SI AMMANTA DI GRAZIA LUDICA ~
~ «IL ‘900», II PUNTATA ~
Diari lontani (1989-1995) per cercare il bandolo del secolo scorso. Per la puntata precedente cliccare qui.
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TROMPE-L’OEIL
- Un Curtius splendidamente sintetico: «… in tutti i paesi d’Europa gli artisti
della giovane generazione producono oggi, in sorprendente unanimità e come se
si fossero passati una parola d’ordine, un’arte che scandalizza i più vecchi e
che non è capita nemmeno dai critici meglio disposti, tanto che questi credono
di trovarsi di fronte a una farsa gigantesca che unisce Europa e America come
in una congiura […]. L’arte, per così dire, non viene presa sul serio, è sparito
tutto il pathos religioso di cui si era circondato il godimento estetico da
duecento anni in qua […]. Per il nuovo sentimento vitale, l’arte possiede la
sua grazia e il suo incanto quando è gioco e gioco soltanto. Questo spostamento
di accento nel campo estetico corrisponde alla nuova coscienza, al gioioso
sentimento di festa che si è sostituito all’etica del lavoro del XIX secolo.
[…] Oggi preferiamo tra i valori dell’azione quelli che sono del tipo dello
sport, cioè del puro lusso. […] «Anche nella politica […] si è manifestata una
tendenza à la baisse. Oggi si fa meno
politica che nel 1900. Nessuno si aspetta più la salvezza dalla politica: non
riusciamo più a capire come ai tempi dei nostri nonni si potessero drizzare
barricate per formule costituzionali […]. Libertà non è più per noi una parola
inebriante. Ortega crede per questo che si sia conclusa l’èra delle
rivoluzioni: le utopie politiche hanno perso la loro forza d’attrazione, noi
riusciamo a penetrare oltre il loro carattere chimerico e alla politica delle
idee succede una politica delle cose e degli uomini. Ma soprattutto la politica
sparisce dal primo piano degli interessi umani, diventa un mestiere come un
altro, indispensabile ma senza accenti patetici: non si muore più per le idee politiche».
Ogni frase dello scritto citato, talvolta le singole parole, si accomodano così
bene ai nostri giorni, li riassumono disinvoltamente e garantiscono di un
passaggio definitivo, confermando le convinzioni raggiunte a fatica negli
ultimi tempi, che è terribile scoprire la data di questa pagine: 1924. Una data
tanto remota – precedente le liturgie surrealiste e la tirannia del georgiano
sulla Russia – sconvolge infatti ogni certezza storica, ogni diagnosi di media
durata sulle tendenze del mondo. Adesso sappiamo. In quell’anno 1924 si
credevano leggeri e desacralizzati, dovevano precipitare nell’Inferno,
schiacciati da massi carismatici. L’arte ludica sarà sconfessata dal realismo
imposto dagli assolutismi montanti, dalle culture di regime, dalla gravità
espressionistica delle vittime, dalla indicibilità delle stragi che non trovava
più una forma decente per rappresentarsi, dalla fuligginosa letteratura dei
rimorsi, dalle teorizzazioni ricorrenti dell’engagement. L’ideologia della festa che doveva sostituire l’etica
del lavoro verrà affossata qualche anno dopo, di fronte ai rischi di
immiserimento scaturiti dalla crisi del ’29, operai d’acciaio saranno celebrati
a Mosca come a Berlino – mentre a Parigi ci si limiterà ai poveri ma belli del
Front populaire, poi le fabbriche che si accenderanno nel delirio bellico e
l’ethos del lavoro finirà nel cartiglio all’ingresso dei Lager. Le «utopie
politiche hanno perso la loro forza di attrazione», scrive Curtius: non gli
faceva velo l’acutezza, era la storia che stava tirando un brutto scherzo ai
credenti del progresso. Ci si accostava leggeri alle più micidiali macchine
politiche e mezza Europa sarebbe finita stritolata nei loro ingranaggi,
schierata in utopici fronti di lotta, pronta a sacrificare vite umane, città,
memoria, tutto quanto di umano era possibile offrire. In qualche modo,
costretta a farlo. Milioni di morti con le divise ideologiche, con i
contrassegni di diversi colori a marchiare le vittime: politica e morte
trovarono un connubio che nessun machiavellico aveva mai teorizzato in sì
sproporzionate misure. D’ora in poi, dopo aver letto l’inganno ottico di
Curtius, tutte le cautele sono legittime. E infatti da mezzo secolo in qua sono
state ripetutamente avanzate. Sogghigna il negatore del semplicismo
progressista, sa che i richiami dell’inumano son sempre più forti di ogni
ragionamento. Ma il quadro tracciato dall’attento filologo non era un
vaneggiamento fantasioso, più probabilmente si confuse soltanto la prova
generale con la ‘prima’.
Nonostante
tutto, «revisionista» è un bell’attributo.
UN
RUMENO A PARIGI - È possibile mantenersi ‘buoni’ facendo i complici di Stati
tirannici tanto efferati quanto quelli novecenteschi? Esistono complici in
‘buona fede’? che cos’è la buona fede in politica? Che ‘buono’ poteva mai
venire da certe complicità con la
Russia o con la
Germania? Anche di simili cose parlava il giovane Cioran
quando, esule rumeno disoccupato a Parigi, scriveva «a un amico lontano»
rimasto dall’altra parte della cortina di ferro, parlando di «due tipi di
società»: «la vostra parzialità nei confronti di quella dell’Occidente, di cui
voi non distinguete con chiarezza i difetti, dipende da quella distanza:
inganno ottico e nostalgia dell’inaccessibile. […] Che da lontano voi ne
abbiate una visione mirabolante è del tutto naturale: dal momento che io la conosco da vicino è mio dovere
combattere le illusioni che potreste avere al suo riguardo. Non che mi
dispiaccia del tutto – sapete il mio debole per l’orrido – ma il dispiego di
insensibilità che essa esige per essere sopportata va al di là delle mie
risorse di cinismo. Si può dire che le ingiustizie vi abbondano: per la verità
è la quinta essenza dell’ingiustizia. Solo gli sfaccendati, i parassiti, gli
esperti in turpitudine, i piccoli e grandi porci profittano dei beni che essa
mette a disposizione dell’opulenza di cui si inorgoglisce; delizie e abbondanza
di superficie. Sotto il brillante che mette in mostra si nasconde un mondo di
desolazione di cui vi risparmio i dettagli. Senza l’intervento di un miracolo,
come spiegare il fatto che non si riduca in polvere sotto i nostri occhi, e che
non la facciano saltare in aria immediatamente? ‘La nostra non è migliore. Al
contrario’, mi obietterete. Lo ammetto. È proprio questa la faccenda. Ci
muoviamo davanti a due tipi di società intollerabili. E, quel che è grave, gli
abusi della vostra permettono a questa di perseverare nei suoi, e di opporre
assai efficacemente i propri orrori a quelli che si praticano da voi. La
critica decisiva che si può muovere al vostro regime è di avere distrutto
l’utopia […]. La borghesia ha compreso il vantaggio che ne poteva trarre contro
gli avversari dello statu quo; il ‘miracolo’ che la salva, che la preserva da
una distruzione immediata, è proprio lo scacco dell’altra parte, lo spettacolo
di una grande idea sfigurata, il disinganno che ne è risultato e che,
impadronendosi degli spiriti, finisce per paralizzarli». Il depresso con «il
debole per l’orrido» spiega la ferocia del mondo. Intanto il suo interlocutore,
l’«amico lontano», adesso ha un nome, era Costantin Noica, torturato nelle
galere di Ceausescu e tradotto negli ultimi tempi anche in Italia. A leggere le
pagine sulle sue prigioni, sulla brutalità da Ludus Dacicus, viene il dubbio
che l’analisi di Cioran manchi di equilibrio. Ci si convince che il rumeno con
«il debole per l’orrido» doveva restarsene in patria e magari finire nelle
stanze di tortura del regime se voleva sperimentare qualcosa veramente forte
invece di fare il turista a Parigi per godersi lo spettacolo dell’Apocalisse
sui boulevards. Si resta pure meravigliati dell’attenzione per le utopie
sfigurate che mai ci saremmo aspettata da un tipo che si rappresentò sempre
come un bruto nichilista. Ma adesso che quegli staterelli sadici son venuti giù
in presa diretta nessuno naturalmente si mette a fare confronti tra cinismo a
Ovest e a Est. Solo gli sciocchi potevano pensare che dalle ceneri del
comunismo sarebbe nato un mondo più buono. Non ricordavano come l’idealismo
europeo fu travolto dalla conquista armata del pragmatismo democratico degli
Stati Uniti vincitori.
TECNICI
- Nel secolo che ormai finisce quante persone si potevano incrociare in Europa
che avevano maneggiato armi proprie e improprie, uccidendo «innocenti» o
«colpevoli», uno solo o tanti, in imprese belliche non sempre ufficiali. Non
soltanto i tecnici delle docce fatali. Anonimi omini, magari pensierosi,
talvolta con la benedizione del pensiero dominante, talvolta maledetti dalle
maggioranze. La retorica pubblica continuava a emettere sentenze che
raggiungevano anche le coscienze.
SDOLCINATURE
- Negli ultimi decenni la Chiesa di Roma ha lasciato
circolare l’idea che l’amore divino sia di grana terrena, ossia assai
sentimentale. Contro il cattolicesimo potrebbe tornare l’accusa ricorrente di
scivolare nel paganesimo: gli abitanti dell’Olimpo, si racconta, erano mossi da
passioni erotiche e in qualche caso da innamoramenti pedestri. Ma i numi pagani
conoscevano anche le crudeltà, gli inganni, le turpitudini. Il probo Dio
cristiano viene ridotto a un essere esclusivamente sentimentale, con le
smancerie del peggiore bigottismo, imagerie
per pie popolane ottocentesche. In
confronto i salotti del pietismo mostravano almeno sentimenti più fieri. In
quei circoli si fremeva di santo orgoglio, sopravviveva qualche lampo della ferocia
luterana e ogni tanto si sfiorava il sublime. La leziosaggine di tanta teologia
cattolica attuale è soltanto un magistero tardo romantico.
GALATEI
- Per imporre un tabù è richiesta una energia religiosa che manca al
liberalismo. Resta un divieto da manuale di buona creanza affinché non sia
espressa in pubblico, come faccenda di gusto, la predilezione per una razza o per
una nazione.
LAVORI
SPORCHI - «Commercio, Musica Operistica, Cupido, Pubblicità, Manifatture,
Libertà di Parola, Suffragio Universale, Gastronomia, Igiene Personale,
Concerti Balneari, Parto Indolore, Astronomia per il Popolo», un florilegio dei
valori democratici messa a punto dall’ebreo commerciante, pubblicitario,
Leopold Bloom nell’Ulysses di Joyce.
Bloom, sobriamente pravo, mostra i suoi talloni d’Achille nel masochismo e nel
feticismo. La psicologia si è scarsamente occupata delle perversioni del
democratico.
SUFFRAGIO
ELETTORALE - Si lesse per la prima volta in chiesa la parola «suffragio», sulla
cassetta delle elemosine: «in suffragio delle anime del Purgatorio». È perciò
sempre risuonato come «sollievo per la società», una carità cristiana per
soccorrere la società febbricitante, un aiuto per bloccare la paura che fonda
la politica. Ma, per via delle anime dell’Aldilà, evoca anche una folla di
fantasmi, la insondabile Opinione Pubblica che irrita e scandalizza gli amanti
della concretezza.
NEL
REGNO OSCURO - Chi non fu mai stregato dai bagliori della destra estrema? E chi
resistette sempre alla commozione delle parole d’ordine di sinistra, almeno al
loro suono, senza sondarne il senso? Nelle faccende politiche nulla è più
inutile degli scongiuri. Sappiamo pure quanto le tentazioni sataniche – le
passioni scriteriate, la violenza sottile, la facilità ludica, la carnalità grossolana
– siano talvolta irresistibili. Se Heidegger e Jung hanno ceduto per qualche
tempo alle seduzioni della ideologia tedesca del Terzo Reich, i più comuni
mortali saranno maggiormente esposti alla politica demagogica. Ogni volta che
qualcuno impreca contro lo stupidità delle folle che si lasciano ingannare dai
tiranni, nasconde a se stesso quello strano erotismo che vibra nei movimenti di
massa, nei loro gesti collettivi e pesanti. Tutti sanno per scontata confidenza
con le passioni amorose come se ne possa finire stremati e istupiditi ripetute
volte, guarirne e ricadere innamorati, dal momento che «il cuore ha le sue
ragione che la ragione non conosce», secondo quanto recita Pascal. Il naso di
Cleopatra non appartiene alla Bellezza né alle cose ragionevoli, eppure è noto
che travolse la storia come tanti nasini alla parigina non riuscirono mai.
Anche il più severo democratico non può negarsi una discesa nel «regno oscuro»,
una immersione nello ctonio, a osservare la parte nascosta della società, a
indovinare i capricci plebei, a conoscere le pulsioni malsane degli elettori.
Chi si mette ai voti non può distinguere tra sani e malati, tra colti e
ignoranti, tra geni e ottusi. Al contrario del sistema aristocratico che delega
il comando ai valorosi, ai puri, ai sani, ai virtuosi che sanno resistere a
ogni tentazione ed esercitano con spirito superiore la sovranità, senza badare
ai propri interessi, senza vili egoismi. Ma dal momento che la democrazia
liberale esalta l’egoismo del mercato, l’armonia che paradossalmente ne
scaturisce, perché ci si deve immaginare i politici di quel mercato, gli
arconti che lo sovraintendono, estranei al vigoroso egoismo che lo ispira,
insensibili alla corruzione del denaro?
LA PAROLA-CHIAVE -
«Complesso» è l’aggettivo dietro il quale si nascondono tutti gli apologeti
dell’attuale sistema occidentale che non vogliono affrontare i drammi
contemporanei. Fate domande su argomenti delicati, sfiorate i tabù sui quali si
regge la democrazia, le contraddizioni angosciose, e il paladino di turno vi
risponderà che «la questione è più complessa». Non si può semplificare, non si
può attingere alla semplicità evangelica del «sì sì, no no». Ma va allora detto
che la complessità del regno di questo mondo di oggi non si riduce neppure agli
schemi marxisti, a quelli keynesiani, insomma alle teorie di un tempo che
ancora potevano essere tradotte nella divulgazione per il popolo. Il quale, più
estraneo che mai a quanto scorre davanti ai suoi occhi, ai paesaggi storici
stravolti, al tempo e spazio modificati, ai corpi nuovi perfino e alla biologia
che li racconta, nonostante l’istruzione
di massa e le lauree e l’acculturazione perenne, costruisce proprio con i vecchi strumenti appresi (e con
una insolita arroganza per via degli studi fatti) dei modelli arcaici, una
rozza fede nel bene e nel male, l’idea fissa di contare senza remore il denaro
altrui, il culto dell’invidia sociale, senza più rispetto per il mistero che
ancora ieri circondava il potere e che evitava ai sudditi la spiacevole (e
falsa) sensazione d’essere costantemente derubati.
COMPROMESSO
STORICO CON I DÈMONI - Lontano dalle polemiche contingenti e avendo visto i
risultati nel lungo periodo, l’impresa di Konrad Adenauer nella Germania del
dopoguerra appare degna di rispetto. Non solo e non tanto per la ricostruzione
di un paese vinto e raso al suolo – anche il regime precedente aveva realizzato
opere titaniche in questo campo –, quanto per essere riuscita ad abbassare la
febbre dopo la catastrofe. Arduo in un paese che subiva la sua seconda
sconfitta storica in pochi anni, perdendo ogni residua speranza ma coltivando
per forza di cose odi, rancori e lutti. Adunare una folla di furiosi e
modularla in una politica paziente nonostante una parte della patria fosse
ancora più marcatamente schiacciata dai vincitori e occupanti in armi, nonostante
quel pezzo di Germania fosse separato e circondato da frontiere che apparivano
muri di prigione con tanto di filo spinato e torrette di guardia; evitare
sommovimenti suicidi e mantenere una dignità nazionale con i vincitori che
volevano anche impartire lezioni di etica, fu un’opera virtuosa. Nel 1945 non
c’era stata nessuna conversione e neppure quelle furibonde fiammate insurrezionali
per i morti i bombardamenti e la fame che si ebbero nelle città del Nord d’Italia.
Sgomenti davanti alla autoeliminazione dei capi, restavano fedeli alla
Germania; spararono fino all’ultimo colpo nei villaggi dove entravano i carri
armati nemici. Non ebbero la disinvoltura degli italiani che, addossate le
colpe ai duci idolatrati fino a poco prima, si tolsero le divise brune e con
abiti o stracci primaverili corsero incontro festanti alle truppe
anglo-americane che chiamavano confidenzialmente gli Alleati. E a Ovest della
Germania non ci fu neppure il rito ipocrita che nella Deutsche Demokratische
Republik segnava in nome di Fichte, prontamente aggregato al socialismo moderno,
la purificazione del passato. Fu però imposta alla Repubblica di Adenauer l’altrettanto
ipocrita «denazistificazione», i corsi serali di democrazia, inutili come le
prediche forzate agli ebrei nel ghetto di Roma sotto i papi, e come quelle
soltanto umilianti. Senza palingenesi vere, dunque, Adenauer si sobbarcò il
lavoro sporco che i socialdemocratici si potettero risparmiare, traghettò
milioni di seguaci dei dèmoni nel nuovo mondo. Molte voci stigmatizzarono il
fatto che questo nuovo mondo avesse i caratteri della potenza d’oltreoceano
vincitrice della guerra. La diversità europea, d’altronde, era stata rasa al
suolo in quei pochi ma terribili anni di combattimento. Il vecchio cancelliere
riuscì a impedire la rinascita di un partito di rancorosi. Evitò pure di
favorire élites già scremate, già
«dalla parte giusta», attingendo invece nel fangoso impasto di masse
inarticolate e costrette a essere silenziose
dalle disposizioni della «resa incondizionata» (proibito parlare pubblicamente
di quello che era successo, censurati anche i libri dei poeti, quelli di Benn
per esempio). In questa zona della sanguinaria vecchia Europa il ruolo dei
partiti era comunque diverso dalle macchine elettorali americane, negli Stati
Uniti non si contrapponevano il partito rivoluzionario e quello conservatore,
il partito cristiano e quello laico…
ATTESE
- La «sinistra» italiana si considera tra i vincitori anche senza aver vinto
mai una competizione elettorale. È un destino, un vento del progresso che
spinge da quella parte. Tentano la scalata da circa un secolo, con immense
aspettative, che renderebbero deludente qualsiasi governo.
LINGUA
RIEDUCATA - Il 1945 appare uno spartiacque anche per certe parole. È
provvisoriamente sospesa l’aggressività verbale, compreso il tono aristocratico
con il suo seguito di altezzosità. Chi cambiava la divisa o chi tornava da
Mosca si adattava al nuovo linguaggio, sostenendo talvolta di averlo già
parlato in passato, sia pure in codice. Ma c’era chi riteneva di subire adesso
una censura metafisica e non parlò quasi più. Ezra Pound fu l’icona di questi
uomini silenti. Scrisse tuttavia ancora cose notevoli che resistettero alla
rieducazione imperante. Molti altri si mostravano miti, avviavano un ciclo
cortese. Non mancò chi spendeva parole di circostanza per le vittime. Gli
scrittori comunque non videro passare indenne la lingua da questa frontiera
temporale. Cominciarono molti eufemismi su su fino alle attuali misericordiose
circonlocuzioni per ogni malformazione fisica, spirituale e sociale. Finisce
qui l’interminabile età della Tracotanza, ultima pratica dell’Ancien Régime
sopravvissuto per due secoli al suo crollo. Non c’è più dispregio per persone,
categorie, classi sociali, nazioni, razze. Un filosofo hegeliano moderato e
avversario della reazione argomentava la sua estetica, ancora nel pieno
Ottocento, esprimendosi così: «il cretino è ancora più brutto del negro perché
alla deformità della figura aggiunge l’ottusità dell’intelligenza» (Karl
Rosenkranz). Non diverso era il tono dell’agitprop comunista nei confronti del
borghese, insulti che ustionavano, con condimento di minacce fisiche. Si era
visto Lombroso marchiare le «facce da delinquente», la signora umiliare i
servitori, Thomas Mann attaccare il cancelliere croceuncinato ricorrendo allo
scherno del nobiluomo stizzito dal plebeo: «affetto dall’isteria del dégénéré
inférieur», era la diagnosi. Se si considera che, negli anni precedenti la guerra,
alla antica tradizione boriosa si era aggiunta una scuola attiva di violenza
verbale, una campagna pubblicitaria per accumulare disprezzo su alcuni, va
rilevato che il passaggio d’epoca fu impressionante, nessuno da allora in poi osò
più dire in pubblico «degenerato inferiore». La catastrofe era stata così
vertiginosa che ai più parve opportuno smetterla anche con le affermazioni
guascone. Una espiazione all’insegna della discrezione. Che scivolò nell’èra
mediocre.
FORTUNE
- La ricchezza è meno effimera di un tempo, diciamo dell’Ottocento. Arriva
magari in una generazione, quindi in genere con maggiore rapidità, e
difficilmente sparisce con altrettanta prontezza. Tende casomai a consolidarsi.
Le disastrose rovine, i fallimenti che puntellavano le trame dei romanzi, sono
stati smussati da un liberalismo più moderato. Il cinismo del libero mercato
pare atterrire anche i suoi assertori. Il trionfo del liberalismo appartiene
ormai al XIX secolo. Allora, imprenditori
e finanzieri stavano al gioco, esposti alle minacciose conseguenze della
potentissima roulette, mettevano in conto il tonfo del fallimento, proprio come
era nel conto la morte, sempre lunatica. Nei romanzi balzachiani ci sono le
devastazioni del mercato, i suoi capricci, che si accompagnano a quelli della
morte e dell’amore. In seguito, forme di socialismo compromesso hanno corrotto
questi eroi schierati al simbolico tavolo verde. Passati gli eroi che osavano
sfidare la spietatezze delle libere avventure del denaro, che combattevano la
guerra infinita della concorrenza, adesso ci si accontenta e si cercano
pubbliche protezioni contro l’imprevedibilità della Fortuna.
LA DEA
MODERATA - Nelle Eumenidi di Eschilo, parte finale
dell’Orestea, Apollo sopraggiunto al tribunale popolare appena istituito da
Atena pronuncia questa battuta illuminante: «I ceppi c’è chi li slaccia, c’è
sempre mezzo di porre rimedio, di sciogliere». Contro la fatalità monarchica,
contro i responsi arcaici scritti nella pietra, la fluidità del potere del demos, mercuriale. Successivamente,
un’Atena con l’acutezza brillante di una dama settecentesca, elogia la
moderazione: «Né senza una guida, né sotto un tiranno: questo, o cittadini, lo
Stato che vi consiglio. Coltivatelo gelosi. Non abolite del tutto la paura
dalla vostra cerchia. Chi al mondo si mantiene probo se non l’invade la
paura?». Nel momento in cui la dea stabilisce una nuova giurisprudenza e nuove
istituzioni, mentre stringe un accordo con Peitho, divinità della persuasione,
del consenso, per fare accettare i cambiamenti alla città, proprio in quel
mentre viene evocata la paura. Millenni prima di Hobbes è intorno a questo
sentimento che si fondano gli accordi politici. Atena lo rivela
spregiudicatamente, anzi consiglia il buon uso della paura come farà Jung con i
suoi accoliti. Paura perché si sta distruggendo un pezzo di tradizione.
Cambiano le leggi, le abitudini, la morale, e ci si sente tutti un po’
sacrileghi. Atena prende parte al giudizio e si esprime a favore di Oreste e,
grazie alla parità di voti favorevoli e contrari, l’imputato può essere
assolto. Prevale il nuovo diritto, la decisione – la conta dei voti – in luogo
della verità. Al ‘giudizio di Dio’ che consacra il verdetto ecco invece un
conteggio di voti, un trucco metodico per impedire un ulteriore spargimento di
violenza. La sentenza del tribunale però non annulla quella delle Erinni, il
coro fosco dei rimorsi, dei motivi morali. La verità politica, la decisione
pubblica, non va confusa con gli
scrupoli, con i fantasmi delle angosce, i dolori dei pentimenti, la «segreta
plebaglia dei dèmoni», come la chiama Omero.
LE
IMPERFEZIONI DEMOCRATICHE - Gli apologeti del sistema democratico avrebbero
potuto, a metà Novecento, argomentare così: il nostro lavoro consiste nel
condurre i barbari in città. Allora, nelle città imbarbarite, si perderanno le
belle forme e nel caos – non più rappresentabile dal partito unico come avviene
per un elettorato armonico – si annunceranno dissonanze, morbi, deformità,
leghe minacciose. È il kantiano «male necessario». Il semplicismo dei
rivoluzionari, proprio della civiltà antica, pretendeva rovesciare, mettere a
testa in giù, la società minata da una qualche corruzione, per bonificarla e
riedificarla al contrario. Un uso impropriamente politico dell’avvertimento
evangelico «gli ultimi saranno i primi». Il laborioso processo avviato dai
moderati si accontenta di squilibrare e di riequilibrare su una enorme bilancia
impersonale, al posto di un rapido intervento chirurgico. La democrazia si
vuole sempre imperfetta, all’opposto della società immaginata dai filosofi.
L’apologia di uno strumento che non funziona pienamente, in opposizione a un
perfetto strumento cruento, è una buona allegoria di questo sistema. Lo
illustra con gran gusto del paradosso lo scrittore cattolico Gilbert Keith
Chesterton nella sua raccolta di piccoli saggi sul tema del «bello del brutto».
Dove si legge una difesa del «coltello che taglia male»: «un coltello non è mai
cattivo se non in rare occasioni, per esempio quando viene piantato con
destrezza e precisione nel bel mezzo della schiena di qualcuno. Il coltello più
scadente e meno affilato che abbia mai fatto a pezzi una matita, invece di
appuntirla, è una cosa buona in quanto coltello». Da qui la scarsa avvenenza
compensata dall’efficacia nei momenti di inclusione sociale al trapasso di
epoca. Resta il fatto che in caso di legittima difesa c’è bisogno di un
coltello che tagli e offenda per non rischiare il peccato di inefficienza nei
momenti della città in pericolo.
Si
impara a scuola che la rappresentazione comica è connaturata alla classe media.
La democrazia, come il borghese, l’homo
oeconomicus, rischia spesso il ridicolo.
VIRTÙ
DELLA FRODE - Impensabile nel Medioevo cavalleresco il seguente insegnamento
che, alle origini del mondo moderno, ci impartisce lo scandaloso Hobbes: «La
forza e la frode sono, nello stato di guerra, due virtù cardinali». In
contrapposizione all’aristocratico «onore», il filosofo inglese apre la schiera
dei nuovi filosofi politici, senza tradizione, senza nobiltà d’origine. Onore è
virtù da soldato, sostiene Hobbes, e solo una società a misura di soldato, una
società militarizzata, può essere fondata sull’onore. Quella degli uomini
qualunque, che si costituisce proprio per evitare la guerra, dunque incapace di
esercitare l’arte delle armi, si impadronisce invece dell’arte della politica,
che sa come l’uomo civile, in mancanza della protezione militare, fugge nel
momento del pericolo. Il mondo borghese perciò si costituirebbe, secondo
Hobbes, per evitare i momenti di pericolo, per rendere il senso dell’onore
completamente inutile. Inquietante questo «onore» agitato adesso dalle plebi
italiche che mai ne ebbero uno e inquietante la questione morale glorificata in
un tempo senza più morale.
PREISTORIA
UMANA – Schopenhauer, non il materialista di Treviri, in un dialogo sulla
religione: «Ognuno ammetterà che una razza la quale, secondo le indicazioni
concordi di tutti i dati fisici e storici, non conta finora più di cento volte
la vita di un uomo di sessant’anni, si trova ancora nella sua infanzia». Se il
laicismo – come si è rivelato nell’ultimo secolo – è il surrogato della
religione, allora si tratta, come tutti i succedanei, di roba economica,
prodotti poveri per epoche povere.
ANALOGIE - I rari dissidenti nella Germania in guerra,
quei conservatori irritati per l’aspetto plebeo che aveva preso l’ex armata
prussiana, ne descrivevano i caratteri infernali attribuendone la causa al demos imperante. Chissà se qualcuno di
questi signori si era imbattuto nel passo di uno scritto di Max Weber, che
risaliva all’indomani del primo conflitto mondiale ma trattava dell’Atene
classica: «Al tempo della democrazia […] la guerra, che poteva sovvertire tutte
le posizioni economiche dei proprietari, era un fenomeno cronico e si
intensificò fino ad assumere un carattere di estrema brutalità in contrasto con
la condotta delle guerre combattute dai cavalieri […]. Ogni battaglia vinta
aveva quasi sempre per conseguenza il massacro di tutti i prigionieri: ogni
conquista di città significava la morte e la schiavitù di tutti i suoi
abitanti». Demos e guerra totale,
impressionante binomio su cui meditò l’allievo cattolico di Weber, il Carl
Schmitt per il quale i più retrogradi e spietati mezzi saranno sempre bene
accetti pur di evitare l’abominio della guerra totale. Inorridirebbe a sentir
parlare, come si fa oggi, di «guerra etica» o «guerra umanitaria», la più
inumana impostazione di un conflitto, necessaria antesignana della guerra
totale. Comunque, anche senza Weber, avevano tutti assistito alla Guerra mondiale
che aveva partorito dal suo seno la Rivoluzione bolscevica, l’interminabile spietatezza
messa in campo per «cambiare il mondo».
TIRANNIE
- Ancora con la guida di Weber, a
gettare uno sguardo nella violenta strategia delle masse che vogliono emanciparsi.
Nell’antichità i diseredati attendevano l’affermazione del tiranno come i loro
eredi sperano nella macchina burocratica rivoluzionaria. In ogni caso una
medicina molto amara, un risvolto tragico che si è via via attenuato, corretto
dall’ottimismo borghese, incipriato di progressismo. Un tempo pretendevano una
sospensione della legge, una vendetta storica che comportava una ecatombe,
l’annientamento del modo di vivere dell’avversario. La disperazione sociale si
scontrava con l’agio borghese in un duello mortale. A Roma chi negava il
diritto di voto per i liberti argomentava il suo rifiuto agitando il pericolo
che dal suffragio dei parvenus
uscisse una tirannide. Nel nostro secolo le due massime tirannie occidentali
hanno conquistato il favore popolare e la maggioranza elettorale. A un certo
punto la timocrazia pareva il destino d’Europa. La «bourgeoisie plebea» è una
categoria weberiana per i liberti a Roma. Calza meravigliosamente alla borghesia
di fine millennio, del secondo millennio dell’èra cristiana.
CONTROTEMPI
- Il contrasto tra la frenesia del tempo effimero della rivolta e quello lento,
troppo lento per i giovani, della politica realista. Ovvero, i giorni concitati
per la follia della sommossa e quelli disperati della infinita ripetizione.
DUBBI -
Nonostante lo sciupio attuale di lodi per il dubbio, i dogmi hanno resistito,
soprattutto quelli infondati. La glorificazione dell’incertezza è uno dei
manierismi contemporanei.
IN UNA
VITA - Hans Blumenberg, mentre dispiega intorno alla bachiana Passione secondo Matteo un virtuosistico
apparato di digressioni teologiche, erudizione biblistica, filosofia del
Novecento, che fa da basso continuo alla singolare composizione dove il cielo
di una liturgia luterana, di una liturgia privata, e la terra dell’arte umana
si incrociano – si lascia scappare questa frase: «Fintanto che gli uomini
avranno soltanto una vita da vivere, essi saranno inclini a credere che proprio
nella loro vita debba realizzarsi ciò che ha significato e che cambia il mondo.
Il potenziale di attesa è perciò sempre grande abbastanza […] per apocalissi di
ogni sorta». Soprattutto da giovani, va aggiunto. Poi ci si concede una
dilazione: se non è dato loro di scorgere l’alba del nuovo, certamente toccherà
ai figli un simile privilegio. È la speranza più pura. Spesso confortata dai
segni di immense trasformazioni che scandiscono il corso delle generazioni. Ma i
fedeli di moltissime sette (quelle politiche comprese) hanno percepito la
realizzazione di tali mutamenti come qualcosa di drammatico, di apocalittico
appunto: «il mondo ha perduto la giovinezza, i secoli stanno diventando
vecchi», si legge in una Apocalisse
apocrifa. Un futuro slegato da ogni continuità stringe il cuore. Un futuro
segnato da un duello cosmico e definitivo potrà pure inorgoglire ma getterà
chiunque nel panico. I figli del XX secolo hanno vissuto con questo doppio
sentimento: orgoglio luciferino (o prometeico) e terrore angoscioso. Quando in
età matura perdono quella illusione di una esperienza esclusiva riscoprono gioie domestiche. In luogo delle macerie
rivoluzionarie, si ristabilisce un orizzonte lontano che spegne l’angoscia, un
paesaggio rigoglioso di dettagli, da decifrare pacatamente, una prospettiva
graduata all’infinito, dove perdersi.
BACI -
Aveva ragione l’architetto dell’Effimero nella Città Eterna quando la sera
movimentata in cui cambiarono i connotati al suo partito diceva al telefono: «era
meglio che avesse cambiato nome quando fu costruito il Muro di Berlino, non
adesso che lo abbattono…». Si difendevano i truccatori del vecchio comunismo:
«bisognava salvare il buon nome, l’onore di milioni di persone oneste che lo
avevano votato». Già, in Italia i fiancheggiatori del bolscevismo erano per
definizione «bonari», rischiavano però di essere travolti dai russi «cattivi»
che stavolta si arrendevano alla realtà. Qualche perplessità fu avanzata sulla
operazione in genere e, in particolare, sulla liquidazione gestita dai capi. Non
si era più al 1956. Allora, di fronte agli atroci rapporti provenienti da Mosca
che smentivano mezzo secolo della sua propaganda, i rossi condottieri, sempre
colti e sprezzanti, dichiararono con innocenza da scolaretti «noi non
sapevamo». Adesso la sterminata bibliografia sull’argomento che non ha aperto
loro gli occhi può precipitare su quelle teste e così punirli per essersi
mostrati a braccetto con dei mostri, per avere baciato sulla bocca Breznev. Non
fosse che per quello, andavano epurati.
BANDIERE
- Il crollo dell’Ottantanove ha lasciato sul campo due specie di vinti. Quelli
che hanno fatto fronte al cambiamento di rotta e agli eventuali castighi per le
scelleratezze compiute, subito indossando una diversa livrea o abbandonandosi
ai rimorsi, fuori dalla scena pubblica; e quelli che, complici dei misfatti
‘orientali’, nel resto d’Europa, con dei distinguo e dei dissensi ma dalla
stessa parte, finsero di non essere chiamati in causa. Non afferrarono che un
unico destino li trascinava all’Inferno. Idea di Ghino (nobile e bandito), un
vessillo rosso fu invece esposto alle finestre di un palazzo romano nelle
stesse ore in cui sulle torri del Cremlino le vecchie bandiere venivano
ammainate. Pareva rappresentare un eccentrico epilogo – fuori dal suo centro
vitale, nella capitale cattolica, dunque nella estrema periferia del mondo
industriale – alla maggiore epica dei tempi moderni. Non conteneva nessuna
solidarietà bolscevica quella bandierina che in pochi notarono, annunciava soltanto
che la campana a morto per il socialismo dell’Est suonava anche per quello
dell’Ovest. Noi non fummo i cani da guardia dei patti di Jalta – pareva
ricordare come una lapide su una tomba – ma ci aspetta la medesima sorte. Una
sconfitta di tal fatta comportava la catastrofe per tutti coloro che avevano
agitato qualcosa di rosso.
Chi si
richiama alla Rivoluzione ormai (anno
1995) lo fa più che altro per un atteggiamento dello spirito, senza
sentirsi per questo un funzionario politico, un «rivoluzionario di professione»
come si diceva un tempo. Generico disprezzo per il punto di vista conservatore
e generica predilezione per il tempo nuovo, costante Ereignis, l’evento heideggeriano, mescolato all’ottimismo
insufflato dalla réclame consumista.
LO
STATO ESTINTO - Contrappasso alla statolatria tedesca. L’unico paese
occidentale che ha visto per ben due
volte a distanza di pochi decenni scomparire lo Stato in virtù di un decreto è
stata la Germania. Non
soltanto infatti la DDR
– ossia la vecchia Prussia e i suoi dintorni restaurata dai carri armati di
Mosca e abbattuta nel 1989 –, già nel 1947 una ordinanza dei vincitori
stabiliva: «Lo Stato prussiano è sciolto con tutto il suo governo e le sue
strutture amministrative».
PURGATORI
- I cristiani in tutte le sfumature protestanti e perfino una parte dei
cattolici considerarono le aberrazioni del socialismo incarnato in Russia come
dei peccati veniali rispetto a quelli che si commettevano nella dovizia
occidentale. Dal momento che l’opulenza era annoverata tra i frutti satanici,
quelle società miserrime e puritane, incatenate alla purezza del quanto basta,
risultavano un esperimento «interessante». Non mancarono le critiche alle
«offese alla dignità umana», linguaggio curiale per dire di campi di lavoro
forzato e di corpi seviziati in stanze nascoste, ma la sostanza era
accettabile, ammirevole l’ascesi sociale senza Dio. Di questo dettaglio non si
diedero pena, non sembrava pensassero che a quei derelitti avevano tolto anche
il premio celeste.
PATRIE
- Una volta tanto la parola d’ordine da gridare nelle piazze conteneva un fondo
di verosimiglianza soprattutto se coniugato al passato: «Il proletariato non ha
nazione…». Non aveva infatti case resistenti al tempo, dimore amate, tombe di
famiglia, un passato dolce da custodire e talvolta da rimpiangere, ricordi di
nonni imperiosi, di campagne dorate e indolenti, di infanzie vanitose, di
antichi sogni. I suoi eredi, tra qualche decennio, per difendere l’onore di
villette senza storia scopriranno forse una forma di nazionalismo spurio nelle
battaglie con gli africani sbarcati da poco.
(2. - continua)
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