QUESTO ALMANACCO APRE IL 2009 CON LA INONDAZIONE LUMINOSA DELL’EPIFANIA, SOVRAPPOSTA AL NOTTURNO PAGANO DELLA FESTA ROMANA. ED EPIFANIE, VISIONI ABBAGLIANTI, CI AUGURIAMO PER QUESTO ANNO CHE HA APPENA PRESO A SROTOLARSI
«I Magi scorderanno il tuo indirizzo. / Non brilleranno stelle sul tuo capo./ E solo del vento il rauco ululato / avvertirai come nei tempi andati. / Leverai l’ombra dalle spalle stanche / spegnendo la candela prima di coricarti / giacché sono più giorni che candele / quello che ci promette il calendario.// […] E fissando in silenzio il soffitto, / perché visibilmente la calza resta vuota, / capirai che tanta avarizia è solo indizio / del diventare vecchio. / È tardi ormai per credere ai prodigi./ E sollevando lo sguardo al firmamento / scoprirai sul momento che proprio tu / sei un dono sincero».
Si era pensato di inaugurare l’anno riproducendo il dialogo leopardiano del venditore di almanacchi, che scioglie in parole l’allegoria plastica dell’incontro tra la Verità e il Tempo, per ripulire il campo dalle illusioni di questi giorni, dagli auguri di circostanza, riproponendo invece alla maniera delle antologie scolastiche d’antan un utilissimo esercizio per sconfiggere le credenze progressiste, un barocco sparring per scorgere nelle immagini vincenti del contemporaneo lo scheletro che si agita dietro insulsamente; oppure, sempre da Leopardi, l’ammaestramento ai semplici in balia delle mode, alle vittime della caducità, affinché sappiano vedere quanto si somigliano Madama Morte e Madame Vogue, ma le considerazioni del poeta sono note agli italiani che frequentarono scuole decenti, basta evocarle; con altri sortilegi, più informali pur echeggiando una certa cadenza biblica, più mimetici dei nostri discorsi quotidiani, ci colgono le parole riportate all’inizio, che per prima cosa sembrano sottrarci anche l’incanto dei Magi, che ci ripetono in chiave lirica i sinistri ammonimenti dell’illuminismo: «è tardi ormai per credere ai prodigi», e intanto, scimmiottano gli apologeti dell’attualità travestiti da Qohélet, è tardi per lasciarsi prendere dalla contemplazione artistica, date e barriere storiche segnerebbero la fine di un mondo, di un modo di rappresentare, di un universo che fu mirabile. Ma basta un colpo di coda, e il poeta distrugge la falsa sapienza, la saccenteria degli intellettuali, con la semplicità dello svelamento, con un prodigio che ancora si impone: rivolti al firmamento, fissando le stelle e la stella-guida, scopriamo il dono di Natale.
L’autore era un giovane ebreo russo che, negli anni Sessanta tanto sperimentali e ridanciani nella grassa Europa dell’Ovest, veniva martoriato perché poeta clandestino, cioè non cantore di regime per mestiere, e nonostante lavorasse a tradurre da varie lingue, arrestato e processato per «parassitismo» – mentre schiere di oziosi verseggiatori dell’Occidente se la spassavano a insultare chi li manteneva nel loro stato beato –, infine minacciato di essere spedito in un Lager siberiano di lavori forzati, attraversando manicomi criminali appena ventenne, per essere infine condannato all’esilio a vita. Eppure, tra quelle bestialità dello Stato ateo, Josif Brodskij scrisse poesie che fanno onore alla nostra epoca. Quando un miserabile giudice gli chiese chi lo avesse investito del ruolo di poeta – domanda cui tutti gli scrittori occidentali risponderebbero con alterigia, parlando dell’io – Brodskij replicò: «Penso che venga da Dio».
L’«Almanacco Romano» apre dunque il suo nuovo anno, il secondo, con i versi di un poeta russo legato a Roma: «… se vedi una ninfa inseguita da un fauno, / felici entrambi più nel bronzo che nel sogno, / posson lasciare il bordone le affrante dita: / sei nell’Impero, amico». Venezia e Roma predilesse Brodskij nell’Occidente riconquistato. «Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frantume! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina».
Al centro di queste riflessioni liriche c’è il Natale «Da quando ho iniziato a scrivere versi seriamente – più o meno seriamente – ho cercato di comporre una poesia per ogni Natale, quasi fosse un augurio di compleanno». Così, in un’intervista, ricordando anche che la prima, scritta in una dacia di Komarovo nel 1962, si ispirava a un’Adorazione dei Magi vista in riproduzione su una rivista polacca e la cui iconografia lo aveva profondamente colpito: «Amavo quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo». Nella tradizione russa religiosa la nascita di Cristo e la sua Epifania coincidono. La notte del 6 gennaio nella Russia consacrata alla tradizione bizantina è quella santa di Natale, perché nel mondo dei pope vige ancora il calendario giuliano, non riconoscendo quello gregoriano introdotto a Roma nel 1582 da papa Boncompagni, che anche nei paesi luterani fu accettato solo quando giunse, giorno più giorno meno, il secolo dei Lumi. Per questo la Rivoluzione di Ottobre cadde nel nostro 7 novembre; restava a dividere l’Oriente dall’Occidente d’Europa anche quella differenza di tredici giorni, un ritardo nel calendario, un distacco incolmabile, una impossibilità di sincronia che invano i bolscevichi e i loro successori tentarono di sanare artificiosamente. Anche in questo campo, la Chiesa romana aveva stretto compromessi come nessun’altra istituzione con il novum – mentre i protestanti credettero in un ritorno all’indietro, all’evangelico dei primi giorni – testimoniando così l’incarnazione anche nella storia, facendo i conti con le leggi di gravità del creato, con la terrestrità terribile e meravigliosa. In questo giorno perciò un immenso regno cristiano celebra il Natale per fedeltà, alla lettera, alle prescrizioni bizantine, quando nella parte occidentale già si smontano i presepi.
«I Magi scorderanno il tuo indirizzo. / Non brilleranno stelle sul tuo capo./ E solo del vento il rauco ululato / avvertirai come nei tempi andati. / Leverai l’ombra dalle spalle stanche / spegnendo la candela prima di coricarti / giacché sono più giorni che candele / quello che ci promette il calendario.// […] E fissando in silenzio il soffitto, / perché visibilmente la calza resta vuota, / capirai che tanta avarizia è solo indizio / del diventare vecchio. / È tardi ormai per credere ai prodigi./ E sollevando lo sguardo al firmamento / scoprirai sul momento che proprio tu / sei un dono sincero».
Si era pensato di inaugurare l’anno riproducendo il dialogo leopardiano del venditore di almanacchi, che scioglie in parole l’allegoria plastica dell’incontro tra la Verità e il Tempo, per ripulire il campo dalle illusioni di questi giorni, dagli auguri di circostanza, riproponendo invece alla maniera delle antologie scolastiche d’antan un utilissimo esercizio per sconfiggere le credenze progressiste, un barocco sparring per scorgere nelle immagini vincenti del contemporaneo lo scheletro che si agita dietro insulsamente; oppure, sempre da Leopardi, l’ammaestramento ai semplici in balia delle mode, alle vittime della caducità, affinché sappiano vedere quanto si somigliano Madama Morte e Madame Vogue, ma le considerazioni del poeta sono note agli italiani che frequentarono scuole decenti, basta evocarle; con altri sortilegi, più informali pur echeggiando una certa cadenza biblica, più mimetici dei nostri discorsi quotidiani, ci colgono le parole riportate all’inizio, che per prima cosa sembrano sottrarci anche l’incanto dei Magi, che ci ripetono in chiave lirica i sinistri ammonimenti dell’illuminismo: «è tardi ormai per credere ai prodigi», e intanto, scimmiottano gli apologeti dell’attualità travestiti da Qohélet, è tardi per lasciarsi prendere dalla contemplazione artistica, date e barriere storiche segnerebbero la fine di un mondo, di un modo di rappresentare, di un universo che fu mirabile. Ma basta un colpo di coda, e il poeta distrugge la falsa sapienza, la saccenteria degli intellettuali, con la semplicità dello svelamento, con un prodigio che ancora si impone: rivolti al firmamento, fissando le stelle e la stella-guida, scopriamo il dono di Natale.
L’autore era un giovane ebreo russo che, negli anni Sessanta tanto sperimentali e ridanciani nella grassa Europa dell’Ovest, veniva martoriato perché poeta clandestino, cioè non cantore di regime per mestiere, e nonostante lavorasse a tradurre da varie lingue, arrestato e processato per «parassitismo» – mentre schiere di oziosi verseggiatori dell’Occidente se la spassavano a insultare chi li manteneva nel loro stato beato –, infine minacciato di essere spedito in un Lager siberiano di lavori forzati, attraversando manicomi criminali appena ventenne, per essere infine condannato all’esilio a vita. Eppure, tra quelle bestialità dello Stato ateo, Josif Brodskij scrisse poesie che fanno onore alla nostra epoca. Quando un miserabile giudice gli chiese chi lo avesse investito del ruolo di poeta – domanda cui tutti gli scrittori occidentali risponderebbero con alterigia, parlando dell’io – Brodskij replicò: «Penso che venga da Dio».
L’«Almanacco Romano» apre dunque il suo nuovo anno, il secondo, con i versi di un poeta russo legato a Roma: «… se vedi una ninfa inseguita da un fauno, / felici entrambi più nel bronzo che nel sogno, / posson lasciare il bordone le affrante dita: / sei nell’Impero, amico». Venezia e Roma predilesse Brodskij nell’Occidente riconquistato. «Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come / può soltanto sognare un frantume! Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina».
Al centro di queste riflessioni liriche c’è il Natale «Da quando ho iniziato a scrivere versi seriamente – più o meno seriamente – ho cercato di comporre una poesia per ogni Natale, quasi fosse un augurio di compleanno». Così, in un’intervista, ricordando anche che la prima, scritta in una dacia di Komarovo nel 1962, si ispirava a un’Adorazione dei Magi vista in riproduzione su una rivista polacca e la cui iconografia lo aveva profondamente colpito: «Amavo quella concentrazione di ogni cosa in un solo luogo». Nella tradizione russa religiosa la nascita di Cristo e la sua Epifania coincidono. La notte del 6 gennaio nella Russia consacrata alla tradizione bizantina è quella santa di Natale, perché nel mondo dei pope vige ancora il calendario giuliano, non riconoscendo quello gregoriano introdotto a Roma nel 1582 da papa Boncompagni, che anche nei paesi luterani fu accettato solo quando giunse, giorno più giorno meno, il secolo dei Lumi. Per questo la Rivoluzione di Ottobre cadde nel nostro 7 novembre; restava a dividere l’Oriente dall’Occidente d’Europa anche quella differenza di tredici giorni, un ritardo nel calendario, un distacco incolmabile, una impossibilità di sincronia che invano i bolscevichi e i loro successori tentarono di sanare artificiosamente. Anche in questo campo, la Chiesa romana aveva stretto compromessi come nessun’altra istituzione con il novum – mentre i protestanti credettero in un ritorno all’indietro, all’evangelico dei primi giorni – testimoniando così l’incarnazione anche nella storia, facendo i conti con le leggi di gravità del creato, con la terrestrità terribile e meravigliosa. In questo giorno perciò un immenso regno cristiano celebra il Natale per fedeltà, alla lettera, alle prescrizioni bizantine, quando nella parte occidentale già si smontano i presepi.
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Le «ore sono addebitate e numerate», il calendario liturgico scandisce il tempo con un rigore unico. E il cattolicesimo apre il calendario solare con la festa della circoncisione di Cristo. Chi avesse pensieri scontati sull’antigiudaismo cristiano dovrebbe riflettere su una tale ricorrenza. Nonostante le parole di Paolo che mettono da parte i precetti mosaici, a cominciare dal segno fondamentale dei maschi ebrei, è il Gesù circonciso, ebreo di Nazaret, che si pone a capo dell’anno. Il messia cristiano ha nel corpo le stigmate dell’antico patto che Dio strinse con Abramo.
La Dodicesima Notte, quella appunto dell'Epifania, è soltanto un titolo shakespeariano, senza altri riferimenti nella trama della commedia alla festa che chiude i giorni del Natale, ma assicurano gli anglisti che il sommo drammaturgo avrebbe qui riecheggiato un’opera senese del primo Cinquecento, Gli ingannati, dove si legge nel proemio «la notte di beffana, le sorti vostre...», ovvero una atmosfera giocosa, la commedia degli inganni, la comédie humaine, le sorti, il purim, responso e fortuna, etimologicamente i legami che tengono insieme in un destino: di questo parlano le feste del passaggio dell’anno, che suscitano la liturgia laica più sontuosa, una traduzione dal sacro che, nonostante la metamorfosi in celebrazione delle merci, riesce qua e là a commuovere.
L’Epifania si sottrae alle peggiori volgarizzazioni, più dimenticata perché più intraducibile, resta carica di mistero. I pellegrini regali che seguono la cometa, la scena che colpì Brodskij per la «concentrazione in un solo punto», l’iconografia rielaborata sontuosamente dai nostri pittori umanisti, i cortei interminabili vivificati dall’oro nelle mirabilia di Benozzo Gozzoli o di Gentile da Fabriano, non è soltanto nostalgia dell’infanzia. Una moltitudine che si snoda in sentieri dalle curve a gomito per marcare gli abbozzi della prospettiva, guidati da filosofi, maghi e re - Platone sorride compiaciuto tra le quinte -, seguiti da eserciti di guerrieri e cortigiani, dal brillio di armature e lance sopra le teste, da cavalli ben bardati ma anche da elefanti e cammelli, con accompagnamento di servi e di donne, di scimmiette e di uccelli rari, di personaggi misteriosi, di volti pensosi per scienza e sapienza, di turbanti, corone, barbe bianche, di ricchezze trasportate dai carri, di pissidi con essenze segrete, di doni per la vita di un bambino segnato dalle profezie messianiche: tutto sembra convergere in quella culla. Sorvolata da uno stuolo di angeli, avanza una processione proveniente da un Oriente generico, approdata ai porti di Venezia e poi di Napoli, ma che si inoltra per monti e valli sino nella Firenze di Botticelli, di Ghirlandaio o di Lorenzo Ghiberti e nella Siena di Duccio (con gli struggenti due re giovani e pensierosi), o per strettoie appenniniche negli incantevoli luoghi marchigiani e umbri che saranno messi in scena da Pinturicchio (né in simile accenno alla pittura italiana si può evitare di scrivere almeno i nomi di altri massimi registi della regale sfilata: Giotto, Masaccio, il Beato Angelico, Mantegna, Leonardo da Vinci, e dell’italianizzato Rubens, tralasciandone per forza un esercito). Si fa quindi caravanserraglio dei sultani tunisini in visita a Napoli, origine dei tumultuosi presepi settecenteschi partenopei poi popolarizzati a San Gregorio Armeno, cortei che somigliano a quelli di Dioniso tanto sono musicali (cimbali, tamburi e tamburelli, trombe e zampogne), impertinenti, pastorali e regali al contempo, ma conducono a un luogo di salvezza dalla bestiale violenza bacchica. Ecco insomma che si mette in scena la più bella adunanza dell’umanità, senza idealizzazione alcuna, la rappresentazione di tutte le stirpi del mondo prima che i philosophes prendessero a sottilizzare sulle razze, privandole di quel comune epiteto di cristiani e riempiendole di scienza nuova e minacciosa che già sul finire del Settecento misurava i crani per distinguere.
I Magi, carichi del sapere religioso dell’antichità, vengono a controllare l’evento che annuncia la fine di tutte le religioni apparse su questa terra, la novità autentica che il cristianesimo pretende essere. Assistono, contemplano, e noi altrettanto con i loro occhi, con il loro autorevolissimo sguardo. Epifanie, visioni abbaglianti per i giorni che promette l’anno nuovo: è l’augurio che ci facciamo reciprocamente noi iconofili, visionari per bisogno di immagini su pareti o su altro supporto, onde non finire visionari in politica, in astrazioni, in ideologie romantiche e sempre ingenue.
La Dodicesima Notte, quella appunto dell'Epifania, è soltanto un titolo shakespeariano, senza altri riferimenti nella trama della commedia alla festa che chiude i giorni del Natale, ma assicurano gli anglisti che il sommo drammaturgo avrebbe qui riecheggiato un’opera senese del primo Cinquecento, Gli ingannati, dove si legge nel proemio «la notte di beffana, le sorti vostre...», ovvero una atmosfera giocosa, la commedia degli inganni, la comédie humaine, le sorti, il purim, responso e fortuna, etimologicamente i legami che tengono insieme in un destino: di questo parlano le feste del passaggio dell’anno, che suscitano la liturgia laica più sontuosa, una traduzione dal sacro che, nonostante la metamorfosi in celebrazione delle merci, riesce qua e là a commuovere.
L’Epifania si sottrae alle peggiori volgarizzazioni, più dimenticata perché più intraducibile, resta carica di mistero. I pellegrini regali che seguono la cometa, la scena che colpì Brodskij per la «concentrazione in un solo punto», l’iconografia rielaborata sontuosamente dai nostri pittori umanisti, i cortei interminabili vivificati dall’oro nelle mirabilia di Benozzo Gozzoli o di Gentile da Fabriano, non è soltanto nostalgia dell’infanzia. Una moltitudine che si snoda in sentieri dalle curve a gomito per marcare gli abbozzi della prospettiva, guidati da filosofi, maghi e re - Platone sorride compiaciuto tra le quinte -, seguiti da eserciti di guerrieri e cortigiani, dal brillio di armature e lance sopra le teste, da cavalli ben bardati ma anche da elefanti e cammelli, con accompagnamento di servi e di donne, di scimmiette e di uccelli rari, di personaggi misteriosi, di volti pensosi per scienza e sapienza, di turbanti, corone, barbe bianche, di ricchezze trasportate dai carri, di pissidi con essenze segrete, di doni per la vita di un bambino segnato dalle profezie messianiche: tutto sembra convergere in quella culla. Sorvolata da uno stuolo di angeli, avanza una processione proveniente da un Oriente generico, approdata ai porti di Venezia e poi di Napoli, ma che si inoltra per monti e valli sino nella Firenze di Botticelli, di Ghirlandaio o di Lorenzo Ghiberti e nella Siena di Duccio (con gli struggenti due re giovani e pensierosi), o per strettoie appenniniche negli incantevoli luoghi marchigiani e umbri che saranno messi in scena da Pinturicchio (né in simile accenno alla pittura italiana si può evitare di scrivere almeno i nomi di altri massimi registi della regale sfilata: Giotto, Masaccio, il Beato Angelico, Mantegna, Leonardo da Vinci, e dell’italianizzato Rubens, tralasciandone per forza un esercito). Si fa quindi caravanserraglio dei sultani tunisini in visita a Napoli, origine dei tumultuosi presepi settecenteschi partenopei poi popolarizzati a San Gregorio Armeno, cortei che somigliano a quelli di Dioniso tanto sono musicali (cimbali, tamburi e tamburelli, trombe e zampogne), impertinenti, pastorali e regali al contempo, ma conducono a un luogo di salvezza dalla bestiale violenza bacchica. Ecco insomma che si mette in scena la più bella adunanza dell’umanità, senza idealizzazione alcuna, la rappresentazione di tutte le stirpi del mondo prima che i philosophes prendessero a sottilizzare sulle razze, privandole di quel comune epiteto di cristiani e riempiendole di scienza nuova e minacciosa che già sul finire del Settecento misurava i crani per distinguere.
I Magi, carichi del sapere religioso dell’antichità, vengono a controllare l’evento che annuncia la fine di tutte le religioni apparse su questa terra, la novità autentica che il cristianesimo pretende essere. Assistono, contemplano, e noi altrettanto con i loro occhi, con il loro autorevolissimo sguardo. Epifanie, visioni abbaglianti per i giorni che promette l’anno nuovo: è l’augurio che ci facciamo reciprocamente noi iconofili, visionari per bisogno di immagini su pareti o su altro supporto, onde non finire visionari in politica, in astrazioni, in ideologie romantiche e sempre ingenue.
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