DELLA CHIESA DI ROMA
NEL RACCONTO DI TADEUSZ BREZA ~
«Vivo un papa, se ne fa un altro»: c’è chi, deformando un proverbio, prova a mettere in evidenza il carattere enigmatico degli avvenimenti cui assistiamo in questi giorni. Distante anni luce dalla cerimonia odierna, «senza forza né splendore, sciatta e un po’ piagnucolosa», come scrive Pietro De Marco in un eccellente commento sull’edizione fiorentina del «Corriere della Sera» (nei prossimi giorni lo troverete online sul «Covile» n. 744), quella che qui rievoca Tadeusz Breza (1905-1970), scrittore polacco e direttore dell’Istituto polacco a Roma negli anni pacelliani, era il trionfo della forma. Seguiva la morte di Pio XII e per l’ultima volta si chiamò rito dell’incoronazione. Dopo il Concilio, pagine come queste potrebbero suscitare brividi di orrore negli animi semplici che se la prendono con la mondanità, con la sua appariscenza, piuttosto che con il mondo. La lotta cristiana al mondo, del resto, si presenta ben più complicata.
Scriveva dunque Breza, rappresentante diplomatico di un paese a quei tempi comunista, nel suo diario che si permette qualche accenno polemico e politico:
«Roma, 3 novembre ‘58
L’incoronazione del papa è fissata per domani. F. dice che il Sacro Collegio dei Maestri delle Cerimonie Apostoliche al completo ha supplicato un piccolo rinvio, non sentendosi la forza di allestire nello spazio di una sola settimana una cerimonia di quella mole, la più solenne di quante la Chiesa conosca. Ma Giovanni XXIII si è impuntato: vuole lasciarsi quanto prima alle spalle questo periodo di transizione, questa specie di tappa che si conclude soltanto con l’incoronazione. Per la curia essa rappresenta uno sforzo inumano, sia dal lato liturgico che da quello cerimoniale, a causa dell’enorme afflusso a Roma di delegazioni e di personalità, tra cui molte ex-teste coronate e pretendenti al trono che vengono a rendere omaggio al nuovo papa.
Le cose sarebbero un po’ più semplici per quel che riguarda i patriarchi, i vescovi e i metropoliti giunti a Roma, se non fosse per il loro numero che è enorme. Bisogna dividerli tutti gerarchicamente, assegnando a ciascuno il suo posto preciso nella Basilica e nel corteo, poiché si tratta di un mondo terribilmente suscettibile in fatto di prestigio. Basta un piccolo sbaglio, ed ecco crearsi dei rancori che si trascinano per anni e anni. [...]
Roma, 5 novembre ‘58
Una cerimonia fantastica! Ci alziamo alle cinque del mattino per essere in S. Pietro il più presto possibile: abbiamo dei biglietti per una tribuna piuttosto buona ma siccome i posti non sono numerati, chi arriva prima si prende i migliori, vicino alla ringhiera. Entriamo dall’Arco delle Campane con in mano il nostro permesso personale per assistere alla Coronazione. Il servizio d’ordine è perfetto. C’è un’infinità di Svizzeri, di Guardie e di Gendarmi, e noi passiamo in continuazione dagli uni agli altri. Sono appunto le sei e mezzo, ma tutte le piazze, piazzette, stradine e passaggi dietro alla Basilica sono già gremiti di macchine. Ne scendono magnifici prelati, signori dalle uniformi e dai frac costellati di decorazioni, e signore dalle toilettes con velo cosparse di brillanti. Corrono tutti come matti, incalzati dai ciambellani e dai monsignori del cerimoniale, che in questo momento badano più al fatto che non si creino ingorghi che al protocollo.
La cerimonia comincia con una messa, intercalata dall’omaggio reso al nuovo papa dai cardinali e dai canonici di S. Pietro; poi viene l’incoronazione e infine il corteo e la solenne benedizione dalla loggia esterna alla folla accalcata nella piazza. L’intera cerimonia dura cinque ore, ed è qualcosa di assolutamente unico nel suo genere: una solennità grandiosa, travolgente. Ne usciamo intontiti, accecati e assordati dai torrenti di luci, di suoni e di colori. Migliaia di luci, fanfare, inni: le pareti della basilica sono parate di chilometri di stoffa purpurea, resa cangiante dai galloni dorati; cortei sempre più straordinari avanzano nei loro costumi multicolori. Ogni particolare ha un suo preciso significato liturgico molto antico e, la maggior parte delle volte, estremamente complesso. Ad illustrarcelo è un monsignore con il quale Zosia e io abbiamo attaccato discorso, e che ci spiega volta per volta questa o quella finezza. Ma il frastuono delle trombe e dei brani di musica sinfonica, ora di Palestrina ora di Gounod, il quale tra l’altro è l’autore dell’inno dello stato vaticano dalla melodia vagamente operistica, ci impedisce di afferrare il significato mistico degli avvenimenti che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Penso però che anche se mi riuscisse seguire tutte le spiegazioni, e anche se non mi sentissi frastornato dalla stanchezza, la proporzione tra l’ammirazione che provo per la forma e l’indifferenza che sento per il contenuto non ne uscirebbe affatto alterata. Non perché il contenuto mi sia estraneo: a Roma si impara ad ammirare ogni specie di antichità, non soltanto quella etrusca e latina. Se parlo di indifferenza, quindi, è solo perché qui la forma sovrasta imperiosamente il contenuto. Una forma travolgente, splendida, prepotente. Zosia, sempre più controllata, spalanca tanto d’occhi: le torna in mente una frase di Emerson, che ripete sottovoce: “La religione di un’epoca è la poesia di un’altra”.
Ma subito tace, perché in quello stesso momento da dietro l’altar maggiore spunta il corteo culminante della cerimonia, che si dirige verso la porta della Basilica. La folla non capisce più nulla: urla, batte le mani. Il papa la benedice dall’alto della sedia gestatoria, portata a spalla dai bussolanti in tunica rossa. Il corteo avanza lento, splendente, cangiante. Sfilano gli ordini, i capitoli, i cardinali, i grandi Maestri degli ordini cavallereschi, i dignitari vaticani dal costume diverso a seconda dell’epoca in cui fu creata la loro carica. Poi per mezz’ora sotto i nostri occhi sfila un interminabile fiume di mitre. Alcuni la portano in testa: sono i vescovi assistenti al Soglio, altri invece la portano in mano stretta contro il petto: sono quelli privi del titolo di assistenti al Soglio.
Ma portate in mano o sulla testa, di mitre ce ne sono non so più di quante specie diverse. Il monsignore ci indica quale mitra è preziosa, quale aurifregiata, e quale semplice, spiegandoci chi, quando e in quali circostanze vi abbia diritto. Poi, toccando le infule col dito, tanto ci passano vicino, ci inizia ai misteri della forma di questi solenni copricapo vescovili che, secondo le parole della formula consacrativa, devono servire ai vescovi, veri soldati, “da elmo protettivo… in modo che chi se ne adorna e la testa che se ne riveste appaiano terribili ai nemici della verità”. Terribile, a dire il vero, non ce ne sembra nessuna: alcuna hanno una forma insolita, e sono le mitre dei metropoliti e dei patriarchi di riti diversi da quello romano, come il rito melchita, copto, maronita, caldeo o armeno.
Anche il fiume di mitre finisce, al pari delle altre sezioni del corteo, composto prima dei porporati, dei cavalieri e dei dignitari, poi dei delegati ufficiali di sessanta stati e governi che hanno inviato delegazioni ufficiali per la cerimonia, e infine di altre due sezioni, le ultime ormai, scortate dai monsignori del cerimoniale e dagli ufficiali della Guardia Palatina. Quando è apparsa la prima di queste sezioni ho provato una sensazione strana. Fino a quel momento i membri del corteo erano persone vive, semplicemente rivestiti di costumi storici per l’occasione; ma questa nuova ondata di personaggi vestiti in abiti normali, di foggia odierna, sembrava una processione di fantasmi sbucati fuori da qualche ripostiglio: si sarebbe detto il finale di La Pazza di Chaillot. Per prima avanzava l’imperatrice austro-ungarica Zita, detronizzata quarant’anni fa. Poi nell’ordine secondo il quale furono spodestati, Ruprecht di Baviera, Federico di Sassonia, Giovanna di Bulgaria e altri ancora. Dopo di loro venivano i pretendenti al trono, seguiti dalle loro famiglie.
Il nostro monsignore ne riconosceva solo uno ogni tanto. Volta per volta lo sentivamo ripetere: Aosta, Asburgo, Borbone, Bonaparte, Braganza, Coburgo-Gotha, Savoia, e una volta persino Hohenzollern. Dopo questa sezione storica ne è sfilata un’altra, particolarmente curata dal protocollo vaticano, e composta di soli uomini: altri frac, altre decorazioni. Si trattava delle delegazioni ufficiali inviate a Roma dai grandi organismi internazionali come l’Onu e le varie derivazioni, e dai grandi enti europei: Mercato Comune d’Europa, Consiglio d’Europa, Comunità del Carbone e dell’Acciaio e Pool Atomico europeo.
Usciamo. Sulla piazza della Basilica ci troviamo circondati da ogni parte da un mare di gente. Alla luce del sole i colori delle divise e dei paramenti sacri si accendono, facendosi ancora più vividi. Una parte del corteo con il papa e i cardinali si reca nella Sala delle benedizioni, mentre il resto, tra cui anche il fiume di mitre, di cavalieri di Malta, di signori decorati e di Svizzeri in elmo e corazza scintillante, si schiera sulla scalinata monumentale della Basilica. Passa un altro quarto d’ora: adesso si ha veramente l’impressione di assistere a una colossale scena di massa di un’opera lirica, a un tutti di proporzioni gigantesche» (da Il portone di bronzo, Feltrinelli, 1962, pp.429-430; 432-434).
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