere. Donoso spiega questo arrotolarsi nei distinguo dicendo che «principale interesse del liberalismo è di non arrivare mai al giorno delle negazioni radicali o delle affermazioni sovrane», il liberalismo annega nell’eterna discussione – la borghesia clasa discutidora – «perché sa bene che un popolo che ascolta continuamente dalla bocca dei suoi sofisti il pro e il contro di tutto, finisce col non saper più a che cosa credere e col domandarsi se la verità e l’errore, il giusto e l’ingiusto, l’onestà e l’infamia siano cose fra loro contrarie o siano una stessa cosa osservata da diversi punti di vista» (p. 233). La critica al liberalismo d’antan è quella che oggi si può rivolgere alla sinistra in voga. Il socialismo con la sua tragica possanza è sparito di scena. Resta lo scetticismo, il radicalismo nient’affatto chic, la discussione futile e lo spazio salottiero che presuppone. Oggi la vittoria dei socialismi su tutti i liberalismi prevista da Donoso – e che i cattolici in genere sempre diedero per scontata quando non l’auspicarono – è già superata. Un liberalismo di ritorno, incongruo, ancor più sfuggente, impalpabile, ha spazzato via ogni idea socialista. Nonostante i moralismi e i puritanesimi diffusi come non mai, anche nel mondo latino, non si fa più caso al fatto che la corruzione appare «il dio del liberalismo», tutte le società finite nel liberalismo muoiono di una stessa morte, la «cancrena» della corruzione. «Tutti insieme corrompono le masse con le promesse, e le masse corrompono tutti con il loro minaccioso muggire» (p. 243). Ecco spiegata in due parole la democrazia e la demagogia, anche quella massmediatica, un «minaccioso muggire».

C’è un mistero irrisolvibile per il socialismo: le origini del male. Non, naturalmente, le cause più vicine, lo sfruttamento da parte dei capitalisti, ma il perché che ne è alla base. Ovvero, c’è una cattiveria intrinseca nel cuore dei ‘padroni’? c’è forse un male endemico nel sistema capitalistico per cui gli umani sono costretti a sottomettersi a un siffatto sistema? Lo si fa per i soldi? Allora la natura umana è attratta dalle ricchezze, è forse questo il guaio? La risposta, le risposte sono cruciali. Il cattolicesimo sostiene la realtà del male e della redenzione; lo stesso pensa il socialismo. C’è però una differenza di non poco conto: i cattolici credono nel male dell’uomo e nella redenzione operata da Dio; i socialisti credono nel male della società e nella redenzione operata dall’uomo (dalla ‘classe’ dirà il socialismo marxista che ancora non è così plastico davanti a Donoso). Si torna quindi alla solita confusione per cui l’uomo viene divinizzato senza che una tale trasformazione sia considerata un fatto miracoloso, che richiede un intervento divino. Ancora una volta, Donoso mostra come la discussione rimandi alle origini teologiche.

Essendo le scuole socialiste «essenzialmente teologiche» anche quando lo negano, a differenza di quelle liberali, è chiaro che sedussero gli umani più sensibili alle questioni religiose. Una tale tragica coscienza poteva sembrare una modernizzazione del cristianesimo. Niente a che vedere con quello che avvenne dopo, negli ultimi decenni quando, liberatosi per coerenza antimetafisica, delle costruzioni spirituali, rimase un materialismo che riduceva assai l’orizzonte: tutta una questione di soldi, una versione speculare del liberalismo, benché più misera. Questioni salariali (quattro soldi) vs. liberi arricchimenti. In tempi più recenti poi, nella nostra attualità, peggiora lo spirito di invidia che si formò a quella scuola e si occupa il giorno interessandosi alle tasche altrui, confrontando, contando quanto guadagnano, quanto spendono, quanto rubano, quanto son corrotti gli altri, quasi si fosse dei confessori di massa, responsabili delle anime dei più, senza le tecniche ascetiche per uscire indenni da tanto marciume quotidiano.

Anche lo scandalo della bruttezza e della vecchiaia avevano in Donoso delle spiegazioni teologiche. Nonostante la «guasta natura» dovuta ad Adamo – il più grande peccatore, secondo lui, mentre nel dibattito d’oggi appare quasi innocente, al più vagamente stolto – , la bellezza risiede qui tra noi, «un po’ di bellezza», e nella sua ricerca continua dell’armonia Donoso ritiene che anche le bruttezze, ben mescolate, producano qualcosa di bello, di armonico appunto. Ma il guaio nasce nel contrasto violento, ragion per cui, per chi fu bello da giovane, a contatto con i peggioramenti della vecchiaia, produrrà una maggiore angoscia: «la bruttezza fisica sembra diminuire man mano che passano gli anni; la vecchiaia non disdice alla bruttezza […]. Nulla è invece più triste e più orrendo alla vista e all’immaginazione della vecchiezza sul volto di un angelo o della bruttezza unita alla primavera della vita. Le donne che, essendo state belle, conservano nella vecchiaia tracce della loro antica grazia, mi sono sembrate sempre orribili; qualcosa dentro di me grida: ‘Chi è stato il grande colpevole che per la prima volta unì quelle cose che Iddio fece distinte?» (p. 292). Evidentemente le alchimie romantiche di tipo estetico gli erano proprio estranee. Paura avrebbe provato l’ambasciatore spagnolo in Prussia se avesse visto le opere dell’espressionismo tedesco che di quella disarmonia saziavano la loro fame spirituale.

Più profondo il discorso sul senso del dolore, più scandaloso agli occhi dei moderni. Terribile appare infatti a lui la sofferenza che non è sentita come una punizione: insensata, inspiegabile, casuale, scuote la nostra mente e intensifica l’acutezza del male. «Il castigo fu il nuovo vincolo di unione fra Creatore e creatura, e in esso si associano misteriosamente misericordia e giustizia […]. Privando la sofferenza e il dolore del loro carattere di castigo, non li si priva soltanto del loro carattere di vincolo tra Creatore e uomo, ma soprattutto della loro azione espiatoria e purificatrice sull’uomo. Se il dolore non è un castigo è un male senza mescolanza di bene» (p. 296). Il ‘progressismo’ può esser letto come il più grande tentativo di distrazione da questo passaggio obbligato nel dolore. Donoso è invece convinto che per trasformare «in santa allegria la propria torbida tristezza» sia necessario il riferimento alla purificazione cristiana. Il dolore «accettato volontariamente è la misura di ogni grandezza; ché non può esservi grandezza senza sacrificio, e il sacrificio altro non è che dolore volontariamente accettato» (p. 298). Vi si risente l’eco di de Maistre.

«Il mondo, fino a oggi, è stato salvato dalla potenza della Chiesa nello sradicare le eresie, le quali, consistendo principalmente nell’insegnare una dottrina diversa da quella della Chiesa con le stesse parole che questa adopera, avrebbe trascinato il mondo già da molto tempo verso la catastrofe, se non fossero state estirpate» (p. 336). Aveva visto il messianismo della Rivoluzione francese, poteva profetizzare i totalitarismi del Novecento che volevano redimere l’umanità. La «grande eresia del secolo XVI», il protestantesimo del sacerdozio universale, era secondo lui il motore di tutte le eresie, di tutte le rivoluzioni. E «non si può non vedere nelle moderne rivoluzioni, paragonate alle antiche agitazioni, una forza invincibile di distruzione, la quale, non potendo essere divina, è satanica» (p. 338). Ma tutte le eresie somigliando all’ortodossia, come le opere di Satana, scimmia di Dio, Donoso può concludere che «il socialismo è oggi un semicattolicesimo e niente più» (p. 360), un cattolicesimo assurdo, irragionevole.

Delle pene

Un’altra imperdonabile affermazione di Donoso è quella sulla pena di morte. Senza gli ‘estetismi’ sul boia di de Maistre, lo Spagnolo arriva a considerare minutaglia i reati che tanto inorridiscono i nostri contemporanei e a irridere alle pene smisurate che sono previste in tali casi. Il termine di paragone resta il patibolo, agitato, va detto, non in chiave di isterica difesa, come aveva fatto Lutero e dietro di lui i puritani negli Stati Uniti che invitano ad abbattere il cane rabbioso affinché non si diffonda la ribellione pericolosa per la proprietà e il benessere civile, Donoso piuttosto ne fa un motivo di giustizia. Se abolite la pena di morte – dice – «è evidente la dissoluzione di qualsiasi sistema penale». Ma l’interrogazione va oltre, mette in crisi il boia americano che difende la gente quieta: in nome di che cosa lo Stato infligge la pena di morte? Come può esistere un delitto, un reato da pagare con la vita – si domanda il cattolico –, che non sia un peccato? La «secolarizzazione totale dello Stato […] è una teoria inconciliabile con quella che giustifica la pena». All’orizzonte intravedeva le «languide teorie dei criminalisti moderni». Ma comprendeva anche i pericoli di un mondo di fiabe promesso con faciloneria ai popoli. «Gli stessi che hanno fatto credere ai popoli che la terra può essere un paradiso, ancor più facilmente hanno fatto loro credere che dovrà essere un paradiso senza sangue. Il male non è nell’illusione ma nel fatto che se a tale illusione dovesse un giorno prestar fede il mondo, il sangue sgorgherebbe persino dalle dure rocce, e la terra diventerebbe un inferno. In questo oscuro e basso mondo l’uomo non può aspirare a una fortuna impossibile senza incorrere in una sfortuna tale da fargli perdere la poca felicità che gli è stata data» (p. 379). Così il pragmatico cattolico verso la fine del suo tomo. Forse non immaginava quanti irenici frati e suore del suo cattolicesimo predicano quella illusione e collaborano ai vari inferni in terra.
La Chiesa di Roma che ha attraversato negli ultimi decenni il versante protestante del cristianesimo, quasi un periodo penitenziale, con il purgatorio atroce dell’iconoclasmo, con la fase autopunitiva della liturgia di gusto borghese, ha perciò difficoltà a parlare di armonia, a ricordare l’armonia del suo pensiero dogmatico.

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