IL SETTECENTO TRA GODURIE LIBERTINE
E FURORI MORALISTICI. ~ APPUNTI SPARSI ~
E FURORI MORALISTICI. ~ APPUNTI SPARSI ~
Pathos contrapposto a Bathos,
pietà, compassione versus riso di
scherno, comunque scadimento, anticlimax (nel senso moderno dell’accostamento
dissacrante alto/basso, ossia dal sublime al ridicolo). Nel 1764, William
Hogarth aveva intuito molto del moderno. Soltanto un inglese poteva creare
un’icona così potente come l’opera appunto titolata Bathos, con le stigmate precoci delle vignette dei comics e dei
cartoons; nella parte inferiore della scena, collezioni di oggetti, antiquariato
di strumenti dell’arte del passato finiti nella polvere, quasi spazzatura. Una
atmosfera apocalittica ma prosaica, «un
modo di affondare», come recita il sottotitolo, di scivolare nel baratro. Del
resto, l’altro titolo, Finis,
alludeva sia alla prossima morte del disegnatore (fu la sua ultima incisione) sia
alla fine del tempo che il moderno – dissolvendo la tradizione – comporta. E un
altro artista inglese, Joshua Reynolds, poteva vantare la Parodia della Scuola di Atene (1751), dipinto
romano che precede di qualche tempo la ripetizione estenuante delle Stanze di Raffaello da parte di pittori
pellegrini del Grand Tour. Al posto dei filosofi c’era il consesso dei borghesi.
Ma il trionfo del contemporaneo richiede di trasformare lo sfondo: in luogo
delle raffaellesche architetture classiche le forme ogivali, l’universo gotico, l’ambiente dove si eleva l’uomo nordico,
l’uomo moderno.
Le tombe di Canova rovesciano
quelle di Bernini. Nel Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, le figure
si avviano alla soglia fatale, entrano in uno spazio buio, dove il nero, in contrasto
con il candido marmo, inghiotte i
personaggi. Ade di gusto massonico come la piramide che lo inquadra. Invece, nel
sepolcro ideato da Bernini in memoria di papa Alessandro VII, per esempio, fuoriesce la Morte nel drappo di marmo
rosso. La terra e gli inferi – oltreché naturalmente il paradiso – sono nel
Seicento delle figure piene di dettagli e noi possediamo immagini ‘realistiche’
dello spirituale. Questa è la testimonianza cattolica, l’evangelo barocco che
viene tradito definitivamente dopo l’Ottantanove. Talvolta anche da Canova,
massima autorità artistica della Roma dei papi.
Ricominciare da capo, ossessivo
Leitmotiv sulle ceneri della tradizione. «Se mi si ordinasse un nuovo universo,
avrei la follia di intraprenderlo». Giovan Battista Piranesi sfidava proprio la
follia nel generoso progetto. Nessuno gli diede alcun incarico, il geniale
architetto dovette accontentarsi di disegnare sogni e una chiesetta esoterica
sull’Aventino. Una qualche affinità con Nietzsche che scontava in solitudine la
sua volontà di rifare l’uomo. La Ricostruzione futurista dell’universo ne era una
tarda e rumorosa appendice.
Il Settecento fu straziato al cavalletto (lo
strumento di tortura, non quello di pittura), squarciato tra godurie libertine e furori
moralistici. Gotico e Classico, Romano e Greco, indeterminatezza del sublime e
chiarezza del disegno ‘italiano’, mistero e illuminismo, forma piena e forma
ascetica. Piranesi li raccolse tutti in una medesima immagine, si trattasse dei
camini o delle architetture fantastiche. Schinkel fece soltanto l’eclettico. Intanto,
tra i pre-raffaelliti d’ogni scuola, la ‘perfezione’ rinascimentale doveva
essere depurata dalla corruzione del virtuosismo (che loro reputavano) senz’anima;
la ‘rozzezza’ medievale arricchita dal platonismo (che loro reputavano)
raffaellesco. Comunque, anche per ragioni più generali, per sottile avversione
dell’epoca, rifiutavano o mettevano tra parentesi o meglio ancora correggevano
vistosamente la prospettiva com’era stata codificata nel Rinascimento italiano.
Pre-raffaellismo infatti significa anche questo.
Delightful
horror.
Il brutto, il rude, l’adiposo, lo smisurato entravano nell’estetica del
sofisticato Settecento: il macigno Shakespeare era rotolato fuori dell’isola
britannica, e nel Continente, in primis nella Francia ancora classica, aveva un
effetto dirompente. E naturalmente, la scoperta del Bardo a distanza di secoli
dalla sua morte produceva anche molti equivoci.
Schiller spiegherà nel saggio Intorno al sublime che dentro una simile
esperienza estetica c’è «dolore e godimento»: ecco una delle prime
teorizzazioni dell’algolagnia (sfuggita al trattato di Mario Praz). Collocando
la polarità dominazione/sottomissione
su un piano storico, si può schematizzare: assolutismo del Settecento, pieno
dominio su cose e persone: Sade ne è
l’epitome. Il piacere visto dalla parte
della classe dirigente dell’ancien régime. Democrazia dell’Ottocento, soggetto
kantiano (imputato, giudice e boia al contempo): Sacher Masoch ne è l’epitome.
Il piacere visto dalla parte della folla. Il sadismo era in qualche modo legato
al mondo della tradizione, «un bastardo del cattolicesimo» lo chiama Huysmans
in À rebours, ma quando il
cristianesimo era ormai irriso e ridotto a rito mondano. All’opposto, il primo
masochismo, che ancora non si chiamava così, è confessato timidamente da
Jean-Jacques Rousseau, padre del nostro evo volgare, apostolo della democrazia:
«L’essere alle ginocchia di un’amante imperiosa, l’obbedire ai suoi ordini,
l’aver motivo di chiederle perdono erano per me dolcissimi godimenti…».
Nell’epoca laica, positivista e anonima il dottor Masoch predicherà senza
rossori il culto dell’assoggettamento. «Un istinto generale della società», per
usare la terminologia di Leibniz. Hans Sedlmayr ricostruirà in campo artistico
questa attrazione umana per la degradazione, il piegarsi alle forme più basse,
il rifiuto dell’esercizio aristocratico del potere per inginocchiarsi poi,
atterriti, davanti a ogni suo feticcio (cfr. il suo Perdita del centro).
Philipp Otto Runge dice esplicitamente che nella
pittura vuole evadere dalla religione «nata» dal cattolicesimo così come si
guarda bene dalla Storia. Quindi istituisce in arte il culto del paesaggio. E
torna a contemplare la natura, come sempre quando le rivoluzioni falliscono.
Però nella degenerazione rivoluzionaria si vuol mantenere saldo il sacro
principio ispiratore e quindi resta una profonda attesa: dalla natura verrà la
soluzione messianica che gli uomini non seppero darsi. Poi il paesaggio, ovvero
il teatro dei pantesimi, la scena prediletta del sublime, l’infinito in cui
affogare in mancanza di Dio, diventano man mano scenette riposanti e
pittoresche per interni di case Biedermeier.
Paesaggi con rovine. Al progressismo illusorio dei Lumi si
oppone il dato di fatto che sta avanzando solo il numero dei morti tumulati su
questa terra, le tombe appesantiscono il nostro globo, si moltiplicano gli
scacchi all’orgoglio umano. Appena un escamotage
sarà quello di incenerire i corpi.
«Paganesimo delle immagini» era la vecchia
accusa di tutti gli iconoclasti alla Chiesa di Roma, però la vera idolatria si
ha quando l’arte, liberata da ogni vincolo, si erge come una nuova religione,
religione idolatrica, appunto, politeista.
Secondo alcuni è Goya a lasciare da parte a un certo punto i
grandi condottieri nelle scene belliche per occuparsi, primo artista, delle anonime vittime. Ouverture del Novecento, della sua
seconda parte, quando in seguito ad avvenimenti più criminali che guerrieri, si
mise al centro la figura della vittima, si fece storia delle vittime, lasciando
scendere un’ombra sui vincitori. Affondava così l’impianto classico. Non più le
ragioni dei potenti, il modello della storiografia romana. Sopraggiungeva il
‘classico colpevolizzato’ degli ultimi decenni del secolo appena tramontato.
Per rappresentare le vittime, piuttosto che l’arte del periodo aureo, ci
vorrebbe quella paleocristiana, l’umiltà dei bassorilievi catacombali. Anche la
letteratura classica è sospetta. Un sonetto o un romanzo sono quasi un delitto,
solo lo sperimentalismo ha il diritto dalla sua parte, si sosterrà. Spariscono
i trionfi, le architetture imponenti, i templi per il Deus Dominus. La Chiesa di Roma rinuncerà
alla sua millenaria liturgia gloriosa.
I dipinti di Goya dedicati
ai vinti si limitarono a celebrare i fucilati, i matti, i mostri. Fino ad
allora le vittime anonime erano glorificate in quanto martiri della fede:
soffrivano quaggiù i peggiori tormenti ma, mentre i loro aguzzini erano ancora
al lavoro, si aprivano i cieli fulgidi per accoglierli in trionfi sontuosi,
incoronati con le palme della vittoria. I martiri moderni, da Goya in poi
appunto, risultano maggiormente dolorosi, senza alcun premio, senza neppure
l’aldilà gaudioso. Inquietanti.
Nessun commento:
Posta un commento