PIO IX, IL SOVRANO NON RICONCILIATO, NELLO SPECCHIO DI TRE AVVERSARI OTTOCENTESCHI. OVVERO L’UNIVERSALISMO CATTOLICO SOTTO I COLPI DEL MODERNO, QUANDO IRROMPONO I NAZIONALISMI E IN NOME DEL SANGUE SI SPREZZANO GLI ULTIMI ZUAVI CON L’EPITETO DI MERCENARI
Si quis dixit: Romanus Pontifex
potest ac debet cum progressu,
cum liberalismo et cum recenti
civilitate [idest: la modernità]
se reconciliare et componere:
anathema sit.
Sillabo, paragrafo conclusivo
Nelle folcloristiche ricostruzioni della Roma ottocentesca, la differenza che la città eterna mantiene rispetto alle altre capitali europee viene rappresentata come un’arcaica resistenza alla ventata moderna: il borgo delle rovine confrontato alle nuove metropoli, un presepio buffo umiliato da Londra e Parigi che si liberano del passato. Roma è la sede della più antica sovranità, quindi la più anacronistica. Ma per sconfiggere le sue ultime seduzioni estetiche, che ancora agivano, tra l’altro, sugli animi incerti dei romantici, si ricorre all’arma del ridicolo, parlando, per esempio, di staterello pontificio: confini ristretti per il trono che aveva visto coincidere il suo potere cattolico con l’intero orbe terrestre. Oppure, di cittadella dei preti: quante armate avranno mai i pacifici monsignori?, è la domanda che si fanno, sorridenti, i pragmatici per oltre un secolo, fino al recente despota dello scomparso Stato sovietico, esorcizzando con le loro cattive fedi nazionalistiche l’incarnazione di un potere universale. ‘Papa re’, si finisce tutti col dire, in una parodia della politica cattolica. Il papa sarebbe un reuccio tra i tanti sovrani della bella Penisola?
Eppure chi porta da secoli le tre corone è casomai re dei re, imperator, successore di Augusto, reggitore dell’Orbis romanus, nel segno dell’universalità, dell’universalità cristiana, successore del Pontifex Maximus della Roma pagana, e successore di Pietro. Ora il grande avversario della modernità, colui che proprio per il suo ruolo di pontefice scomunica chi pretende di essere in un tempo tanto radicalmente nuovo da spezzare per sempre la tradizione, viene giudicato per oltre un secolo con i parametri moderni di patriota o non patriota. Moderni e ristretti questi metri di giudizio, confinati nelle ideologie nazionaliste dei vari risorgimenti, non applicabili a colui che siede sul trono ecumenico. Agli occhi dei patrioti risorgimentali, tutti presi dal loro problema di abolire le frontiere doganali e di unificare il mercato per misurarsi con la concorrenza europea, il papa Pio IX tradisce le loro aspettative o illusioni. E perché mai il capo della cattolicità avrebbe dovuto tradire i suoi figli austriaci o francesi? Soprattutto perché mai avrebbe dovuto piegarsi dinanzi a questo piccolo e ridicolo idolo del patriottismo?
Nel mondo ridotto soltanto all’aspetto economico, non conta più il fatto di organizzare saldamente la spiritualità nelle maglie del diritto canonico, di derivazione romana, affinché non evapori nei misticismi individuali, in un’imitazione degli angeli che tralascia la fisicità umana; non basta essere l’erede, e il custode, di quanto di meglio abbia fatto l’Occidente nella sua storia, dal discorso razionale alle immagini rinascimentali; né viene più apprezzato quel ruolo di controllo della ferinità umana, esercitato con saggezza per millenni. Si scateni la furia dei nuovi predoni, avanzino le orde dei guerrrieri biondi contro quelle dei guerrieri neri, si proceda alla distruzione delle immagini, del logos, dell’umano. Si affermano così sogni e incubi dell’antiarte, domini spirituali senza territori, anime senza corpi, fantasmi insomma. Uno vero spettro avanza per il mondo.
Se il papato non avesse mantenuto il potere terreno sarebbe finito in servitù, un profeta disarmato in balia di re e principi, e invece di predicare la parola di Gesù e di tentare di instaurare una civiltà cristiana, il pontefice avrebbe controllato, per conto della autorità politiche, le anime dei sudditi.
Si quis dixit: Romanus Pontifex
potest ac debet cum progressu,
cum liberalismo et cum recenti
civilitate [idest: la modernità]
se reconciliare et componere:
anathema sit.
Sillabo, paragrafo conclusivo
Nelle folcloristiche ricostruzioni della Roma ottocentesca, la differenza che la città eterna mantiene rispetto alle altre capitali europee viene rappresentata come un’arcaica resistenza alla ventata moderna: il borgo delle rovine confrontato alle nuove metropoli, un presepio buffo umiliato da Londra e Parigi che si liberano del passato. Roma è la sede della più antica sovranità, quindi la più anacronistica. Ma per sconfiggere le sue ultime seduzioni estetiche, che ancora agivano, tra l’altro, sugli animi incerti dei romantici, si ricorre all’arma del ridicolo, parlando, per esempio, di staterello pontificio: confini ristretti per il trono che aveva visto coincidere il suo potere cattolico con l’intero orbe terrestre. Oppure, di cittadella dei preti: quante armate avranno mai i pacifici monsignori?, è la domanda che si fanno, sorridenti, i pragmatici per oltre un secolo, fino al recente despota dello scomparso Stato sovietico, esorcizzando con le loro cattive fedi nazionalistiche l’incarnazione di un potere universale. ‘Papa re’, si finisce tutti col dire, in una parodia della politica cattolica. Il papa sarebbe un reuccio tra i tanti sovrani della bella Penisola?
Eppure chi porta da secoli le tre corone è casomai re dei re, imperator, successore di Augusto, reggitore dell’Orbis romanus, nel segno dell’universalità, dell’universalità cristiana, successore del Pontifex Maximus della Roma pagana, e successore di Pietro. Ora il grande avversario della modernità, colui che proprio per il suo ruolo di pontefice scomunica chi pretende di essere in un tempo tanto radicalmente nuovo da spezzare per sempre la tradizione, viene giudicato per oltre un secolo con i parametri moderni di patriota o non patriota. Moderni e ristretti questi metri di giudizio, confinati nelle ideologie nazionaliste dei vari risorgimenti, non applicabili a colui che siede sul trono ecumenico. Agli occhi dei patrioti risorgimentali, tutti presi dal loro problema di abolire le frontiere doganali e di unificare il mercato per misurarsi con la concorrenza europea, il papa Pio IX tradisce le loro aspettative o illusioni. E perché mai il capo della cattolicità avrebbe dovuto tradire i suoi figli austriaci o francesi? Soprattutto perché mai avrebbe dovuto piegarsi dinanzi a questo piccolo e ridicolo idolo del patriottismo?
Nel mondo ridotto soltanto all’aspetto economico, non conta più il fatto di organizzare saldamente la spiritualità nelle maglie del diritto canonico, di derivazione romana, affinché non evapori nei misticismi individuali, in un’imitazione degli angeli che tralascia la fisicità umana; non basta essere l’erede, e il custode, di quanto di meglio abbia fatto l’Occidente nella sua storia, dal discorso razionale alle immagini rinascimentali; né viene più apprezzato quel ruolo di controllo della ferinità umana, esercitato con saggezza per millenni. Si scateni la furia dei nuovi predoni, avanzino le orde dei guerrrieri biondi contro quelle dei guerrieri neri, si proceda alla distruzione delle immagini, del logos, dell’umano. Si affermano così sogni e incubi dell’antiarte, domini spirituali senza territori, anime senza corpi, fantasmi insomma. Uno vero spettro avanza per il mondo.
Se il papato non avesse mantenuto il potere terreno sarebbe finito in servitù, un profeta disarmato in balia di re e principi, e invece di predicare la parola di Gesù e di tentare di instaurare una civiltà cristiana, il pontefice avrebbe controllato, per conto della autorità politiche, le anime dei sudditi.
Il cristianesimo, la religione dell’incarnazione di Dio, non può che incarnarsi nella storia, ma autonoma dalla potenze mondane, contrapposta a esse. E l’autonomia dev’essere perciò anche politica. Ecco perché la battaglia di Pio IX non è un passatismo, superato ormai nell’ottocento, ma lo scontro decisivo con la civiltà borghese. Soltanto nel terzo millennio può tornare evidente quel conflitto che si mascherò con altri nomi.
In Italia, in particolare, molto è stato occultato per ovvie ragioni. Bisogna ricorrere allo sguardo di chi da lontano, e non da posizioni cattoliche, assistette al conflitto. Stanno lì da secoli, questi testi, basta aprire i libri e leggerli. Nessuna scoperta, molti anzi li rileggiamo spesso (per es., Dostoevskij) ma non facciamo più caso alle parole che riguardano Roma. Qui si prova soltanto a ripeterle a voce alta.
L’OMAGGIO DI UN LUTERANO.
LEOPOLD VAN RANKE DESCRIVE LA BATTAGLIA
Il liberale protestante Thomas Babington Macaulay non aveva dubbi recensendo la storia dei Römischen Päpste in den letzen vier Jahrhunderten di Leopold van Ranke (1834-1843): va svelato il mistero di questa potenza umana che si vuole divina, proprio quando sembra risorgere ancora una volta dalle ceneri della storia. Ranke, da parte sua, tentava di spiegare ai suoi correligionari luterani il trionfo della Chiesa di Roma dopo un primo disorientamento seguìto all’attacco del frate agostiniano. E lo scrittore prussiano, contro Hegel, non voleva fare storia delle idee. Frequentò quindi gli archivi con raro spirito di erudizione per disporre la storia dei papi. Ma quando congedò l’opera si disse convinto che «al giorno d’oggi [...] l’autorità papale non esercita più alcuna essenziale influenza; né può esserci un sentimento di timore: sono passati i tempi nei quali avevamo qualche ragione di temere [...]» (Leopold von Ranke, Storia dei papi, Sansoni, 1965, p. 9), i luterani ora hanno uno Stato potente come la Prussia che li protegge. Anni dopo, ai tempi della battaglia anticattolica di Bismarck, Ranke torna sui suoi passi e afferma: «la lotta è di nuovo divampata...»: il Kulturkampft riapre la secolare guerra tra l’universalismo latino e i nazionalismi del Nord Europa.
Lo storico tedesco lo spiega così: «Come cambiò tutto quando si levò la potenza di Roma! Vediamo tutte le autonomie che riempivano il mondo chinarsi e scomparire una dopo l’altra: come improvvisamente la terra rimase deserta di popoli liberi! [...] Malgrado la viva partecipazione che noi proviamo di fronte al tramonto di tanti stati liberi, non possiamo negare che dalla loro rovina sorse direttamente una nuova vita. Quando la libertà cadde, caddero insieme i confini delle nazionalità particolari. Le nazioni vennero sconfitte, ed insieme conquistate, ma proprio per questo unificate, fuse. Poiché il territorio dell’impero era chiamato orbis, gli abitanti di esso si sentirono di una sola stirpe, di una stirpe omogenea. Il genere umano cominciò a rendersi conto della comune natura di tutti gli uomini.
In questo momento della evoluzione del mondo nacque Gesù Cristo. [...]
Anche se i culti nazionali avevano racchiuso ciascuno in sé un elemento di autentica religione, questo era, già allora, del tutto oscurato; [...] di fronte ad essi, nel Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio si manifestò nella sua forma eterna ed universale, il rapporto di Dio col mondo, dell’uomo con Dio.
Cristo era nato in una nazione che si distingueva con la massima energia da tutte le altre per un rigido corpo di norme rituali che valevano solo per lei, ma che aveva il grandissmo merito di essersi mantenuta immutabilmente ferma nel monoteismo [...] Cristo sciolse la legge compiendola [...]. Fu annunziato il Dio universale, il quale, come predicò San Paolo agli ateniesi, le stirpi di tutti gli uomini abitavano la terra discendendo da un solo sangue. [...] (il) culto di Cesare e la dottrina di Cristo avevano in un certo senso un atteggiamento comune rispetto alle religioni locali: ma insieme stavano in una opposizione che non si poteva immaginare più netta. [...] Ci si stupisce talvolta che proprio un edificio pagano destinato a scopi mondani, come la basilica, si sia trasformato in luogo di culto cristiano. Pure questo fatto ha in sé qualche cosa di molto indicativo. L’abside della basilica conteneva un augusteo, le immagini appunto di quei Cesari ai quali si tributavano onori divini. E al posto di essi si pose, come vediamo ancora oggi in tante basiliche, l’immagine di Cristo e degli apostoli; al posto dei signori del mondo che erano stati guardati come dei, si pose il Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio. Le divinità locali si ritirarono, scomparvero. Sulle strade maestre, sulle erte vette dei monti, nei passi attraverso gli scoscendimenti delle valli, sui tetti delle case, sul mosaico dei pavimenti, si vide la croce. Come nelle monete di Costantino si vide il labaro col monogramma di Cristo alto sul dragone sconfitto, così si levarono sul paganesimo caduto il culto ed il nome di Cristo.
Anche considerata da questo lato, come infinitamente grande è l’importanza dell’impero romano! [...] E l’impero romano dette del resto il proprio aspetto esteriore a questa religione. Gli incarichi sacerdotali pagani erano conferiti come cariche civili; nel giudaismo una tribù aveva il compito di occuparsi delle cose religiose; nel cristianesimo le cose stanno altrimenti: un particolare ceto, composto da persone che erano liberamente scelte per esso, consacrate con l’imposizione delle mani, allontanate da ogni attività terrena, doveva dedicarsi ‘agli affari spirituali e di Dio’.[...] Contemporaneamente però il ceto sacerdotale fu portato a conformare il proprio ordinamento al modello dell’impero. In corrispondenza della scala dell’amministrazione civile si levò la gerarchia dei vescovi, metropoliti, patriarchi.. Non durò però a lungo, ed i vescovi di Roma assunsero il primo posto. È vano affermare che ad essi nei primi secoli, anzi sempre, sia stato riconosciuto da oriente ad occidente un primato universale; ma certo ottennero ben presto un prestigio che li rese eminenti su tutte le altre autorità ecclesiastiche [...] Se ci fosse stato un solo imperatore il primato universale avrebbe potuto affermarsi: a ciò si oppose la divisione dell’impero» (pp. 13-20).
Anche il luterano tedesco accetta il sostanziale primato storico di Roma, sia pure ipotizzando una parentesi in cui il potere religioso era separato da quello politico, un intervallo che coincide con il periodo clandestino delle persecuzioni. Non solo, Ranke si spinge a credere che se non ci fosse stata la divisione politica dell’impero l’universalità romana si sarebbe realizzata in tutta la terra. Dunque, è politica la divisione della cristianità, prima incarnata dall’imperatore di Bisanzio e poi dall’imperatore franco, dal conflitto con i germani. Nonostante l’attacco politico portato da più parti, Roma resse per millenni, il papato risorse ripetutamente: dopo le invasioni barbare, dopo i confltti con l’impero d’Oriente e del Nord Europa, dopo l’attacco della potenza francese e l’esilio avignonese, dopo la spregiudicatezza intellettuale degli umanisti che seppellivano le credenze medioevali, dopo il violento attacco di Lutero. Lo stesso Ranke ammette: «Si può arditamente dire che quanto di più bello è stato prodotto nell’età moderna in tema di architettura, scultura e pittura è stato prodotto in questo periodo» (p.54), ovvero sotto il pontificato di Leone X, nel pieno del potere dei papi. E sarà forse un caso che il grado più alto della civiltà umana sia stato toccato sotto quella sovranità?
Ma, nonostante le molteplici resurrezioni, arriva un giorno nella sua storia quasi bimillenaria che il potere cattolico sembra avviato al tramonto. Il papa finisce in catene (non è la prima volta), il mondo viene rovesciato. La rivoluzione dell’Ottantanove e le sue conseguenze napoleoniche sembrano affossare la Chiesa di Roma. Ranke ammette che anche da questo esilio temporale il papato cattolico viene fuori. E ne ripercorre i passaggi drammatici, già nei decenni precedenti la Rivoluzione francese, quando due regni cattolici come Austria e Francia si combattono tra loro e la politica dei papi resta schiacciata in questo scontro: «Gli stati cominciarono ad assumere un atteggiamento indipendente: si liberarono da ogni rispetto per la politica del papato; rivendicarono, per i loro affari interni, un autonomia che concedeva alla curia una influenza sempre minore, anche nelle questioni ecclesiastiche. [...] In tutti gli stati italiani si stava affermando il principio di attribuire le dignità ecclesiastiche solo a oriundi del luogo» (pp. 930-943).
I vescovi che un tempo erano come i proconsoli romani, longa manus del potere papale in tutta la cristianità, relativamente autonomi da localismi e men che mai da nazionalismi, adesso diventano espressione della politica loci, contrapposti a Roma. «Non soltanto in Italia, nell’Europa meridionale, ma nella situazione politica generale si era verificato un grandissimo mutamento. Dove erano ormai i tempi nei quali il papato poteva sperare, e non senza fondamento, di conquistare di nuovo l’Italia e l’Europa? Tra le cinque grandi potenze che, già verso la metà del XVIII secolo, determinavano la storia del mondo, tre non erano cattoliche. Abbiamo accennato ai tentativi fatti dai papi in epoche precedenti, per imporsi sulla Russia e sulla Prussia per mezzo della Polonia, e sull’Inghilterra per mezzo della Francia e della Spagna. Ma erano proprio quelle potenze che ora partecipavano al dominio del mondo; anzi si può esattamente dire che esse, in quel periodo, erano più forti della metà cattolica d’Europa» (p. 945).
Anche negli Stati cattolici, dei ministri riformatori scatenavano una battaglia culturale per ridimensionare il potere ecclesiastico. Perfino la gloriosa Compagnia di Gesù fu atterrata in questo scontro, e il papa costretto a sciogliere il suo ordine fedelisimo. «Invano il papa ammonì, pregò e suplicò» (p.955). Clemente XIII morì di crepacuore ed evitò così di firmare l’atto decisivo. Ma nella curia romana c’era un partito ‘regalista’: la salvezza della Chiesa imponeva un grosso compromesso, al limite dell’arrendevolezza, con il potere laico. Il mite Clemente XIV mandò a casa i gesuiti. «Fu, questo, un gesto di portata incalcolabile. Prima di tutto rispetto ai protestanti. L’ordine era stato inizialmente costruito per lottare contro di essi, ed a questo si ispirava tutta la sua organizzazione – persino la forma della sua dogmatica era fondata soprattutto sull’opposizione a Calvino [...]. La prima reazione però si ebbe nei paesi cattolici. I gesuiti erano stati attaccati e soppressi soprattutto perché essi sostenevano, in tutto il suo rigore, il principio della somma autorità del pontefice romano» (pp. 958-959). Cadevano i princìpi, crollava l’organizzazione. Sembrava trionfare l’antico movimento della riforma luterana. Il mondo borghese si prendeva la sua rivincita. In Francia scoppiò la rivoluzione: «Tutte le diocesi venero modificate, gli ordini sciolti, i voti soppressi, rotti i rapporti con Roma» (p. 962).
Le forze rivoluzionarie «dal proposito di sottrarsi all’autorità del papato erano già arrivate all’idea di distruggerla. Il direttorio ritenne che il governo dei preti in Italia fosse incompatibile con l’esistenza della repubblica francese. Alla prima occasione, che fu offerta da un tumulto della popolazione romana, si marciò su Roma e si occupò il Vaticano. Pio VI pregò i suoi nemici di lasciarlo morire qui ove era vissuto; aveva già più di 80 anni. Gli si rispose che poteva morire dappertutto; si saccheggiò sotto i suoi occhi la sua camera; gli si tolsero anche i mezzi per soddisfare ai suoi più minuti bisogni; gli si levò dal dito l’anello che portava; infine lo si deportò in Francia, ove morì nell’agosto 1799. In realtà poteva sembrare che l’autorità del pontefice fosse per sempre distrutta» (p. 964).
Anche il lettore contemporaneo fa fatica a collegare simili persecuzioni della Chiesa – che perfino i barbari non avevano osato, e che scandalizzano lo storico luterano – con il nuovo trionfo della Chiesa in alcuni decenni del XIX secolo e poi nel XX. «Si realizzò davvero ciò che poco prima nessuno si sarebbe aspettato, cioè il ristabilimento del cattolicesimo in Francia e una nuova sudditanza di questo paese all’autorità del clero» (p. 966). Ma Napoleone voleva fare del papa un suo dipendente. Provvidenziale fu l’eretica Inghilterra che sconfisse le armate rivoluzionarie e i nazionalismi francesi che volevano assoggettare la Chiesa secondo antichi sogni gallicani. Restaurazione significò anche il papa di nuovo a Roma che celebra messa all’altare di Sant’Ignazio al Gesù e ristabilisce la Compagnia. Adesso anche gli Stati non cattolici si pentivano dell’ostilità verso i gesuiti e il papato che avevano portato all’esplosione violentissima dell’Ottantanove e allo strascico sanguinoso dei successivi quindici anni. Il cattolicesimo era visto come un elemento di ordine. La Chiesa raccoglieva nuovi successi politici in Inghilterra come in Olanda, in Prussia e in Belgio. Ma altre prove attendevano il papato, non solo contrasti politici con i nuovi regimi che rivolte e rivoluzioni collocavano alla testa dei paesi europei, anche a Roma le idee francesi trovano accoglienza. L’assemblea del 5 febbraio 1849 dichiarò che il papato era decaduto. Pio IX fuggì a Gaeta, ma il papato sopravvisse, la Repubblica romana fu un aneddoto storico, intriso di folclore.
Negli anni Settanta dell’Ottocento, Ranke poteva così concludere: «Indubbiamente il papato dispone dell’organizzazione più centralizzata e più omogenea che ci sia oggi nel mondo; ed ogni giorno essa si allarga di più sulla terra. A fianco delle chiese dell’America del Sud, nelle quali sopravvivono le idee religiose di Filippo II, si eleva un nuovo edificio gerarchico nella democratica America del Nord; in pochi anni vi sono stati fondati due nuovi arcivescovadi e venti vescovadi. L’organizzazione ecclesiastica segue lo sviluppo delle comunicazioni e delle emigrazioni verso la California, verso le isole australiane. Inoltre non si trascurò di mantenere legate a Roma le istituzioni ecclesiastiche fondate in un’epoca precedente sulle coste africane e nelle Indie orientali. Nell’Asia centrale sono stati fondati sei nuovi vescovati di rito armeno-cattolico, e in tutto il mondo, fino al polo artico, sono stati istituiti, in gran numero, prefetture e vicariati apostolici.
Il papa pretende anche di essere considerato il padre ed il maestro di tutti i cristiani, il capo di tutta la Chiesa: ma se non sono mancate le conversioni individuali – infatti l’idea di una comunità e dell’infallibilità corrisponde a un’esigenza religiosa del cuore umano, e coloro che professano la loro fede sono pieni di ardore propagandistico – sono però falliti i suoi tentativi di fronte alle diverse forme delle altre grandi comunità religiose.
‘Ascoltate la mia voce – egli esclama – voi tutti in Oriente, che vi inorgoglite del nome di cristiani, ma che non siete membri della Chiesa romana!’. Li supplica, per la salute delle loro anime, a lasciar cadere i motivi di dissenso [...].
In occidente il papa ha cercato di organizzare i cattolici di paesi di vecchia tradizione protestante, sia in Olanda che in Inghilterra, in speciali province ecclesiastiche. In Inghilterra Pio IX ‘per ridare slancio alla causa cattolica in un regno così fiorente’ ha istituito, senza alcun preventivo scambio di vedute col governo, un arcivescovado e dodici vescovadi suffraganei, che, tutti, prendono nome da località inglesi (l’arcivescovato da Westminster); il nuovo arcivescovo era insieme cardinale della Chiesa romana; egli ha affermato che d’ora in poi l’attività dei cattolici inglesi si muoverà intorno al centro dell’unità ecclesiastica.
Si intrecciano così i contatti nella Chiesa e nello stato, nelle nazioni e nel mondo, nella scienza e nella società, e tutti contribuiscono a mantenere gli animi continuamente tesi di fronte al papato, che è sempre uno dei punti focali più importanti. [...] È caratteristico che la lotta si svolga con continui richiami a quelle vicende passate che sono ancora vive nella memoria; tutte le controversie che abbiano mai agitato il mondo sono tornate ad esplodere apertamente: la lotta tra i concili e gli antichi eretici, tra la potenza medievale degli imperatori e quella dei papi, tra e idee di riforma e l’inquisizione, tra giansenismo e gesuiti, tra religione e filosofia. Intorno a questi temi si agita la nostra epoca, sensibile e disordinata, violentemente divisa nel suo slancio verso fini sconosciuti, fiduciosa in se stessa, ma eternamente insoddisfatta e piena di fermenti» (pp. 990-993).
Ma nella piccola ottica dei politici sardo-piemontesi Pio IX è un ostacolo, l’idea universale che i papi mantengono in vita senza soluzione di continuità con l’impero di Augusto è antitetica al regno montanaro dei Savoia. Ben più obiettivo è il prussiano Ranke, seguace di Lutero: Napoleone III «pensava che fosse ancora possibile un accordo tra Roma e il nuovo regno d’Italia, che avrebbe dovuto consistere in una moderazione, da parte del papa, dei princìpi che egli stesso aveva affermati; e questo avrebbe dato i più fruttuosi risultati nell’intero mondo cattolico; il papa avrebbe riconosciuto le idee liberali, che erano a base della maggior parte degli stati, ed avrebbe così dimostrato ai fedeli che la religione sapeva riconoscere e appoggiare il progresso del genere umano. Significava chiedere davvero troppo al papa nel momento in cui le idee che egli doveva approvare minacciavano la sua esistenza. Come avrebbe potuto ammettere la sovranità popolare, che lo aveva dichiarato deposto, o l’unità d’Italia, che minacciava di strappargli il suo stato?
A tutte le richieste che gli venivano avanzate a proposito dello stato della Chiesa, il papa contrappose continuamente l’idea dell’unità della Chiesa e del suo dovere di pontefice: ‘Il diritto del soglio pontificio non può essere trasmesso come quello di una dinastia terrena; appartiene a tutti i cattolici; se vi rinunziasse egli offenderebbe il corpo dei fedeli, violerebbe il giuramento che lo vincola, ed insieme legittimerebbe dei princìpi che sarebbero certo nefasti per tutti i princìpi’. Così ha scritto una volta all’imperatore francese. Non esitò pronunziare contro i ribelli e gli usurpatori delle province staccatesi dallo stato della Chiesa la scomunica maggiore, con sonore parole delle antiche formule, richiamandosi espressamente ai canoni del concilio tridentino; nel breve che la conteneva egli sostiene che, dati i divergenti interessi dei principi, una delle più savie istituzioni della provvidenza era stata l’attribuzione al papa di Roma di uno stato in terra, e quindi della libertà politica; perché la Chiesa cattolica non doveva essere in condizione di temere che la gestione delle questioni di sua spettanza fosse sottomessa ad influenze estranee e terrene; in conformità di questa sua missione anche il governo dello stato della Chiesa romana, doveva, con tutta la cura per il benessere dei sudditi, essere affidato agli ecclesiastici.
Di tempo in tempo avevano luogo a Roma cerimonie nelle quali prendeva corpo ancora una volta la mistica, che unisce il cielo e la terra, del pontificato di un tempo» (pp.997-998).
Pio IX, caricaturizzato dagli ideologi del regno italiano, ha una grandezza impressionante sulla scena moderna: «Quando Pio disse che avrebbe affrontato la morte piuttosto che desistere dalla difesa della sua causa, che era la causa di Dio, della giustizia e della Chiesa, [i vescovi] dichiararono di essere pronti a dividere con lui la prigionia e la morte» (p. 999). Con il Sillabo si elencavano le idee nefande della modernità, «si mirava soprattutto a ciò che era accaduto ad opera dei piemontesi: ma da questo prendeva spunto l’affermazione di princìpi più ampi contro l’onnipotenza dello stato [...] Pio IX, respingendo queste idee, è il continuatore della tradizione dei suoi predecessori che hanno sempre rivendicato per la Chiesa una benefica autorità su nazioni e principi [...]. Ricercando le cause del generale disordine, le individua nell’idea che la ragione sia superiore alla rivelazione, e che la legge sovrana consista nella manifestazione della volontà popolare [...] Contro la marea della politica e dell’opinione il papato prese posizione, con senso orgoglioso della propria missione che aveva sempre avuto; e l’esito di questa lotta, se il papato avrebbe ceduto o resistito, divenne uno dei grandi problemi del secolo» (pp. 999-1001).
In fondo, se non fossero stati accecati dai loro fumi ideologici, i liberali italiani avrebbero potuto vantare una vittoria su una figura imponente come Pio IX, sull’erede di un potere millenario. Ma forse erano consapevoli di funzionare da strumento di forze più grandi di loro, nient’altro che un sassolino che suscita una valanga apocalittica che seppellisce una civiltà.
Il papa non si era limitato a condannare i princìpi liberali: ricordando come nella battaglia contro Lutero alle bolle era seguito un Concilio come quello di Trento, che aveva invertito la marcia e garantito un nuovo trionfo alla Chiesa di Roma, anche stavolta, per battere le teorie moderne più perniciose, fu convocato un Concilio a Roma. «Si fraintenderebbe l’atteggiamento del papa – spiega Ranke contro tutte le interpretazioni anticlericali – se si pensasse che il fine del concilio fosse soltanto la salvezza del potere terreno. Certo, il conflitto, nei suoi termini essenziali, era italiano, dato che si svolgeva tra le aspirazioni unitarie del nuovo regno e l’esistenza indipendente di uno stato della Chiesa; ma acquistò un carattere universale perché la monarchia italiana intese e accettò le idee moderne con tutte le loro conseguenze, mentre il papa pensò di riaffermare e di sanzionare, in tutta la loro portata, le teorie ecclesiastiche avverse alle prime [...]. C’è qualche cosa di grandioso nel fatto che il papa, nel momento in cui una potenza politica e la spinta delle idee ostili, nemiche della Chiesa, minacciavano di strappargli ciò che restava del suo stato, prendesse la decisione di far sanzionare ancora una volta da un concilio ecumenico le dottrine sulle quali si è sempre fondato il papato, ed anche il suo stato in terra, tanto più che esse sono in aperta contraddizione con la posizione che oggi hanno assunto gli altri potentati terreni. La Chiesa doveva condurre un’energica opposizione non soltanto contro il regno d’Italia, e in genere contro la politica europea, che non interveniva in favore dello stato della Chiesa, ma contro il sistema delle idee moderne che hanno trasformato gli stessi stati. [...] E se ora veniva convocato un concilio era perché la Chiesa prendesse la difesa delle dottrine e degli interessi del papato e condannasse quelli opposti, per diffusi che fossero. Era un gesto di isolamento, ed insieme di ostilità; la teoria sulla quale si fonda lo stato moderno, più o meno permeato dalla rivoluzione, doveva essere scossa, e lo stato, almeno nella coscienza dei fedeli, doveva perdere le sue basi dottrinali. Nessuno doveva dire che il soglio pontificio fosse impotente. La sua potenza è smisurata, finché ha dalla sua parte la Chiesa docente, che guida centinaia di milioni di uomini vivi e pensanti» (pp. 1004-1005).
Nella discussione tra vescovi e papa, Ranke sembra addirittura schierato con il pontefice, sottolinea il suo nobile progetto, mostra la mediocrità degli interessi politici di alcuni vescovi e laici. «Che totale contrasto c’era tra le intenzioni del papa, che pensava soltanto a consolidare il suo altissimo potere conformemente alla tradizione ed a darne una nuova definizione, e quelle di un certo numero di vescovi, e dell’ambiente del laicato interessato ai problemi della Chiesa, che si proponevano di trasformare l’organizzazione ecclesiastica secondo le esigenze del secolo!»(p.1009).
È impressionante considerare che Ranke scriveva con tale rispetto delle decisioni papali quando ancora era a ridosso degli avvenimenti e mentre nella sua Prussia si scatenava una battaglia ‘di civiltà’ contro il pontefice romano. Bisognava proprio essere uno storico rigoroso per non lasciarsi impigliare nelle meschine polemiche del giorno e osservare da un punto di vista ben più distante le drammatiche vicissitudini del papato, le disavventure dell’idea universalistica, la maestosa solitudine di Pio IX.
Molti vescovi si batterono per impedire la proclamazione dell’infallibilità ex cathedra del pontefice. Le loro argomentazioni si richiamavano a motivi pratici: negli Stati Uniti solo una Chiesa liberale avrebbe fatto progressi, e poi non bisognava offendere i protestanti, gli ortodossi, le minoranze, i progressisti, gli scienziati, i politici, i moderni. Il papa non temette di turbare le cocienze moderne, si richiamò allo Spirito Santo, alle promesse fatte da Gesù in persona a Pietro, primo vescovo di Roma. Il concilio approvò, «e ciò avvenne tra i tuoni e i lampi di un temporale che si era scatenato sul Vaticano. Gli zelanti sostenitori del papato non si peritarono di rievocare il ricordo dell’annunzio della legge mosaica sul Sinai» (p.1023).
(1. continua)
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