Calendario dell’Avvento 21. Hirschmann, cena berlinese
Oggi è il solstizio d’inverno e comincia la otto giorni di Hannukkah, festa ebraica della luce che segue il calendario lunare e si apre nelle ore che precedono la luna nuova di dicembre, dunque nelle tenebre più totali e più lunghe dell’anno. Con il contrasto di cui si servono gli ammonimenti religiosi, in queste notti buie si celebra la luce, partendo da un fatto storico, la riconsacrazione del Tempio dopo la vittoria dei Maccabei, e dal miracolo, narrato dal Talmud, della menorah che arde appunto per otto giorni con una goccia d’olio. Nonostante però le candeline che si accendono e i doni che si scambiano, Hannukkah non è il Natale ebraico. Nell’Otto-Novecento, anzi, le famiglie borghesi erano così integrate alla cultura d’origine cristiana da festeggiare con il cenone e l’abete la vigilia di Natale. Come leggiamo per esempio in questa rievocazione di Ursula Hirschmann, ebrea berlinese (1913-1991), che sembra modellarsi sui Buddenbrook di Thomas Mann. (Da Noi senzapatria, Il Mulino).
Il 23 dicembre era una data memorabile. Mio padre andava a comprare le carpe natalizie, enormi e pesanti bestie dalle grosse scaglie dorate che, accompagnate dalle nostre urla di stupore, si dimenavano nell’acqua della vasca da bagno per ventiquattro ore. Poi veniva il culmine, atteso da settimane: il 24 dicembre. Tutte le decorazioni per la cena del 24 venivano disposte in bell’ordine, tutti i regali uscivano dai loro nascondigli. Le carpe venivano uccise e cotte lentamente in un sugo in cui il loro sangue si mescolava con birra scura, uva passa e mandorle. Il piatto era saporitissimo e si chiamava carpa alla polacca. Era il piatto forte per la cena del 24 in quasi tutte le case benestanti berlinesi. Sul tavolo bianco in cucina si allineavano le scatole piene di croccanti, biscotti al miele, e degli Stollen, cioè panetti lunghi e pesanti, alcuni dei quali contenevano solo zibibbo e mandorle, altri uno squisito impasto di semi di papavero cotti nel latte e zucchero. Noi bambini avevamo da molti giorni preparato stelle e catene per l’albero di Natale, ed ora consegnavamo tutto a nostro padre il quale aveva il compito di tradizionale di preparare l’albero. Dopo il modesto pasto a mezzogiorno eravamo così stanchi che non ci ribellavamo alla tradizione la quale voleva che i bambini andassero a dormire fino alle sei della sera. Ci si addormentava nell’attesa della festa più bella dell’anno.
Quando cominciava, ogni anno, la grande sala da pranzo sembrava trasformata. In un angolo, fino al soffitto, c’era uno stupendo albero pieno di candele, mele rosse, stelle di biscotti e cioccolata, e le catene colorate nostre facevano bellissima figura. Vicino all’albero cominciava la lunga tavolata. Ma poiché per cena si attendevano solo una dozzina di parenti ed amici, circa la metà del tavolo era occupata dai regali. Questi non erano, come usa oggi, incartati. Per ognuno di noi c’era il mucchio dei suoi regali e il tutto era coperto da una grande tovaglia bianca, in modo che entrando nella sala si vedeva su quella parte del tavolo una specie di paesaggio di montagnette bianche. Sulla cima di ogni montagna c’era una grossa lettera di biscotto che indicava a chi era destinato il mucchietto. Prima di levare la tovaglia cantavamo tutti insieme le vecchie canzoni natalizie. Mia madre ci accompagnava al pianoforte a coda che stava nell’angolo opposto a quello dell’albero. L’aria era piena dell’odore di abete e di candele che mio padre aveva comprato scegliendo con cura quelle di cera d’api per il loro profumo.
Oggi è il solstizio d’inverno e comincia la otto giorni di Hannukkah, festa ebraica della luce che segue il calendario lunare e si apre nelle ore che precedono la luna nuova di dicembre, dunque nelle tenebre più totali e più lunghe dell’anno. Con il contrasto di cui si servono gli ammonimenti religiosi, in queste notti buie si celebra la luce, partendo da un fatto storico, la riconsacrazione del Tempio dopo la vittoria dei Maccabei, e dal miracolo, narrato dal Talmud, della menorah che arde appunto per otto giorni con una goccia d’olio. Nonostante però le candeline che si accendono e i doni che si scambiano, Hannukkah non è il Natale ebraico. Nell’Otto-Novecento, anzi, le famiglie borghesi erano così integrate alla cultura d’origine cristiana da festeggiare con il cenone e l’abete la vigilia di Natale. Come leggiamo per esempio in questa rievocazione di Ursula Hirschmann, ebrea berlinese (1913-1991), che sembra modellarsi sui Buddenbrook di Thomas Mann. (Da Noi senzapatria, Il Mulino).
Il 23 dicembre era una data memorabile. Mio padre andava a comprare le carpe natalizie, enormi e pesanti bestie dalle grosse scaglie dorate che, accompagnate dalle nostre urla di stupore, si dimenavano nell’acqua della vasca da bagno per ventiquattro ore. Poi veniva il culmine, atteso da settimane: il 24 dicembre. Tutte le decorazioni per la cena del 24 venivano disposte in bell’ordine, tutti i regali uscivano dai loro nascondigli. Le carpe venivano uccise e cotte lentamente in un sugo in cui il loro sangue si mescolava con birra scura, uva passa e mandorle. Il piatto era saporitissimo e si chiamava carpa alla polacca. Era il piatto forte per la cena del 24 in quasi tutte le case benestanti berlinesi. Sul tavolo bianco in cucina si allineavano le scatole piene di croccanti, biscotti al miele, e degli Stollen, cioè panetti lunghi e pesanti, alcuni dei quali contenevano solo zibibbo e mandorle, altri uno squisito impasto di semi di papavero cotti nel latte e zucchero. Noi bambini avevamo da molti giorni preparato stelle e catene per l’albero di Natale, ed ora consegnavamo tutto a nostro padre il quale aveva il compito di tradizionale di preparare l’albero. Dopo il modesto pasto a mezzogiorno eravamo così stanchi che non ci ribellavamo alla tradizione la quale voleva che i bambini andassero a dormire fino alle sei della sera. Ci si addormentava nell’attesa della festa più bella dell’anno.
Quando cominciava, ogni anno, la grande sala da pranzo sembrava trasformata. In un angolo, fino al soffitto, c’era uno stupendo albero pieno di candele, mele rosse, stelle di biscotti e cioccolata, e le catene colorate nostre facevano bellissima figura. Vicino all’albero cominciava la lunga tavolata. Ma poiché per cena si attendevano solo una dozzina di parenti ed amici, circa la metà del tavolo era occupata dai regali. Questi non erano, come usa oggi, incartati. Per ognuno di noi c’era il mucchio dei suoi regali e il tutto era coperto da una grande tovaglia bianca, in modo che entrando nella sala si vedeva su quella parte del tavolo una specie di paesaggio di montagnette bianche. Sulla cima di ogni montagna c’era una grossa lettera di biscotto che indicava a chi era destinato il mucchietto. Prima di levare la tovaglia cantavamo tutti insieme le vecchie canzoni natalizie. Mia madre ci accompagnava al pianoforte a coda che stava nell’angolo opposto a quello dell’albero. L’aria era piena dell’odore di abete e di candele che mio padre aveva comprato scegliendo con cura quelle di cera d’api per il loro profumo.
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