Calendario dell’Avvento 14. Pozzi, la gravidanza
Il ticinese Giovanni Pozzi (1923-2002), allievo di Contini, professore di Letteratura italiana all’Università di Friburgo, cappuccino e umanista, si occupò con rigore d’altri tempi, ossia con metodo saldo, di Giambattista Marino e di Manzoni, di pittura minore del Quattrocento e della «parola dipinta», di teologia mariana e di simbolica dei fiori. Con la bonomia francescana corretta dalla severità dei grandi eruditi gli capitò di rimbrottare, lepido dileggio, i nostri rinomati storici dell’arte, da Battisti a Calvesi, che tentavano di spiegare i dipinti sacri con il solito armamentario del sospetto metodico, a maggior gloria della ‘trasgressione’, naturalmente, da rinvenire a ogni passo e in ogni tempo. Ignoravano invece la «lingua morta» della pietà coltivata nel passato, oltre che i fondamentali della teologia, con il risultato che «bene spesso la limpidezza del linguaggio dogmatico si stempera in una ciarla nebulosa». È un peccato perciò frantumare – e riprodurre solo per lampi – il saggio «Maria tabernacolo» (in Sull’orlo dell’invisibile parlare, Adelphi), che si accosta alla Madonna di Monterchi di Piero della Francesca offrendo un florilegio di interpretazioni della tradizione e smontando il sapere ‘laico’ contemporaneo, ma anche così ridotto, oltre a invogliare a leggerlo integralmente nella sua monumentale sapienza, sottrae l’incarnazione alle fantasticherie spiritualiste e spesso gnostiche dei moderni, riportandola ai misteri corporali dell’umano. Intorno a questo tema, inoltre, legato alla fisicità della incarnazione divina, affiora la teologia dell’immagine che esige una fattura naturalistica, una rappresentazione che sfugge agli astrattismi che pretenderebbero tradurre in segni vaghi l’Assoluto. Questione natalizia per eccellenza.
[…] Una teologia dell’immagine affiancava perennemente la teologia della parola: predicazione, liturgia, pietà da una parte, arte dall’altra erano allineate in una specie di teoretorica. Questo perché semplicemente parola e immagine sono temi fondamentali della dottrina cristiana. L’uomo è stato creato a immagine di Dio; il Figlio di Dio è sua immagine perfetta, e il cristiano è Figlio di Dio nella misura in cui riproduce in sé questa immagine. Il creato è concepito come effetto d’una dizione divina, dove a un «dixit» è correlato un «factum est»; il Figlio unico è Verbo fatto creatura. Nel Figlio parola e immagine si ricongiungono. L’incarnazione del Verbo è il fondamento teologico sul quale l’immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Damasceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibile, argomenta che, da quando l’incorporeo è diventato uomo e l’invisibile s’è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l’invisibile, l’incorporeo; Teodoro Studita vi aggiunge una nota mariana quando prospetta che dal momento che Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre; perciò se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non dalla madre. […] La parola descrive il Verbo, l’arte figurativa il «factum est» della carne.
[…] Se l’attenzione, i timori e le gioie che accompagnano la fecondità e la nascita sono elementi antropologici costanti, che trovano ovunque un posto nelle religioni, la dottrina cristiana ha conferito loro una coloritura specifica, conseguente a una dottrina i cui dati non sono inglobati nell’antropologia. Anche nel caso di successive sostituzioni, Maria di Nazareth è altra cosa dalle antiche madri, dall’Uni etrusca, dall’Iside orientale e dalla greco-romana Giunone. Spiegare con quegli elementi il culto della maternità verginale e dell’incarnazione, vuol dire espungere in blocco dalla storia la metà della pietà cristiana, e anche di più se si guarda alla nostra storia italiana. Non si tratta solo di accidenti nell’evoluzione del credo religioso; la struttura del dogma o della pietà mariana è totalmente diversa dalla struttura dei culti femminili nella mitologia e nei miti pagani; tra il culto di Maria e quello delle dee madri, le analogie portano su circostanze esteriori. […]
[…] La meraviglia del «Verbum infans» della Parola fatta non parlante ma immagine nella carne, è il soggetto proprio ed esclusivo di questo dipinto. La combinazione di allegoria astratta e fattura naturalistica sintetizza il divino e l’umano che il mistero della gravidanza verginale rinchiude. L’affacciarsi della madonna sul proscenio della tenda simbolica visualizza gli elementi che la predicazione traeva dalla Bibbia: «requievit in tabernaculo meo et ideo sacrificavit tabernaculum suum Altissimus»; il gesto degli angeli adempie il biblico «ostendere» (adattandovi Es., 25, 9: «similitudo tabernaculi quod ostendimus vobis»). Piero della Francesca ha colto l’attimo di questa epifania del divino nei tratti d’una messinscena umana, perché, rappresentando potentemente il «factum est caro» seppe richiamare i segreti che circondano il «Verbum infans». Il che significa raffigurare lo stato di natura per rinviare allo stato di grazia.
Il ticinese Giovanni Pozzi (1923-2002), allievo di Contini, professore di Letteratura italiana all’Università di Friburgo, cappuccino e umanista, si occupò con rigore d’altri tempi, ossia con metodo saldo, di Giambattista Marino e di Manzoni, di pittura minore del Quattrocento e della «parola dipinta», di teologia mariana e di simbolica dei fiori. Con la bonomia francescana corretta dalla severità dei grandi eruditi gli capitò di rimbrottare, lepido dileggio, i nostri rinomati storici dell’arte, da Battisti a Calvesi, che tentavano di spiegare i dipinti sacri con il solito armamentario del sospetto metodico, a maggior gloria della ‘trasgressione’, naturalmente, da rinvenire a ogni passo e in ogni tempo. Ignoravano invece la «lingua morta» della pietà coltivata nel passato, oltre che i fondamentali della teologia, con il risultato che «bene spesso la limpidezza del linguaggio dogmatico si stempera in una ciarla nebulosa». È un peccato perciò frantumare – e riprodurre solo per lampi – il saggio «Maria tabernacolo» (in Sull’orlo dell’invisibile parlare, Adelphi), che si accosta alla Madonna di Monterchi di Piero della Francesca offrendo un florilegio di interpretazioni della tradizione e smontando il sapere ‘laico’ contemporaneo, ma anche così ridotto, oltre a invogliare a leggerlo integralmente nella sua monumentale sapienza, sottrae l’incarnazione alle fantasticherie spiritualiste e spesso gnostiche dei moderni, riportandola ai misteri corporali dell’umano. Intorno a questo tema, inoltre, legato alla fisicità della incarnazione divina, affiora la teologia dell’immagine che esige una fattura naturalistica, una rappresentazione che sfugge agli astrattismi che pretenderebbero tradurre in segni vaghi l’Assoluto. Questione natalizia per eccellenza.
[…] Una teologia dell’immagine affiancava perennemente la teologia della parola: predicazione, liturgia, pietà da una parte, arte dall’altra erano allineate in una specie di teoretorica. Questo perché semplicemente parola e immagine sono temi fondamentali della dottrina cristiana. L’uomo è stato creato a immagine di Dio; il Figlio di Dio è sua immagine perfetta, e il cristiano è Figlio di Dio nella misura in cui riproduce in sé questa immagine. Il creato è concepito come effetto d’una dizione divina, dove a un «dixit» è correlato un «factum est»; il Figlio unico è Verbo fatto creatura. Nel Figlio parola e immagine si ricongiungono. L’incarnazione del Verbo è il fondamento teologico sul quale l’immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Damasceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibile, argomenta che, da quando l’incorporeo è diventato uomo e l’invisibile s’è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l’invisibile, l’incorporeo; Teodoro Studita vi aggiunge una nota mariana quando prospetta che dal momento che Cristo è nato da una madre raffigurabile, possiede una immagine rispondente a quella della madre; perciò se non si potesse rappresentare nell’arte vorrebbe dire che sarebbe nato dal solo Padre e non dalla madre. […] La parola descrive il Verbo, l’arte figurativa il «factum est» della carne.
[…] Se l’attenzione, i timori e le gioie che accompagnano la fecondità e la nascita sono elementi antropologici costanti, che trovano ovunque un posto nelle religioni, la dottrina cristiana ha conferito loro una coloritura specifica, conseguente a una dottrina i cui dati non sono inglobati nell’antropologia. Anche nel caso di successive sostituzioni, Maria di Nazareth è altra cosa dalle antiche madri, dall’Uni etrusca, dall’Iside orientale e dalla greco-romana Giunone. Spiegare con quegli elementi il culto della maternità verginale e dell’incarnazione, vuol dire espungere in blocco dalla storia la metà della pietà cristiana, e anche di più se si guarda alla nostra storia italiana. Non si tratta solo di accidenti nell’evoluzione del credo religioso; la struttura del dogma o della pietà mariana è totalmente diversa dalla struttura dei culti femminili nella mitologia e nei miti pagani; tra il culto di Maria e quello delle dee madri, le analogie portano su circostanze esteriori. […]
[…] La meraviglia del «Verbum infans» della Parola fatta non parlante ma immagine nella carne, è il soggetto proprio ed esclusivo di questo dipinto. La combinazione di allegoria astratta e fattura naturalistica sintetizza il divino e l’umano che il mistero della gravidanza verginale rinchiude. L’affacciarsi della madonna sul proscenio della tenda simbolica visualizza gli elementi che la predicazione traeva dalla Bibbia: «requievit in tabernaculo meo et ideo sacrificavit tabernaculum suum Altissimus»; il gesto degli angeli adempie il biblico «ostendere» (adattandovi Es., 25, 9: «similitudo tabernaculi quod ostendimus vobis»). Piero della Francesca ha colto l’attimo di questa epifania del divino nei tratti d’una messinscena umana, perché, rappresentando potentemente il «factum est caro» seppe richiamare i segreti che circondano il «Verbum infans». Il che significa raffigurare lo stato di natura per rinviare allo stato di grazia.
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