LA RIUNIONE NOTTURNA PER ASCOLTARE IL RACCONTO DELLA GRANDE FUGA ORGANIZZATA DA MOSÈ E BENEDETTA DA DIO, RIPARTENDO DAGLI ERRORI DI ADAMO E DI EVA, DALLA FELIX CULPA, DALLE PROMESSE AD ABRAMO, FINO AD APPRODARE ALL’ECUMENISMO CON LE GENTI PAGANE
Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblichiamo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa, del 2005, è la seconda parte di una lettera inviata negli Stati Uniti per raccontare la Settimana Santa a Roma e dintorni. La prima è uscita venerdì 10 Aprile, con il titolo «Nei giorni delle immagini velate».
Visto il potere evocativo oltreatlantico della Settimana santa a Roma, concludo il ‘triduum mortis’ –com’era chiamato – con la Veglia pasquale. Pio XII modificò una secolare liturgia per riportarla a più antica coerenza: le campane non risuoneranno più la mattina del Sabato santo, i preti non benediranno più le case simultaneamente, nel pomeriggio dello stesso sabato, con le tavole già imbandite di uova e di agnelli, di salato e dolce: nel 1956, se ricordo bene l’anno, si tornava al millenario rito notturno, alla notte santa, pendant di quella natalizia, eredità della biblica notte santa per eccellenza, quella in cui l’angelo passò per le case degli ebrei e segnò col sangue lo stipite delle porte affinché i figli primogeniti dei discendenti di Abramo fossero risparmiati dal grande castigo e tutto il popolo di Israele uscisse liberato. Così la riunione notturna riprese le movenze clandestine degli ebrei in Egitto e quelle altrettanto nascoste dei primi cristiani che provavano anche loro a raccontarsi davanti a tutta la comunità la storia di Pesach, andando più indietro della grande fuga organizzata da Mosè e benedetta da Dio, ripartendo dagli errori di Adamo e di Eva, dalla felix culpa, dalle promesse ad Abramo, dai felici equivoci, dalle felici digressioni del popolo ebraico fino ad approdare all’ecumenismo con le genti pagane. Narrazione che si snoda non nell’intimità della famiglia intorno alla tavola, con i bambini che leggono la sacra scrittura e interrogano gli adulti, ma coram populo, proprio come si celebrava Pesach tra gli ebrei fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme.
In una notte ventosa di una bassissima Pasqua marzolina, la chiesa cattedrale di Terracina si presta al ricordo di cerimonie sotterranee e segrete delle origini cristiane. Città di liberti e di divinità straniere e popolari contrapposte all’olimpo ufficiale latino, porto dell’Impero in concorrenza con Ostia, che ostenta ancor oggi – restituito dalle bombe americane – un Foro dalla perfetta pavimentazione marmorea, costeggiato dalla Via Appia che gli corre accanto con il marciapiede assolutamente integro, segnando l’esatta metà del percorso che unisce l’Urbe a Napoli, l’Occidente e l’Oriente, i Romani e i Greci, e con il Capitolium che già nella decadenza imperiale sembra fosse occupato dagli ebrei che vi istallavano i loro banchi di commercio, e l’Appia che conduceva all’imbarco per la Giudea, strada che portò gli apostolici ebrei nella capitale imperiale… Dunque, questo Foro fu attraversato sicuramente da Pietro e Paolo diretti a Roma, molto prima che Goethe lo percorresse all’incontrario, eccitato dai profumi del Sud.
Nel Foro, dove prima si innalzava un tempio forse dedicato a Giove e ad Anxur, divinità dei Volsci che i Romani fondevano con la loro (educando il cattolicesimo a quel metodo dell’et et che si contrapporrà sempre all’etica luterana e poi kierkegaardiana dell’aut aut), nell’epoca romanica si innalzò un tempio cristiano dedicato ai martiri del luogo, architettura dalle mirabilia cosmatesche e dalle testimonianze commoventi di esoterici simboli per dire la religione nuova, con incisi i segni zodiacali per magie ancora benedette e sculture che confermano le parole vibranti di Novalis sulla funzione civilizzatrice del cristianesimo in Europa.
Sul lucido marmo bimillenario, alle undici di notte, degli uomini sistemavano un tripode. Dall’altra parte dell’immenso spazio c’ero soltanto io. Fino a poco prima la chiesa era sbarrata, poi questi tre paesani che accendevano la legna nel braciere, senza nessuno intorno, come si fossero scordati qui della Pasqua cristiana, l’oscuro borgo appariva deserto e chiuso nel sonno, mentre nella città bassa scorrevano fiumi di auto, e ristoranti e discoteche erano in festa. Invece, in breve tempo, dagli archi ogivali avanza una piccola folla, spuntano perfino delle suore, dalla cattedrale escono chierici e sacerdoti. Intorno al fuoco il celebrante parla con una cadenza burina, quasi fosse una lingua volgare appena partorita dal latino. La liturgia approssimativa rende complicata l’accensione del cero pasquale: il fuoco, sistemato lontano dalla scalinata della chiesa e dal suo porticato, è troppo esposto ai venti che salgono dal mare, lo stoppino del simbolico candelone di pura cera d’api – che sta al posto di Gesù risorto – , non appuntito bene, continua a spegnersi. Eppure quell’affannarsi di preti ed ex contadini intorno al fuoco appena benedetto e al cero, enfatizza il carattere di cerimonia solenne quanto segreta e lontana dai fasti imperiali come dovette essere la Veglia dei primi secoli. Rito cui partecipavano i catecumeni che per la prima volta ascoltavano le letture dei libri ebraici e il racconto zoppicante della resurrezione, sentendo parlare delle promesse inaudite sulla sconfitta della morte. Lumen Christi continua a ripetere il sacerdote, ma la fiamma del cero agonizza e non permette ai fedeli di accendere a loro volta le candeline che tutti stringono in mano. I bambini si divertono del contrattempo, i grandi una volta si sarebbero spaventati per i cattivi presagi, adesso non ci fanno troppo caso. In quell’ora solenne in cui viene consacrato il fuoco e l’acqua lustrale con la quale battezzare e benedire per tutto l’anno, la tradizione contadina in Toscana e in Emilia voleva che i più piccoli si passassero sugli occhi dell’acqua santa per garantirsi la vista anche in vecchiaia o al suono delle campane sciolte dal lutto facessero i loro primi passi… Lumen Christi, e finalmente il cero accende un centinaio di fiammelle del popolo di Dio, si entra nella chiesa romanica completamente al buio e i marmi dei cosmateschi si accendono dei bagliori sommessi delle candele tremolanti nelle mani dei fedeli in processione per la navata. Il soffitto baroccheggiante, gli ornamenti settecenteschi scompaiono senza i riflettori elettrici, la luce delle candele non va oltre l’altezza romanica, ecco una visione fuori dal tempo. Un popolo di contadini e di pescatori riempie interamente l’antichissimo tempio e ascolta le letture bibliche della notte più importante dell’anno (secondo le indicazioni dei padri della Chiesa). Non c’è l’aurea corazza del latino né dunque l’intonazione tradizionale che trasformava le parole, sono anzi uomini e donne che, al posto del diacono, leggono con i loro accenti ciociari e napoletani gli episodi più avvincenti della Bibbia. E tutti ascoltano, intorno ad altari e baldacchini dei primi secoli cristiani. Una volta tanto anche il rituale modernizzato resta impigliato nei modi tradizionali di questo ambiente. Vengono alla mente le rozze statue del primo medioevo ispirate alla Genesi, gli adamo e eva di Wiligelmo, gli abramo pronti a sacrificare il figlio che ancora non hanno ricevuto il fiat divino di Nicola e Giovanni Pisano, i due pugliesi che rianimano l’arte scultorea dell’Occidente…
Penso allora (e adesso ricopio) alle parole, lette in treno, di Hans Urs von Balthasar, teologo della Bellezza, ancorato alla Bellezza nell’epoca antiestetica del Concilio Vaticano II:
«Religione è mondo che prende la direzione di Dio; cristianesimo è Dio che prende la direzione del mondo, e uomini che, credendo in lui, seguono la sua direzione. Cattolicesimo è quel cristianesimo che fa percorrere in totale serietà al Dio intero questa direzione sino all’amara e al fondo beata fine. In questo radicalismo gli altri cristianesimi finiscono col cadere nell’angoscia; si fermano, si inchiodano in qualche punto: nel religioso-sacrale (chiese orientali) o in un miscuglio di spiritualismo (che preferibilmente resta librato sulla materia) e secolarismo (che si oppone alla santificazione definitiva della materia da parte di Dio, come fanno le chiese della Riforma). Sono i malati, dice Gesù, ad aver bisogno del medico; ma ecco che se non è pudibondo il malato, capita che lo sia il medico.
Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblichiamo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa, del 2005, è la seconda parte di una lettera inviata negli Stati Uniti per raccontare la Settimana Santa a Roma e dintorni. La prima è uscita venerdì 10 Aprile, con il titolo «Nei giorni delle immagini velate».
Visto il potere evocativo oltreatlantico della Settimana santa a Roma, concludo il ‘triduum mortis’ –com’era chiamato – con la Veglia pasquale. Pio XII modificò una secolare liturgia per riportarla a più antica coerenza: le campane non risuoneranno più la mattina del Sabato santo, i preti non benediranno più le case simultaneamente, nel pomeriggio dello stesso sabato, con le tavole già imbandite di uova e di agnelli, di salato e dolce: nel 1956, se ricordo bene l’anno, si tornava al millenario rito notturno, alla notte santa, pendant di quella natalizia, eredità della biblica notte santa per eccellenza, quella in cui l’angelo passò per le case degli ebrei e segnò col sangue lo stipite delle porte affinché i figli primogeniti dei discendenti di Abramo fossero risparmiati dal grande castigo e tutto il popolo di Israele uscisse liberato. Così la riunione notturna riprese le movenze clandestine degli ebrei in Egitto e quelle altrettanto nascoste dei primi cristiani che provavano anche loro a raccontarsi davanti a tutta la comunità la storia di Pesach, andando più indietro della grande fuga organizzata da Mosè e benedetta da Dio, ripartendo dagli errori di Adamo e di Eva, dalla felix culpa, dalle promesse ad Abramo, dai felici equivoci, dalle felici digressioni del popolo ebraico fino ad approdare all’ecumenismo con le genti pagane. Narrazione che si snoda non nell’intimità della famiglia intorno alla tavola, con i bambini che leggono la sacra scrittura e interrogano gli adulti, ma coram populo, proprio come si celebrava Pesach tra gli ebrei fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme.
In una notte ventosa di una bassissima Pasqua marzolina, la chiesa cattedrale di Terracina si presta al ricordo di cerimonie sotterranee e segrete delle origini cristiane. Città di liberti e di divinità straniere e popolari contrapposte all’olimpo ufficiale latino, porto dell’Impero in concorrenza con Ostia, che ostenta ancor oggi – restituito dalle bombe americane – un Foro dalla perfetta pavimentazione marmorea, costeggiato dalla Via Appia che gli corre accanto con il marciapiede assolutamente integro, segnando l’esatta metà del percorso che unisce l’Urbe a Napoli, l’Occidente e l’Oriente, i Romani e i Greci, e con il Capitolium che già nella decadenza imperiale sembra fosse occupato dagli ebrei che vi istallavano i loro banchi di commercio, e l’Appia che conduceva all’imbarco per la Giudea, strada che portò gli apostolici ebrei nella capitale imperiale… Dunque, questo Foro fu attraversato sicuramente da Pietro e Paolo diretti a Roma, molto prima che Goethe lo percorresse all’incontrario, eccitato dai profumi del Sud.
Nel Foro, dove prima si innalzava un tempio forse dedicato a Giove e ad Anxur, divinità dei Volsci che i Romani fondevano con la loro (educando il cattolicesimo a quel metodo dell’et et che si contrapporrà sempre all’etica luterana e poi kierkegaardiana dell’aut aut), nell’epoca romanica si innalzò un tempio cristiano dedicato ai martiri del luogo, architettura dalle mirabilia cosmatesche e dalle testimonianze commoventi di esoterici simboli per dire la religione nuova, con incisi i segni zodiacali per magie ancora benedette e sculture che confermano le parole vibranti di Novalis sulla funzione civilizzatrice del cristianesimo in Europa.
Sul lucido marmo bimillenario, alle undici di notte, degli uomini sistemavano un tripode. Dall’altra parte dell’immenso spazio c’ero soltanto io. Fino a poco prima la chiesa era sbarrata, poi questi tre paesani che accendevano la legna nel braciere, senza nessuno intorno, come si fossero scordati qui della Pasqua cristiana, l’oscuro borgo appariva deserto e chiuso nel sonno, mentre nella città bassa scorrevano fiumi di auto, e ristoranti e discoteche erano in festa. Invece, in breve tempo, dagli archi ogivali avanza una piccola folla, spuntano perfino delle suore, dalla cattedrale escono chierici e sacerdoti. Intorno al fuoco il celebrante parla con una cadenza burina, quasi fosse una lingua volgare appena partorita dal latino. La liturgia approssimativa rende complicata l’accensione del cero pasquale: il fuoco, sistemato lontano dalla scalinata della chiesa e dal suo porticato, è troppo esposto ai venti che salgono dal mare, lo stoppino del simbolico candelone di pura cera d’api – che sta al posto di Gesù risorto – , non appuntito bene, continua a spegnersi. Eppure quell’affannarsi di preti ed ex contadini intorno al fuoco appena benedetto e al cero, enfatizza il carattere di cerimonia solenne quanto segreta e lontana dai fasti imperiali come dovette essere la Veglia dei primi secoli. Rito cui partecipavano i catecumeni che per la prima volta ascoltavano le letture dei libri ebraici e il racconto zoppicante della resurrezione, sentendo parlare delle promesse inaudite sulla sconfitta della morte. Lumen Christi continua a ripetere il sacerdote, ma la fiamma del cero agonizza e non permette ai fedeli di accendere a loro volta le candeline che tutti stringono in mano. I bambini si divertono del contrattempo, i grandi una volta si sarebbero spaventati per i cattivi presagi, adesso non ci fanno troppo caso. In quell’ora solenne in cui viene consacrato il fuoco e l’acqua lustrale con la quale battezzare e benedire per tutto l’anno, la tradizione contadina in Toscana e in Emilia voleva che i più piccoli si passassero sugli occhi dell’acqua santa per garantirsi la vista anche in vecchiaia o al suono delle campane sciolte dal lutto facessero i loro primi passi… Lumen Christi, e finalmente il cero accende un centinaio di fiammelle del popolo di Dio, si entra nella chiesa romanica completamente al buio e i marmi dei cosmateschi si accendono dei bagliori sommessi delle candele tremolanti nelle mani dei fedeli in processione per la navata. Il soffitto baroccheggiante, gli ornamenti settecenteschi scompaiono senza i riflettori elettrici, la luce delle candele non va oltre l’altezza romanica, ecco una visione fuori dal tempo. Un popolo di contadini e di pescatori riempie interamente l’antichissimo tempio e ascolta le letture bibliche della notte più importante dell’anno (secondo le indicazioni dei padri della Chiesa). Non c’è l’aurea corazza del latino né dunque l’intonazione tradizionale che trasformava le parole, sono anzi uomini e donne che, al posto del diacono, leggono con i loro accenti ciociari e napoletani gli episodi più avvincenti della Bibbia. E tutti ascoltano, intorno ad altari e baldacchini dei primi secoli cristiani. Una volta tanto anche il rituale modernizzato resta impigliato nei modi tradizionali di questo ambiente. Vengono alla mente le rozze statue del primo medioevo ispirate alla Genesi, gli adamo e eva di Wiligelmo, gli abramo pronti a sacrificare il figlio che ancora non hanno ricevuto il fiat divino di Nicola e Giovanni Pisano, i due pugliesi che rianimano l’arte scultorea dell’Occidente…
Penso allora (e adesso ricopio) alle parole, lette in treno, di Hans Urs von Balthasar, teologo della Bellezza, ancorato alla Bellezza nell’epoca antiestetica del Concilio Vaticano II:
«Religione è mondo che prende la direzione di Dio; cristianesimo è Dio che prende la direzione del mondo, e uomini che, credendo in lui, seguono la sua direzione. Cattolicesimo è quel cristianesimo che fa percorrere in totale serietà al Dio intero questa direzione sino all’amara e al fondo beata fine. In questo radicalismo gli altri cristianesimi finiscono col cadere nell’angoscia; si fermano, si inchiodano in qualche punto: nel religioso-sacrale (chiese orientali) o in un miscuglio di spiritualismo (che preferibilmente resta librato sulla materia) e secolarismo (che si oppone alla santificazione definitiva della materia da parte di Dio, come fanno le chiese della Riforma). Sono i malati, dice Gesù, ad aver bisogno del medico; ma ecco che se non è pudibondo il malato, capita che lo sia il medico.
Gli altri cristianesimi si vergognano per Dio, di questo Dio che si impegola così a fondo con il fango di Adamo, sporcandovisi per così dire le mani. Tante cose si lasciano come sono, le si rimette alla coscienza e alla discrezione del singolo, che deve ‘assoggettare’ se stesso ‘alla Parola’, la quale il più delle volte non si perde nel dare regolamenti particolari e concreti; avviene allora, per lo più, che la parola decisiva la dica lo Zeitgeist, il quale considera le cose dal punto di vista della secolarità. Ha davvero la chiesa il dovere di impelagarsi nelle questioni della sessualità endo- ed estramatrimoniale? […] A confronto della altre etiche cristiane, quella cattolica fa spesso la figura di essere tanto casistica e minuziosa e gretta, e la dogmatica cattolica sembra così materialistica!
[…] Ma dietro gli abusi si nasconde spesso una buona usanza, che si distingue per un modo religiosamente rispettoso di trattare anche quella materia di cui l’uomo è plasmato e con cui ha a che fare continuamente, di trattare cioè i profondi, delicatissimi, spesso umilianti misteri della corporeità umana che tali sono per la loro inscindibilità dalla Spirito…» (da Katholisch, 1975). Il mistero della corporeità strettamente legato al mistero della resurrezione.
Con queste parole del teologo elvetico ti auguro la mia Buona Pasqua.
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