venerdì 20 dicembre 2013

I riti cinesi

 ~ LA «NUOVA MISSIONE» NEL SEICENTO ~ 
~ E NEL TEMPO ATTUALE ~ 

Tutto era diverso, salvo il tono della polemica, con accuse furenti da una parte e dall’altra. Nel fuoco della battaglia la Compagnia di Gesù, intenta alla «nuova missione» in Cina. I soldati di Ignazio mettevano da parte la evangelizzazione in virga ferrea e procedevano alla conquista delle anime. Non portavano laggiù la Chiesa dallo sfarzo barocco, gli echi delle glorie religiose e militari (Lepanto aveva segnato un’epoca), della precisione dottrinale (che noi chiamiamo controriformistica). Appena un po’ d’arte, quella trasportabile in bagagli leggeri, e le mirabilia coltivate da padre Athanasius Kircher nella sua Wunderkammer del Collegio Romano. In punta di piedi, umili (a parte l’erudizione da sfoggiare sobriamente), con grande incantamento per gli indigeni da convertire, sorpresi anche dal grado altissimo di una civiltà finora estranea al nostro mondo, come se nel tempo d’oggi si scoprisse su Marte un impero eccelso per ordinamento, pensiero, costumi e tecnologia. La controversia era già moderna: come tradurre il discorso evangelico in lingue aliene al mondo chiuso del Mediterraneo dove il cristianesimo sorse? Come tradurre – ripeterà la cultura moderna, compreso un Concilio convocato appositamente nel Novecento – il messaggio antico nel linguaggio di popoli così distanti temporalmente dall’epoca che vide il passaggio di Cristo su questa terra? E come adattare la liturgia sistemata da un papa romano del VI secolo ai popoli orientali o alle genti del terzo millennio? I missionari gesuiti posero la domanda e proposero la risposta con la massima indulgenza, sfumando sia l’identità cattolica sia quella del mondo orientale. Permisero manomissioni liturgiche, presero in prestito gesti e abiti dai culti locali, elaborarono cerimonie sacre a misura dei neofiti in tutto l’Oriente, i cosiddetti riti cinesi, i riti giapponesi, i riti malabarici (in India), ammisero la venerazione di Confucio, giurando trattarsi di un atto laico, di celebrazioni culturali, disobbedirono a Roma convinti di aver scoperto una universalità cristiana ancora più grande di quella predicata in Occidente. Probabilmente scattava anche la curiosaggine degli intellettuali che spesso li porta alla fascinazione per una novità. Tanto fu il riguardo per gli usi del popolo cinese, che le stesse questioni morali sembravano perdere la loro solidità nel mitico regno del Catai.

La guerra ai gesuiti missionari scoppiò nel Seicento. C’era sullo sfondo la saldezza dottrinaria raggiunta nel Concilio di Trento, c’era la fede millenaria scossa dalla Riforma protestante ma ricomposta dalla Controriforma, c’era lo spirito d’obbedienza e il principio d’autorità, il senso della gerarchia, le regole della Societas stessa che imponeva all’orgoglio umanista di trasformarsi «perinde ac cadaver»; la modernità faceva appena la sua prima comparsa, neonata, quindi, accattivante e promettente, con un volto assai meno spietato di quello che abbiamo poi conosciuto. La questione al centro di questa guerra in seno alla Catholica anticipava il motivo attuale, l’ansia postconciliare su come avvicinare la Chiesa cattolica al mondo secolarizzato, il cristianesimo della tradizione e la modernità che in modo virulento taglia i ponti con il passato. Si trattava dei prodromi, diverso il contesto. Tra le varie cose inimmaginabili ai tempi della diatriba ce ne è anche una avvenuta dianzi, che modifica ulteriormente il quadro della Chiesa di Roma: nessuno si sognava di vedere eletto papa un gesuita, avendo la Societas il suo «papa nero», ossia il Generale della Compagnia (grado militare del corpo speciale posto al servizio del pontefice), potente come un papa, abbigliato in nero come un semplice prete. 

L’uomo è «naturaliter christianus», sosteneva agli albori Tertulliano. I gesuiti in Cina ripresero questa ipotesi, la rafforzarono con una rappresentazione della civiltà cinese quasi fosse un mondo paradisiaco che aveva i contenuti evangelici nella sua trama. Ergo, Sina est naturaliter christiana. Offre l’assist Tertulliano anche agli evangelizzatori dei nostri giorni.

Parliamo di una «nuova missione», dell’esperimento audace, del teatro cinese – secondo gli accusatori, in primis giansenisti – che mettono in scena i reverendi padri gesuiti in un impero sconosciuto e lontano, al riparo dagli sguardi sospettosi del vecchio mondo. È infatti loro il monopolio dell’informazione cinese nei confronti dell’Occidente, loro sono i soli conoscitori della lingua, a loro appartengono le prime grammatiche che stampano in Europa forgiando nel piombo gli ideogrammi, loro sono gli interlocutori dei mandarini, di scienziati e letterati della sofisticatissima civiltà orientale che, pur senza traccia del Vangelo, appare mirabile e autentica concorrente dei regni cristiani, loro i cortigiani, talvolta anche gli amici, dell’Imperatore, del mitico sovrano con i caratteri divini. Le relazioni di viaggio, le traduzione di libri, sacri e non, le lettere, le opere che i confratelli al Collegio Romano compilano collazionando le carte dei missionari, formano una letteratura eccitante nel XVII e XVIII secolo. Le menti curiose consideravano quei documenti molto più avvincenti dei romanzi. Nel racconto dei gesuiti, i pagani cinesi assumevano i tratti cristiani. 

Confucianesimo e buddismo vengono assimilati alle filosofie, armonizzati con il cattolicesimo. Anzi, Confucio diviene un san Paolo cinese, un apostolo delle genti orientali. La Cina è una specie di immenso specchio dell’Occidente. La differenza cristiana si affievolisce. I missionari gesuiti son così convinti del genio del cristianesimo che non possono incontrare un mondo raffinatissimo come quello dell’Impero celeste senza immaginarlo in qualche modo cristiano. Del resto, il Doctor Eximius, padre Francisco Suárez S.J., sosteneva che l’atto di fede è relativo alla differenza di tempi e d’ambiente. L’indulgenza ottenuta dai pagani ‘classici’ poteva esser estesa a queste elegantissime genti orientali. Si concedevano anche qualche contraffazione storica per inventarsi un cristianesimo nascosto per millenni nel popolo cinese. Veniva in aiuto il geniale padre Kircher, decifratore a modo suo dei geroglifici egizi e dei misteri cinesi. Profuso negli studi sinologici, il Turingiano rinveniva dei cristiani nestoriani che si sarebbero spinti fin laggiù, a seminare chicchi evangelici. Ecco spiegate le virtù della civiltà cinese. Ma c’era chi ricostruiva viaggi apostolici in quelle terre, conferendo peraltro alla lingua cinese un primato che contraddiceva il racconto biblico, esaltando anche la morale di chi agli occhi di Roma era solo un pagano da salvare. E in terra di missione risultavano maestri di gentilezza, di cerimoniosità, di cortigianeria, conquistavano il cuore mondano, AMDG, naturalmente, in conformità con il motto della Societas. Sia detto tra parentesi, in allusione alle questioni del tempo nostro, non è proprio aggiustabile il rapporto tra Compagnia di Gesù e francescanesimo (il santo di Assisi evangelizza in altro modo: si presenta davanti al sultano e gli ordina di cambiar vita). Non è un caso che i cappuccini furono i più duri avversari delle missioni della Societas. La radicalità evangelica, la scabra parola biblica, la profezia che urla nel deserto son cose estranee a quei dialoganti con i saggi confuciani. Per la particolare mondanità della Compagnia non si predica l’ascetismo dei frati agli aristocratici interlocutori (lo si pratica in privato, riservato ai reverendi padri nel segreto delle loro stanze). 

La guerra dell’Occidente all’Impero cinese per assicurare la libertà d’azione dei missionari non convinceva i gesuiti. Qualcuno di loro parlava esplicitamente di «guerra ingiusta» (Josè de Acosta, per esempio). 

Il duca Louis de Rouvroy de Saint-Simon (appena una lontana parentela con l’utopista dell’èra industriale) scrive nel capitolo 51 dei suoi Mémoires: «Le polemiche dalla Cina cominciano a far scalpore, si parla delle cerimonie di Confucio e degli antenati, ecc., che i gesuiti concedono ai loro neofiti e che le Missioni straniere proibiscono ai loro: i primi sostengono che esse abbiano un carattere puramente civile, gli altri che siano superstiziose e idolatriche». Un riassuntino in punta di pettegolezzo, l’accenno al duello tra i gesuiti e i parigini delle Missioni estere, che tralascia i risvolti teologici. 

Se i gesuiti concedevano ai cinesi convertiti di perseverare nella venerazione di Confucio e degli antenati, se i riti cinesi non si limitavano al rispetto delle tradizioni locali ma investivano la liturgia cattolica, il nome di Dio che i colti missionari traducevano nel lessico del confucianesimo, l’immagine di Cristo che, per non spiacere al delicato gusto dei mandarini, ripulivano del sangue della Passione e perfino della morte per crocefissione, esaltando invece il corpo celeste della Resurrezione, se adattavano cioè il cattolicesimo romano all’ottica degli ‘infedeli’, è perché stavano mettendo a punto quella «inculturazione» che è croce e delizia dei tempi nostri ma che già i primi cristiani, senza troppo indulgere alle questioni di metodo, avevano di fatto praticato. Che altro fu infatti quella metamorfosi del Verbo ebraico nelle forme degli dèi latini, i templi e perfino le statue che cambiano di segno, i cortei pagani trasformati in processioni cristiane, il Natale che sostituisce il culto solare, tollerando che i romani si voltino ancora in devoto omaggio verso l’astro prima d’entrare nella basilica di san Pietro (papa Leone dixit), che altro se non inculturazione si poteva denominare quell’impero pagano che diviene sovranità del vescovo di Roma sull’Urbe e sull’orbe, il vicario di Cristo addirittura impadronendosi della carica imperiale di sommo pontefice? Concesse Gregorio Magno («Solo conservando per gli uomini alcune delle gioie del mondo, li condurrete più facilmente ad apprezzare le gioie dello spirito»), concessero tantissimo i papi dei primi secoli e quelli degli ultimi. Sennonché suona bizzarro che i fautori della inculturazione a ogni costo, i rispettosi di tutte le culture locali e di tutti i popoli, siano poi impietosi verso la cultura della Roma antica in cui si modellò la religione cattolica, dannandola perciò con la parola costantinismo. Tutti i compromessi siano benedetti – dicono coloro che pur definendosi cattolici avversano la storia cattolica – eccetto quello del vescovo di Roma con l’imperatore. Soltanto nel territorio dei Laterani, sui terreni concessi dall’Impero in decomposizione, nel regno spirituale della imperatrice Elena che trasportava con somma pietas le reliquie orientali sulle rive del Tevere, quel compromesso non s’aveva da fare e il mondo, secondo i precetti evangelici, andava disprezzato. E perché invece il mondo cinese, come oggi quelli alla periferia o quello ‘laico’, scilicet ateo, va tenuto in gran conto e ammirato e amato?

Essere arricchiti dagli altri, predicano oggi, essere arricchiti dai cinesi, dalla cultura cinese, predicavano i missionari gesuiti, scrivendo di questa ricchezza nelle loro relazioni di viaggio e nelle lettere ai confratelli del Collegio Romano. Tanto si venera la tradizione altrui quanto si disprezza la propria (non era ancora il caso dei gesuiti, più intricato il loro rapporto). Si va a prendere a destra e a manca, dai confuciani e dagli atei, dagli islamici e dagli gnostici, quasi non ci fosse nulla da inorgoglirsi nell’essere cattolici. Non è una ricchezza, non è la maggiore ricchezza al mondo, che ripaga della miseria materiale, essere i fedeli di Pietro e di Paolo, aver seguìto gli apostoli, far parte di coloro a cui è stato promesso il Regno? Non è una ricchezza straordinaria assistere ai sacri misteri, partecipare al sacrificio del Dio fatto uomo, consumando la vittima, mangiandola? E avere la deipara come regina, i santi come intercessori, i papi come guida? Non è il più grande privilegio poter diffondere il messaggio di salvezza dalla morte a coloro che ancora non lo hanno conosciuto o capito? E possedere una lingua che non solo unisce le chiese di tutto il pianeta, perfino oggi, nei frammenti che restano incastonati di quando in quando nella liturgia, ma che unisce il nostro tempo a quello dei primi apostoli e a quello dell’impero romano che contrassegnò l’antichità (l’unica via per raggiungere l’antico, diceva Hofmannsthal della lingua cattolica), ordunque il latino sarà ancora un sommo bene culturale? A vedere gli heideggeriani che consacrano la lingua tedesca e che considerano termini intraducibili i fantasiosi composti teutonici, riportandoli come un feticcio anche nella pubblicistica divulgativa, vien da chiedersi perché la parola divina debba essere adattata alle forme più indecorose, perché ci si debba accontentare dei significati più miseri offerti dalle lingue volgari. Il patrimonio è questo. Che saranno allora Confucio o Budda, Maometto o Lutero? E ci darà maggior ricchezza, qualche tallero d’argento in più, quell’infelice Kierkegaard o il moralista ossessivo Nietzsche? 

Chi vuole adeguare la Chiesa al nuovo secolo e addirittura al nuovo millennio, farle parlare il linguaggio di tutti, renderla schiava del presente, del soffocante presente – quando ci sarebbe tanto bisogno di una voce inattuale nello stridio di voci e immagini, di simboli, di orticelli consacrati e di templi sconsacrati, di inferni, di corse precipitose verso un telos che è il nulla –, costui ha fatto tesoro della lezione dei gesuiti in Cina ma non prende atto che il telos di padre Matteo Ricci era il Cielo, non il benessere in terra. La Cina non rappresentava per i missionari il destino (casomai il martirio coronava la missione), il mondo ‘laico’ per i neo-evangelizzatori è il destino. Dimentica pure, chiunque voglia sovrapporre direttamente l’evangelizzazione in Cina e quella in partibus nostrae aetatis, che tutte queste voci e immagini assedianti sono un déja vu persecutorio che noi chiamiamo post-moderno e che solo il Verbo eterno può spezzare. La disperazione contemporanea invoca perciò parole sottratte all’uso corrente, alla mercificazione universale, all’oppressione del tempo e considera un insopportabile martirio il vicario di Cristo che parla come un presentatore televisivo. La consolazione delle anime in pena non può avvenire mediante pensieri e parole secolarizzati. Alle persone stanche, abbrutite dalle frasi fatte, dai gesti scontati, manca la promessa di eternità, la possibilità di fuoruscita dal tempo. Ecco una differenza con la Cina di padre Matteo Ricci. Allora non si parlava di età della crisi, le cesure della storia erano miracoli, nei momenti più difficili si intravedeva casomai, anche senza la forza di dirselo, le figure livide del finale apocalittico. Né la decadenza d’Europa era già cominciata. Dominava la storia questo piccolissimo continente, quando i gesuiti presero a guardare altrove. Oggi è l’impero ‘laico’ a conquistare il mondo, la tirannia della comunicazione si impone ovunque. 

Vediamo meglio quel teatro cinese allestito dai gesuiti (e si rimanda anche a un articolo di questo «Almanacco» sulla missione di Ricci <http://almanaccoromano.blogspot.it/search?q=matteo+ricci>), vediamo se si tratta della medesima rappresentazione che il Vaticano II ha imposto e moltiplicato nei cinque mondi, o se una impercettibile differenza cambia le carte in tavola. Romano Amerio dedicò in Iota unum troppo scarne righe alla missione dei gesuiti, pur attento a non confondere la Compagnia del periodo d’oro con l’«odierno scadimento». «I Gesuiti – scrisse – infusero nella Chiesa una potente vitalità, proponendosi di organizzare tutto il genere umano e dirigere tutta la terra al cielo, anzi sottomettere, con tale intento, tutte le parti dell’enciclopedia e tutti i rami della convivenza sociale. […] Nel ricercare l’armonia dialettica tra i due mondi, che è sempre difficile, i Gesuiti inclinarono talora a rendere la religione più amica dell’umana natura (inquanto questa è buona e da Dio) che non a contrapporgliela (inquanto questa è corrotta e renitente)». La questione resta assai spigolosa, questa «amicizia» dell’umana natura contrastando con l’avversione evangelica per il mondo e per la natura umana depravata. 

Era il ritornello delle Provinciali che un Pascal in incognito, teologo dilettante e prosatore eccelso, faceva risuonare: l’innata bontà predicata da Confucio e riecheggiata dai gesuiti era irriducibile alla dottrina del peccato originale. Solo la religione cattolica, i suoi sacramenti, il suo magistero, riscattavano quella natura. L’antico dogma, «nulla salus extra Ecclesiam», ribadito dal catechismo tridentino («quanti vogliono conseguire la salute eterna devono aderire alla Chiesa, non diversamente da coloro che, per non perire nel diluvio, entrarono nell’arca»), in effetti non poteva accordarsi con il metodo dei gesuiti in Cina. Gli uomini della Compagnia facevano salire tutti sull’arca, ingresso gratuito. Antoine Arnauld, il Grand Arnauld come lo chiamavano i sostenitori della battaglia giansenista, il fratello di Agnès, badesse de Port-Royal, denunciava che «la Société a changé la face de la Chrestienté». Il compromesso cinese per lui era una eresia. Così accennava a quello strano teatro dei gesuiti: «in Cina si vestono come dei bonzi e così canonizzano nelle loro persone l’idolatria dei loro parrocchiani». Per rendere la Catholica «più amica della umana natura» si rischiava l’accusa di idolatria, si contornava il cratere dell’eresia? Ci si metteva comunque nei panni degli altri: non solo teatro gesuita ma arte tutta occidentale, esclusiva dell’Europa, come l’Illuminismo che ne discende, e che non poteva che nascere dalla civiltà cristiana, da quella singolare costruzione che è il costantinismo, tanto famigerato nel post-concilio novecentesco. (Nel tentativo di deviare la storia, i padri della Compagnia provarono a lanciare una nuova dinastia regale esplicitamente cristiana, attraverso una concubina rimasta incinta dell’Imperatore e convertita al cristianesimo La donna fu battezzata con il nome di Elena. Il figlio con quello di Costantino.) Pertanto i gesuiti, in questa rappresentazione cinese dove vestivano panni orientali, arrivarono a rovesciare completamente il punto di vista, a produrre la più radicale autocritica: i barbari siamo noi. Un certo qual relativismo aleggiava in tale geografia culturale, dove la barbarie girava sul globo a seconda della specola del soggetto. La verità, come sempre in questi eclatanti e cangianti spettacoli, finiva in ombra. Qualcuno si chiedeva già allora se la stessa Rivelazione, la promessa del Regno, non fosse ormai inutile nel più bello dei regni possibili, realizzato con la benedizione dei padri gesuiti.

La polemica giansenista batteva su questo punto. Le massime del Vangelo son dure da praticare, i padri della Compagnia le adattano con troppa facilità. Pronti a nascondere la croce per rendere più lieta la novella. Le missioni finora avevano visto i missionari accompagnarsi alle truppe degli Stati europei, la superiorità militare europea doveva mostrare la superiorità della sua religione, incutere rispetto, anzi soggezione. Certo, a noi adesso pare una via contorta quella che conduce a Cristo attraverso la guerra, ma confermare la verità cristiana con la potenza delle armi era la prassi di quel secolo. Con i gesuiti in Cina la penna prese il posto della spada. Ci si presentava come sapienti e si faceva entrismo a corte per poi raccontare ai nobili e ai mandarini che l’Occidente ha una spiegazione del mondo e della vita, che riempie i cuori di gioia: la morte è vinta. La tecnologia che si è sviluppata in Europa, e di cui gli orologi e gli altri capolavori meccanici che i gesuiti avevano portato in missione erano esempi attraenti, attestavano la raffinatezza culturale della civiltà cristiana. Juan Gonzalez de Mendoza, autore della prima Storia della Cina, non era un gesuita bensì un agostiniano, ma evidentemente, per il disorientamento indotto dalla collocazione nell’altra parte del mondo, anche lui si lasciò prendere dalle analogie. Vedeva nelle immagini cinesi una figura «di strana e meravigliosa forma, cui portano grandissima reverenza, un corpo dalle cui spalle escono tre teste […] il che dicono significare che hanno una sola intenzione… », alludendo naturalmente alla Trinità. Oppure: «sogliono dipingere una donna molto bella con un bambino in braccio e dicono che essa lo partorì e rimase vergine… ». Sbiadiva in tal modo il legame con il popolo ebraico, i passaggi-chiave della nostra tradizione, per lasciarsi prendere dalle più esotiche meraviglie del Levante. Pascal ripeteva tetragono che a lui di Confucio non importava granché e che rimaneva fedele a Mosé. Non c’è forse una affinità con quanto accade nei nostri tempi quando, pur senza andare troppo lontano, si limitano a intronizzare icone bizantine nelle chiese barocche, quasi ci fosse bisogno di quel cristianesimo misterioso, vago, sottinteso, non bastando le immagini piene della pittura italiana? Oppure con le conferenze degli gnostici, i libri cifrati che a sentir loro mostrerebbero un generico cristianesimo, esoterico come si conviene alla cultura elevata, con più malia di quello con dottrina e sacrifici prescritti dai catechismi? Al posto della Rivelazione, cominciava ad affermare qualche gesuita secoli prima di Heidegger, ci poteva essere il Disvelamento. 

Dall’altra parte del mondo, replicava Pascal, scettico sui racconti dei gesuiti, sia su quelli che facevano nelle loro Relazioni per mitizzare la Cina sia su quelli che ammannivano ai mandarini a proposito del cristianesimo facile: «io credo solo nelle storie i cui testimoni sono pronti a farsi sgozzare». La Compagnia era passata invece dal gioco al massacro al gioco di seduzione. Erano amabili con il mondo, i padri della Compagnia, però assai severi con sé stessi, pronti al martirio, umanisti cristiani che firmavano con il sangue i loro messaggi. 

Rendere «la religione più amica dell’umana natura» è, secondo Amerio, lo sforzo audace della Societas Jesu. Con tale intento, si costruiva una audace teologia che il padre Coton, confessore del re Enrico IV, riassumeva con spirito mondano (oggi si direbbe giornalistico): «Ecco in due parole la teologia che propongo: quel che noi chiamiamo bontà, onestà, civiltà autentica, grandezza di spirito e coraggio, con tutte le altre virtù naturali che troviamo nei pagani e nei peccatori, sono gli effetti della passione del Salvatore» (Intérieure occupation d’une âme dévote). La misericordia si allarga all’intera umanità, la bellezza del mondo, anche di quello pagano, anche di quello dei peccatori incalliti, è il risultato dell’Incarnazione divina. In una lettera di denuncia dell’operato della Compagnia indirizzata a papa Innocenzo XII, i rappresentanti delle Missioni estere di Parigi (la grande concorrente della Compagnia nel proselitismo cinese) potevano concludere: «i gesuiti sono troppo buoni: vorrebbero salvare tutti e non iscomodar alcuno, ma non si possono queste due cose conciliare. Sonovi delle occasioni nelle quali si dee scegliere una di queste due, e adoperare la massima: chi vuol salvare una vita la perderà; e chi avrà cuore di perderla la salverà». 

La Chiesa di Roma ha avuto in ogni epoca i suoi tormenti. Non si deve immaginare una lunga età dell’oro alle spalle, senza persecuzioni, senza travagli interni, senza peccato. Però l’evo moderno è più subdolo, colpisce al cuore l’uomo devoto, disintegra la sacralità, e gioca anche sul proprio ambiguo nome, ché ‘moderno’ è parola cristiana, con la storia lineare che corre verso un fine, escatologia annunciata dalla Scrittura. La Chiesa di padre Ricci non è comunque quella del primo gesuita diventato «papa bianco». La Chiesa di Roma del Seicento appariva trionfante, non ancora «umiliata, diminuita, scoraggiata», come la definisce oggi l’arcivescovo di Vienna. Non inorridite dunque se l’«esortazione» argentina propone dei singolari missionari, ricordatevi che i gesuiti «sono troppo buoni: vorrebbero salvar tutti»; ma non è neppure la prima volta che si riscontrano dei seri danni derivati dalla buona volontà. Rendere il cristianesimo amico dell’uomo è cosa buona e giusta, renderlo amico del mondo è cosa rischiosa. Ai tempi di padre Ricci, probabilmente il medium non era ancora il messaggio. Non un dettaglio da poco. 

Morale del racconto. Tanta attenzione a non scalfire le tradizioni (purché non si tratti di quelle nostre) e poi comunque arriva la globalizzazione e trascina via tutte le forme diverse, le riduce a una sola, con un sol pensiero, una sola moneta, un unico scambio. Quello che non si volle concedere a Dio, quell’universalità che unificava gli umani nel segno latino della Chiesa romana, è concesso alla potenza del denaro. Restano soltanto i fedeli della tradizione a difendersi da simile ineluttabilità.

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