mercoledì 23 luglio 2008

Maria, nostra seconda Venere

ELOGIO BRITANNICO DELL'URBE, DOVE CERTE STATUE SONO PIÙ VIVE DI CERTI UOMINI OTTOCENTESCHI. UN APOLOGETA DEL PAPATO SI ESERCITA SULL’«ANTICO PALCOSCENICO» A ROVESCIARE I LUOGHI COMUNI CONTRO ROMA

La cultura dispotica degli ultimi secoli si è accanita contro il papato, contro la religione romana. Sulle rive del Tevere, ci si difende a stento, mostrando rossori e imbarazzi, cercando vane giustificazioni mentre viene accettato il punto di vista avversario; si chiede scusa e si è aggrediti dalle richieste insolenti di sempre ulteriori scuse, per esempio di esistere ancora alla ragguardevole età di duemila anni. Qualcuno provò a rovesciare il gioco: mettiamo che a un certo punto della storia umana il papato fosse scomparso, che ne sarebbe stato di molte glorie dell’Occidente? A cominciare dall’arte. Altro che parlare di censure, di qualche mutandone – ma poi i Musei vaticani, dice l’attuale direttore, grazie alla cultura cattolica sono quelli che possono vantare il maggior numero di nudi, donne e uomini –, di eccessi di zelo ciclici e fuori luogo (ché il puritanesimo era la religione degli avversari protestanti), qui si tratta della stessa esistenza dell’arte, della sua forma, della sua sopravvivenza. «Mi basta affermare che se [il papa] ebbe torto, la civiltà europea nella quale viviamo è la trascurabile conseguenza del suo errore».

La citazione risale agli anni trenta del Novecento, oggi – punitivi come si è nei confronti della stessa civiltà europea – si insinuerebbe magari che si tratta di una denuncia della malvagità occidentale in chiave ironica. Ma Gilbert Keith Chesterton l’ironia la mise al servizio dell’apologetica cattolica. E durante un soggiorno a Roma nel 1928, il viaggiatore inglese provò, sull’«antichissimo palcoscenico», dove «certe statue cinquecentesche sono più vive di certi uomini ottocenteschi», a rovesciare le vecchie accuse dei suoi connazionali, difendendo la capitale mediterranea con argomenti anche pagani. Ne venne fuori un libro polemico, sovrabbondante di paradossi, The Resurrection of Rome, dimenticato in tempi di irenismo, resuscitato senza alcun clamore nel 1995 da un piccolo editore, il milanese Istituto di Propaganda libraria, ricondotto subito nel silenzio dei depositi delle biblioteche, nonostante l’esuberanza ciarliera, rintracciabile comunque nel web (se ne raccomanda l’acquisto e la lettura, stendendo un velo misericordioso sulla veste grafica).

Però una gazzetta romana delle arti non può lasciare sepolte le argomentazioni dello scrittore britannico a favore della iconofilia del vescovo di Roma, ne estrae alcune, un appunto appena, rinviando al libro per il piacere dei suoi ragionamenti. Chesterton non era un esperto accademico di storia dell’arte (ma Borges lodava le sue intuizioni in questo campo e ricordava i suoi esordi come pittore), né faceva mostra di intendersene, ma come Piranesi, preferiva la civiltà romana a quella greca. Magari nel suo caso intervenivano affinità di fede, scelte ideologiche si direbbe adesso, fatto sta che seppe cogliere nell’arte greca una severità sconosciuta ai romani (la Venere di Milo, diceva, è già «senza respiro»), severità che si sarebbe tramutata in ascesi, via via che il platonismo si irrigidiva nei vari misticismi dei plotiniani, fino a giungere al rifiuto di quella scultura che fu il suo massimo vanto, fino ad annullare la plasticità, a cancellare l’immagine, alla iconoclastia insomma. Il proibizionismo dell’ottavo e nono secolo d.C., pervaso di platonismo, fu anzitutto disumano. «L’astratto spirito greco aveva in sé qualcosa di duro; sotto un certo aspetto la stessa reale durezza della repubblica di Licurgo esisteva anche nell’ideale repubblica di Platone». Proprio come il proibizionismo americano del primo Novecento – sosteneva Chesterton – indifferente verso «le debolezze, i sentimenti e le abitudini umane». Il proibizionismo non fu creato dai sacerdoti, «ma di solito disapprovato da essi; il proibizionismo – divagava Chesterton alla sua maniera – venne introdotto da una democrazia politica moderna o meglio da una ancor più moderna plutocrazia. In maniera molto simile a quella con cui il potere laico di un intero continente proibì formalmente ogni bevanda alcolica, il potere secolare del grande impero greco proibì formalmente tutti i fantocci e le immagini scolpite. E Roma rifiutò di approvare tanto l’antico veto che il nuovo». Come avrebbe potuto respingere l’immagine umana, in cui si incarna il Verbo, e il vino che è parte integrante del banchetto eucaristico? Dall’altra parte, contrapposta a quella greca, la scultura della antica Roma: nella invenzione del genere di ritratto a mezzo busto c’era «un’aria umana, spiritosa e amichevole». Quando fu la volta dei cristiani nel governo della vecchia capitale imperiale, essi non temettero di incamminarsi sulla strada plastica dei pagani. I papi ordinavano la statua del predecessore, si formò «una processione di statue, quasi una genealogia marmorea». Se non fosse stato per loro, «questa città che mi circonda con vivacissime immagini, ottime, brutte o indiffererenti, sarebbe ora nuda come le piramidi».

Chesterton riteneva giustamente che fosse poco nota la storia di queste avventure delle immagini, della scelta fatidica del cristianesimo romano e quindi del mondo moderno – in cui anche chi critica il culto delle immagini si bea allo stesso tempo dell’immaginazione – e provava perciò ad accennarne i punti-chiave, naturalmente con un profluvio immaginifico, con un tono che ci ricorda il nostro Savinio quando parlava familiarmente degli dèi e trasformava le res gestae in soavi leggende ricche di figure. Risolvendo come lui i saggi in letteratura, narrava Chesterton: «Al tempo di cui parlo, la situazione era come segue: il ‘padrone del mondo’, il re dei re che quasi neppure la rivoluzione cristiana aveva fatto decadere dalla sua posizione semidivina, imperialmente prestava protezione e simpatia a questo nuovo e spoglio ebraismo d’oriente e appoggiava i nuovi puritani contro il papato. Avendo alla spalle Cesare e la civiltà, questi uomini scesero in campo per infrangere le statue d’Italia quasi fossero gli idoli di qualche barbara terra ai confini dell’Asia, condannati da un califfo dell’Islam». Si sentivano molto superiori culturalmente gli iconoclasti, sdegnosi verso l’umanità che venera le figure, con la medesima prosopopea che astrattisti e ogni sorta di avanguardisti ebbero nei confronti della tradizionale pittura figurativa, per via di una sottesa gerarchia dove lo spirituale svettava libero mentre il ricorso alla figura e la mimesis che comportava era un segno di soggezione alla materia, al corpo. Sennonché la Chiesa cattolica, corroborata dalla cultura romana, non respingeva il corpo, non lo reprimeva come voleva il pensiero stoico: liberazione del corpo prometteva il messaggio evangelico, non liberazione dal corpo secondo l’ascesi greca. Quel sì del papa alle immagini, dunque, quello schierarsi nella battaglia contro lo spiritualismo orientale, contribuì come poche cose a formare l’immagine dell’Occidente.

Anche le decisioni teologiche dei concili disegnarono il nostro immaginario con ben maggiore incisività dei trattati politici e militari. Chesterton provò a metterlo in luce: «la fruttivendola pensa a Cristo (se pur vagamente) come a qualcosa di umano e insieme di divino; ma sarebbe del tutto infruttuoso chiedere alla fruttivendola quali siano per lei i risultati pratici del trattato di Utrecht». Così come «quando i dogmatici tracciarono una fine distinzione tra la specie di onore dovuto al matrimonio e quello dovuto alla verginità impressero sulla cultura di un intero continente un definitivo disegno in rosso e bianco che a taluni può non piacere ma che tutti, pur odiandolo, sono costretti a riconoscere». Lo stesso si può dire per la gran parte dei nostri princìpi. Perfino le sottilissime suddivisioni tra venerazione e idolatrica adorazione dell’immagine ci entrarono in testa senza accorgercene, sottraendoci man mano al pensiero magico ma educando il contadino ancora brutale – come scriveva Novalis con commozione – a togliersi il cappello davanti al volto riprodotto di Maria, nelle edicolette votive sparse per la campagna sul modello pagano, a rendere omaggio devoto a una donna. Ed è soprattutto sulle conseguenze dell’iconofilia – a cominciare dal Rinascimento – che Chesterton studiava di suscitare attenzione: «Sono in una città affollata di chiese e ogni chiesa è affollata di statue. Le vie sono sbarrate da fontane circondate da tritoni e sormontate da santi. Ma è specialmente nelle grandi chiese disegnate come templi classici che troviamo quell’esuberanza del realismo classico ricco di tutto fuorché di classica serenità. Per certuni, e specie per coloro che amano il nordico misticismo del gotico, questi marmi tumultuosi e multiformi hanno qualcosa di opprimente e perfino di ripulsivo e quasi insopportabile […]. Ho conosciuto qualcuno che arrivò a odiare talmente tutto questo da finire con il considerarlo come una bianca lebbra marmorea che avesse colpito la città affollandola di figure di giganti lebbrosi che si divincolano e gridano come indemoniati, ma si trattava di gente dalla mente ristretta e un po’ pazza; e val la pena di notare che chi odia tanto la rinascita classica potrà essere un medioevalista ma non sarà mai cattolico». Perché cattolico, cioè universalista, significava aprirsi classicamente anche al paganesimo, faceva intendere GKC, disputando in tal modo con i filogotici, come erano da sempre i protestanti, che nel Novecento stavano facendo breccia nel cattolicesimo e suscitavano iconoclastie private e interiori, avversioni soffuse nei confronti della cultura romana, dello splendore materiale del Rinascimento, della finzione barocca. Fu un vero mistero della Provvidenza che a celebrare la bellezza di Roma venisse alla ribalta, grasso e solenne come Alfred Hitchcock (altro geniale cattolico), un britannico cresciuto tra gli estetismi moralisti ed esangui dei Ruskin, e che proprio per una esatta conoscenza del loro modo eretico di ragionare sapesse colpire tutti i bersagli d’oltremanica e in generale dell’Europa nordica.

Insegna e scandalo del cattolicesimo, la statua diventava l’«emblema del tutto umano dell’umanità», si ergeva «al centro del cristianesimo, prototipo della realtà che guarda in tutte le direzioni, che si può guardare da ogni lato». Un tale elogio della tridemensionalità cadeva a proposito mentre perfino da parte cattolica, con gusto esotico, scarsa conoscenza e intenzione antistorica, ci si innamorava delle icone orientali, icone la cui faccia «appare veramente quella di uno spettro che si può chiamare una apparizione: guardata di traverso è distorta e scompare». Qui come altrove, lo scrittore provava fastidio per «la malsana purità e quella raffinatezza ultraterrena tanto più blasfeme del virile materialismo di san Tommaso che Cristo onorò in una prova». Il materialismo romano chiedeva di «prestar fede ai nostri occhi». E l’arte barocca ricorreva ai più eccelsi artifici per privilegiare il senso della vista.

Per GKC la Chiesa ci fa divertire «con libri illustrati, per la ragione che non possiamo sopportare a lungo la fatica di comprendere ogni cosa per mezzo di diagrammi». In questo senso il barocco era una battaglia scatenata contro i luoghi elevati della città, della spiritualità troppo arida, per la fede sensuale del popolo romano. «È davvero come se dei giganti avessero incendiato pietre e bronzi e fatto rotolare nel fumo le colonne vacillanti e rovesciato cascate di marmi fusi come gli antichi combattenti facevano precipitare le colate di piombo. La chiesa usa e consuma gli elementi della terra bruciando l’oro e le altre materie sfarzose in un’unica furiosa battaglia alla conquista della popolarità». Una «splendida volgarità» per testimoniare la resurrezione dei corpi e anche la perpetua resurrezione di questa città. Ma nelle chiese romane, aggiungeva, vi si trova anche quella «leggerezza latina che non si deve confondere con la frivolezza». A causa della «leggerezza latina», della sapienza latina, «è perfettamente cattolico» considerare Maria come la seconda Eva ma anche la seconda Venere «e che essa comprende tutta l’umana tragedia della caduta e della infruttuosa ricerca pagana della felicità». Del resto, «le vesti del sacerdote all’altare sono essenzialmente le vesti di un uomo dell’antica Roma e persino della Roma pagana». Hofmannsthal aveva scritto che la Chiesa cattolica era l’unico legame diretto che ci restava con il mondo classico.

«Non credo quindi che il papato ebbe torto se, una volta deciso di andare incontro alla natura umana nel campo delle cerimonie, fissò un cerimoniale splendido. Non vedo quale vantaggio sarebbe derivato da un cerimoniale meschino o indeterminato o di infimo grado o logoro». Non era soltanto un mecenate delle arti occidentali il papato, sembra concludere GKC, ma l’autorità che ne stabiliva la forma, oltre naturalmente a offrirne il contenuto, le variegate storie orientali della salvezza. Roma testimoniava al più alto grado lo stile cattolico.

Qualcuno se ne accorse anche da noi: «Non cesserò mai di ripetere che il solo altissimo prestigio del nostro Paese nel mondo è dovuto alla presenza fisica della Chiesa cattolica e del suo Princeps, a Roma, in Italia. All’infuori di questo prestigio in Italia non c’è altro. C’è la mafia, alcuni prodotti alimentari, un po’ di canzoni. Ma questo non è prestigio internazionale, questa è bancarella [...]. Tra il prestigio internazionale della Chiesa cattolica e quello della bancarella di prodotti folkloristici c’è un’immensa, incolmabile differenza di stile. Anzi, non c’è nemmeno differenza, perché lo stile sta da una parte sola. [...]. Uno stile da così lungo tempo avvezzo al potere che si è fuso con esso, uno stile depurato con i secoli da volgarità e scorie, dall’esercito dei parvenus politici da cui siamo afflitti noi laici». (Goffredo Parise, Verba volant).

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