venerdì 5 giugno 2009

La Biennale dei vinti

«ARGOMENTO INSOLITO, ONOREVOLI COLLEGHI…», COSÌ ESORDIVA NELLA SUA INTERPELLANZA DEL 1949 L’ARCHITETTO FLORESTANO DI FAUSTO, DENUNCIANDO IN PARLAMENTO LA PRIMA BIENNALE VENEZIANA DEL DOPOGUERRA, QUANDO ANCHE L’ITALIA ABBANDONAVA LA SUA TRADIZIONE E SI ALLINEAVA ALLE MODE DEL NULLA
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Si inaugura a Venezia un’altra Biennale senza arte, con affollamenti di ‘artisti’ programmaticamente senza arte, benché si alternino come selezionatori funzionari di sinistra e di destra, a seconda dei governi in carica. Labili confini, giochino delle parti, la sostanza nichilista resta. E così, mentre l’ex presidente della Camera nonché rifondatore del comunismo ci informa in un libro che lui stesso è preso ormai dal terrore che la sinistra abbia perso qualsiasi senso all’alba del Terzo millennio, chi sta a destra soggiace alla egemonia culturale della parte avversa, ne rispetta i riti e i miti, al massimo li italianizza (contrapponendo i futuristi ai dadaisti, le avanguardie tricolori a quelle cosmopolite, non accorgendosi che son tutti morti, feticci di un altro mondo), crede comunque alla superstizione progressista che le immagini siano alfine superate dai segni. Il culto conformista dell’insensato è infatti ormai comune ai due schieramenti (lo scontro è confinato ai pettegolezzi servili). Due Biennali fa, un povero ministro cattolico, già sbeffeggiato nel Parlamento europeo perché non abbastanza à la page in materia di etica, dovette visitare istituzionalmente questo bordello per frigidi, passare in rassegna festoni di assorbenti, fellationes in video, papi collocati in scene di sodomia, wc bizzarri, (barzellette cioè ancora più sconfortanti di quelle raccontate dal giulivo presidente), «discettando della bassa qualità estetica» piuttosto che rifiutare la logica di simili feste pagate dall’erario. Nessuno insomma ha il coraggio di dire che «il re è nudo». Anzi, di fronte alla nuova paura, quella della crisi che avvinghia anche simili futilità estetiche, ci si conforta l’un l’altro. E ai corvi che allarmano le dame patronesse dicendo che nulla tornerà come prima, si reagisce da sinistra e da destra con magre consolazioni: siccome girano meno soldi in questo mondo, la qualità potrebbe salire... Perché mai, di grazia? Trattandosi di faccenda di marketing, con minori consumi si avranno peggiori prodotti. Del resto, finora il Contemporaneo si è affermato impressionando il pubblico con i discorsi degli imbonitori che a ogni riga ricordavano il valore monetario (si potrebbe scommettere anzi che non sia mai stato pubblicato un pezzo divulgativo senza menzionare quotazioni e milioni). Una credenza è stata installata nell’animo di ciascuno: che la bellezza del denaro sia l’unica categoria estetica valida. Ragion per cui, le ville patinate dei tycoons sarebbero i veri musei. E, nonostante la contrapposizione dei valori, tanto in voga in questi giorni, l’Anarchico etico lombardo e il massimo Creatore estetico a questo punto coinciderebbero.
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Un’amica ci ha donato una copia di un librino di un’altra èra, stampato dalla Tipografia della Camera, titolato Il decadimento spirituale e la crisi dell’arte contemporanea: si tratta di una insolita interpellanza parlamentare del 23 febbraio 1949 sulla prima Biennale del dopoguerra, quella che rinnegava ogni tradizione e cedeva genuflessa agli echi delle avanguardie già invecchiate, anche per imposizione dei vincitori anglo-americani, che oltre ad addestrarci alla democrazia politica sembravano prescriverci una impossibile democrazia nel bello e nel gusto (l’anno successivo non sarà un oscuro parlamentare, bensì Giorgio de Chirico, il maestro acclamato di tradizionalisti e avanguardisti, a organizzare nella sede della Società Canottieri Bucintoro un’Antibiennale). Documento curioso – sia per il livello della pubblica orazione, improbabile negli atti parlamentari del nostro tempo, sia per quello che denunciava – , è ormai del tutto scomparso dalla memoria; ci sembra perciò interessante riprodurlo su «Almanacco» come testimonianza di una stagione lontana, mentre si ripetono sempre uguali le cronache veneziane di scandaletti: siamo «nel tempo della minor originalità e della maggior caccia all’originalità» (Weininger).
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L’interpellante era Florestano di Fausto (1890-1965), architetto fecondissimo nella prima metà del Novecento, che operò nella basilica di Santa Croce a Roma (sua la Cappella delle Reliquie) e in tante città italiane, ma che dovette la fama ai principali edifici della Rodi del XX secolo, come alle chiese e alle scuole coraniche di Tripoli. Nel dopoguerra, Florestano di Fausto fu padre costituente e deputato nella I Legislatura, iscritto al gruppo della Democrazia Cristiana.
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Il suo discorso testimonia dello choc che una persona colta poteva ancora provare di fronte allo sgretolamento delle belle arti. Per lui non era scontato che la pittura dovesse esser messa da parte in un’Apocalisse senza figure. Aveva capito comunque quello che i patiti di tutte le perversioni estetiche attuali, i frequentatori di ogni mostra e i possessori di massicci cataloghi non hanno affatto chiaro: la radicale diversità dell’oggettistica contemporanea dalla pratica artistica.
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[Il testo è ripreso senza tagli, salvo nelle conclusioni, legate a propositi più effimeri.]
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Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa mia interpellanza del novembre scorso trae spunto dall’organizzazione e dalle conclusioni della Biennale veneziana. Peraltro essa investe un più vasto campo e un più grande argomento: il decadimento spirituale del nostro tempo, decadimento che trova la sua più evidente manifestazione nella crisi dell’arte contemporanea. Argomento insolito, onorevoli colleghi, ma non per questo ozioso, argomento che meriterebbe anzi un profondo esame dal duplice punto di vista: quello storico letterario, il quale spazierebbe troppo oltre i limiti di interesse di questa Assemblea, quello politico, che più profondamente attiene a questa sede per competenza di giudizio. Non si può comunque non lumeggiare il primo per una adeguata comprensione del secondo.
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Iniziando io debbo domandarmi: forse che nella sfera del sensibile, l’uomo di oggi, ha toccato i limiti estremi della sua capacità pensante se nella rapida disamina che andiamo a fare delle manifestazioni dell’arte contemporanea dobbiamo muovere dalla grave constatazione dell’abbandono del mondo del pensiero? Altro segno oscuro dei tempi questo inclinarsi della nostra civiltà a cedere sotto il peso della sua gloria e della sua storia, mentre l’opera di erudizione che il secolo XIX aveva suscitato dal passato avrebbe dovuto potenziare la difesa dei principi fondamentali e l’apporto delle mirabili scoperte scientifiche avrebbe dovuto largamente appagare l’aspirazione dell’uomo. Nulla di tutto questo. L’approfondirsi dell’indagine scientifica non ha giovato al consolidamento del pensiero in quanto «scienza e sapere accresciuti non si sono tradotti in civiltà».
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Alla base si invece assediato un febbrile ed insano desiderio del nuovo, e nella fretta e nel tormento che tiranneggiano il mondo, la vita non è più conquistata nei suoi misteri ora per ora, stagione per stagione, la vita non è più spesa come frutto di lenta e sapiente conquista, la vita è tristemente dissipata e distrutta senza domani e senza speranza proprio come di un dono non meritato o di un bene malamente acquisito. Ogni legame nello spazio e nel tempo è scomparso perché infranta è la saldatura tra il creato e l’uomo.
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I grandi spiriti e i grandi valori sono ormai lontani nell’esilio. L’umanità sembra veramente dannata alla sadica distruzione della sua gloria ed alla strage incontrollata di sé medesima.
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Nelle arti si è piegato a qualunque tendenza che fosse sovvertitrice del principio naturale di rappresentazione. Da ciò lo stato di profonda inquietudine nel dominio dello spirito, rivelatore per altro dell’assenza d’ogni sicuro potere creativo. Così in questa prima metà del secolo, fatta eccezione per l’architettura – la quale non può sconfinare nell’assurdo, dominata com’è dalle leggi della statica e della gravitazione – le altre arti hanno degenerato in eccessi sollecitati dal facile, quanto effimero successo e da quello stato di insensibilità cui conducono fatalmente gli artifici del cerebralismo e dello snobismo.
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Afferma Huizinga: «quando in un’unica civiltà che nel corso dei secoli si è innalzata a chiarezza e a nitidezza di pensiero e di concetto,il magico ed il fantastico vengono su oscurando la ragione tra fumo di istinti in ebollizione, quando il mito scaccia il logos e ne prende il posto, siamo alla soglia della barbarie».
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Mai, infatti, ora fu più propizia alle imprese equivoche e alle false teorie. La poesia, avulsa dal mondo del pensiero, si è risolta col surrealismo e l’ermetismo in uno sterile balbettio primordiale che spesso si affida a nostalgici accostamenti ritmici. La filosofia, dal relativismo sconfina ora nell’amara disperazione dell’esistenzialismo. La musica, dominata come è ancora dappertutto dai grandi geni del Settecento e dell’Ottocento non sente scosse le colonne del suo tempio, ma qualcosa già serpeggia nel profondo.
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Nelle arti figurative, l’indissolubile eterno rapporto con la natura fu intaccato dagli impressionisti che tentarono la prima evasione dal ciclo classico, decomponendo gli oggetti nella esasperazione della luce. I moderni, sviluppando quelle lontane premesse hanno continuato l’indagine spingendola a soluzione estreme materialistiche e geometrico-meccanicistiche, sempre tendenti alla violenta dissoluzione della integrità oggettiva.
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E così, gradualmente, in processo disgregativo, dall’assetto spirituale del mondo eccoci discesi alla soglia del disfacimento del mondo quale è agognato dall’Astrattismo.
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Questa più recente tendenza per l’insidia insita nell’ideologia (che gli hanno prestato per ragioni non precisamente etiche i suoi teorici) per la potenza della sua organizzazione di fazione e di setta, rappresenta con le altre manifestazioni di putredine, il Relativismo e l’Esistenzialismo, la più grave minaccia per la sorte stessa della civiltà e dell’arte.
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Per la prima volta – nella storia – un movimento insospettabile per la parvenza della sua natura artistica, in associazione con le sue più oscure e torbide forze negatrici, si leva a minacciare il Creato attraverso le sue manifestazioni!
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Alla Natura – che offre all’artista con le rivelazioni dei suoi chiusi misteri la libertà tutta propria al potere creativo – ed al Creato, del quale l’artista è come nessun altro partecipe diretto – viene lanciata la sfida blasfema. Si vuole infranta l’unità di concezione artistica nella quale figura e forma sono indissolubilmente associate. Si vuole piegare la figura alla forma fino alla distruzione di quella. Si vuole annientare insomma il mondo visibile per affacciarsi sull’invisibile, nella tragica solitudine del nulla: proposito folle che porta alle più allucinanti aberrazioni.
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Assai a proposito è stata ricordata la sedizione iconoclasta di Leone Isaurico, ed opportunamente si è fatto richiamo a quel Concilio di Nicea che dodici secoli or sono riaffermò solennemente il culto della Immagine. Ai Padri della Chiesa non poteva sfuggire il pericolo della mostruosa eresia nella quale sarebbe sconfinata necessariamente la immaginazione umana fuori del limite e del riferimento alla natura. Poiché solo nel rapporto fra la natura e l’uomo risiede la condizione essenziale alla gestazione del fatto artistico.
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Questo è il clima nel quale con oculata premeditazione, è nata la massima manifestazione internazionale, prima delle vicende belliche – la Biennale veneziana – la quale non poteva non risolversi nel più grave tradimento fatto all’arte in genere ed all’arte italiana in specie. Tanto io posso affermare con sicura coscienza, per la lunga tradizione e per la familiarità di vita col mondo dell’arte, e con gli artisti, nei quali l’umiliazione e lo sdegno rivelano, però, che non tutto è perduto.
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Mi scrive uno dei maggiori pittori italiani viventi: «È tutto un sistema di losco commercio, di tirannide del pensiero e del gusto, nelle mani di pochi collezionisti che formano un vasto trust, il quale ha propaggini in tutto il mondo con una schiera perfettamente organizzata di insigni scrittori di arte, di direttori di gallerie, ecc. .E noi in quest’Italia dove anche la casa colonica antica porta i segni di una logica millenaria e si fonde nell’architettura della terra e della legge umana e divina, accettiamo come nostro il canto triste del deserto».
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Taluno ha voluto adombrare il fattore politico della questione. Non sono d’accordo con costoro.la tendenza cerebrale snobistica ed il carattere antipopolare di queste manifestazioni hanno provocato sconfessione aperta dei partiti estremi e l’abbandono della setta stessa da parte di uomini di sicura coscienza eloquente davvero questa unanimità del mondo politico – nella riprovazione – tanto più eloquente se una parola ci venisse oggi dal Governo che smentisca certi suoi atteggiamenti al riguardo. Comunque, io mi riporto al fenomeno artistico, il quale, o è tale realmente (ed allora assorbe tutti gli altri fattori) o tale non è (ed allora il fattore politico non conta). Che poi i nostri innovatori abbiano fatto o continuino a fare il doppio giuoco, questa è cosa che riguarda loro solamente e gli incauti sovventori.
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È stato sottolineato anche il carattere internazionale a vasto raggio del fenomeno. E si spiega. Contro la unità cristiana (che compendia e conclude le grandi civiltà antiche) anche questa più recente sedizione chiama a raccolta i dissidenti. È anche naturale che le nazioni giovani, senza tradizione, lontane ed estranee alla grande storia e al clima mediterraneo cerchino – in affrettata ansia – una qualunque facile conquista nel campo intellettuale. Ma che l’Italia accolga, incoraggi ed alimenti tendenze che mirano soprattutto all’annientamento della sua tradizione millenaria – sua sola e vera ricchezza anche concreta – è quanto di più assurdo, di più impolitico, di più suicida si possa fare in un momento in cui tutto concorre – e in tutti i settori – ai danni dell’Italia e del suo primato spirituale!
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Una politica dell’Arte dunque? Nel senso letterale e volgare della parola – no – assolutamente. Toppo alto è il dominio dell’arte e troppo misteriose le sue vie e così vasto il suo ciclo in confronto di quello dei regimi politici, che nessun parallelismo e nessuna interdipendenza può essere stabilita. Chiediamo però con il rispetto che si deve alle supreme manifestazioni dell’intelletto, la necessaria tutela perché il mistero artistico sia veramente intangibile nella sua libera espressione, esigendo dalla democrazia, e da quella cristiana particolarmente, che non si realizzi come invece avviene, alla sua ombra, ed a spese di tutti, una politica faziosa contro l’arte, attraverso sovvenzioni e premi governativi che consacrano, tra l’altro, un riconoscimento ufficiale.
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Non farò nomi ma le elucubrazioni abortive – grottesca e crudele espressione dei nostri tempi – incoronate dai grandi premi a Venezia, indicono ad umilianti conclusioni.
Debbo anche un cenno a quella specie di baraccone dei fenomeni che a Venezia accoglieva la collezione di una eccentrica signora americana – sconcia raccolta – che, per essere esibita in questa massima fra le assise dell’arte, è stata imballata, assicurata e spedita «via aerea» a spese di questa povera Italia che deve assistere al decadimento dei suoi mirabili affreschi e delle sue gallerie per insufficienza di mezzi.
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Onorevoli colleghi! Benché l’arte si estrinsechi in modi innumerevoli la via della bellezza – come quella della verità – è una solamente: o è quella tracciata da secoli di civiltà, inconfondibile; o è quella additata dalle più recenti follie che, dagli equivoci caffé di Montparnasse sono dislocate col malcostume in Italia, dilagando in inconcludenti polemiche letterarie che presumono di sostituire la «parola» all’«opera», riflettendo la tragica carenza spirituale di questi tempi manifesta già nel concludersi negativo di troppe effimere esperienze artistiche che il moto dissolvente della guerra ha accelerato. Concludersi negativo, senza appello, come indicava la logica, quando con la formula della «evasione» gli intellettuali senza pace e gli artisti senza fantasia avevano creduto di sottrarci agevolmente dal concetto di limite per giungere al dissolvimento della personalità e della individualità, in quanto essenziali alla creazione artistica. Nella collettività anonima sarà agevolata l’impostazione tirannica dell’assurdo e del crimine.
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È proprio il clima nel quale si può impunemente affermare che «non è positivo creare ma positivo è distruggere», asserzione sanguinante ed inaudita dopo la esperienza di dolore e di pianto sofferta. È il clima nel quale – alludendo alle grandi epoche – si parla di «superamento di una screditata nozione per una più certa e vivente realtà» da ricercare coi metodi di queste scellerate ideologie nichiliste, le quali esasperano già il movimento dissolvitore di quella civiltà, nella quale l’uomo è al centro del Creato, immagine riflessa del Creatore.
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Ma intanto? Nella babele si levano voci di soccorso e di luce. Un gruppo di artisti triestini mi scrive: «in una riunione di amore verso l’Italia abbiamo commentato il tormentoso vagare dell’artista nella ricerca del vero»; e chiede «che una parola sgorga e si divulghi dal massimo consesso d’Italia e che sia fonte di sano sviluppo dell’arte». Da questo massimo consesso noi dovremmo onestamente ammonire che una nuova, più perniciosa ideologia è entrata – per le insospettate vie dell’arte – ad alimentare la già aspra lotta delle opposte ideologie politiche, che straziano il Paese, sbarrando il cammino alla ricostruzione.
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La responsabilità di questo stato di anarchia, nel dominio dell’arte, si perdono nel labirinto burocratico, per quella deprecata mancanza di un organismo unitario, coordinatore e graduatore dei vari interessi, al quale ho fatto cenno troppe volte, per tornare inutilmente sull’argomento.
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Intanto, con le arti figurative, vanno anche alla deriva il teatro, la musica, il cinema ed il turismo. Gravi, quindi, le responsabilità di governo per le mancate riforme strutturali che imponevano anche l’eccezionale situazione del dopo guerra.
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E mi avvio a concludere […]. Gli aspetti costruttivi e sereni della vita umana nelle manifestazioni del lavoro, della gioia e del dolore, gli aspetti mutevoli e festevoli della natura si riveleranno nuovamente ancora all’artista attraverso alla riconquistata gioia del colore e della forma – forse, chissà, in un nuovo grande «umanesimo cristiano e sociale». Riaffermata insomma la ferma fedeltà alle nostre origini, alla nostra tradizione ed alla nostra civiltà, noi avremo riavviata fra la terra e il cielo quella operante comunione nella quale l’umano e il divino si integrano in prodigiosa armonia.
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E l’arte, rientrata nella grande via solare mediterranea che passa per Atene e per Roma, riprenderà la sua sacra ed eterna missione, quella di rispondere, come essa solamente può, alla angosciosa ed insopprimibile istanza dell’uomo! (Applausi).

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