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«Poc’anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti, la mia aureola, a un movimento brusco che ho fatto, m’è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non farmi fracassare le ossa. (…) E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente». Così parlò Baudelaire del poeta – di se stesso – che aveva abbandonato l’aureola nella metropoli moderna. Un colpo tirato alla «religione dell’arte» e ai suoi massimi rappresentanti. La misteriosa luce diffusa dietro al volto tornava a essere una esclusiva delle creature celesti.
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C’è sì una affinità tra santi e artisti, ma non nel senso della vulgata ricorrente, che striscia genuflessa davanti a chiunque traffichi con l’estetico e lo consacra; è l’ascesi piuttosto che accomuna chi è salito alla gloria degli altari e chi pena negli ateliers: una parola greca, àskesis, che non significa ‘rinuncia’ ma ‘esercizio’, ‘pratica’. Gianfranco Ravasi ne ricorda l’etimologia nel catalogo di una mostra romana sui santi, appena inaugurata a Palazzo Venezia.
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Si intitola «Il Potere e la Grazia» e narra di due forze contrapposte. Avevamo accennato alla Croce che tempera la libertà sfrenata del Potere («Almanacco» del 26 novembre 2008): il simbolo della vittima diventa il limite per eccellenza alle possibilità dell’egoismo umano. Anche i santi sono un baluardo con il quale la Chiesa cerca di frenare l’autonomia del politico. Lo Stato, i Regni, i Poteri laici furono cristianizzati, battezzati, attraverso queste figure di mediatori con il Cielo e con i sudditi, i sofferenti, i bisognosi. Talvolta la Grazia restò ferita atrocemente dal Potere, e si ebbero i martiri; talaltra il Potere quasi coincise con la Grazia, e fu l’epoca dei sovrani santi.
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Agiografia europea. Dopo il tentativo di unificazione carolingia, andata presto in frantumi, per secoli cadde l’oblio sull’idea di Europa, salvo tra i poeti e i pittori colti di mitologie che la tennero viva, preda di Zeus. Allora fu il termine ‘cristianità’ a coprire quell’immenso territorio dall’Atlantico agli Urali. «La cultura europea – si interrogava anni fa il cardinal Ratzinger – è la civiltà della tecnica e del commercio diffusa vittoriosamente per il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine delle antiche culture europee?». Le antiche culture si nutrivano tutte della santità, la mostra va dunque al cuore dell’Europa, ci salva da quella comunità del burro e dell’acciaio, delle ‘quote latte’ e della ‘sessualità senza peccato’, che è una pacchianeria burocratica eretta a patria.
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Per fare i santi c’è bisogno della grazia, del dono divino. Sull’Europa, nonostante i costumi barbari e le stragi, si diffuse copiosamente il dono della santità. Anche il talento artistico è un dono del Cielo e sul Vecchio Continente discese come la manna; a dire il vero, soprattutto sul versante occidentale, nel mondo slavo imponendosi il pregiudizio iconoclasta bizantino che lasciò un forte segno negativo nella storia dell’arte, fino a oggi.
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Il curatore della mostra, un sacerdote, spiega con il tono omiletico del buon parroco i suoi intenti: il visitatore può vedere i martiri, gli asceti, i mistici, i santi re e le sante regine… Non a caso abbiamo scritto che questa esposizione «narra», si propone come una epopea. Insomma, vi si chiede di fissare lo sguardo sul ‘contenuto’ dei quadri, di lasciare da parte le schede tecniche. A furia di scartabellare i pedanti cataloghi delle mostre, ci si è disabituati a vedere quello che raffigura la tela o la tavola, distratti dai problemi della forma. Il buio pesto escogitato dagli allestitori, una volta tanto, potrebbe avere una giustificazione: seguiamo un racconto oscuro che si snoda nei millenni, segnato da improvvise apparizioni luminose.
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La mostra raccoglie i santi protettori degli Stati europei, ritratti dai grandi pittori europei. Una breve storia della cultura cattolica, con testimoni prestigiosi, endorsements, quali Caravaggio, van Dyck, van Eyck, El Greco, Guercino, Holbein, Ambrogio Lorenzetti, Mantegna, Memling, Murillo, Tiepolo, Velàzquez (tra gli eccelsi, nessuno menziona negli articoli e nei comunicati Pietro da Cortona, qui con il suo strepitoso San Michele). Soltanto il cattolicesimo può mobilitare una così eletta schiera e vantare la diffusione – attraverso la propria teologia – di una cultura delle immagini che non ha confronti sulla terra.
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Su questo stuolo di aureolati si abbatté la repressione luterana e poi calvinista, cancellazione dell’idea di santità, cancellazione dei santi dal calendario, cancellazione delle reliquie dalle chiese, cancellazioni delle immagini dei santi da ogni dove. Eppure, la storia della santità continua nonostante le censure protestanti. A cinque secoli di distanza dalla rivolta di Lutero, san Pio da Pietrelcina richiama le folle del nostro tempo. Altra questione è perché le stigmate di Francesco furono cantate dai massimi artisti, Dante e Giotto in primis, e quelle del frate del Gargano sono affidate ai pittori naïfs e al folclore.
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Una mega-mostra sui nostri mallevadori per trasformare le fantasie degli eurocrati e nutrire quelle dei popoli avrebbe richiesto maggiore audacia, dimensioni più imponenti, contributi più corali (si sono dati da fare solo gli italiani), in modo da realizzare un evento miracoloso con la collaborazione di tutti i musei, di tutti gli specialisti, di tutti i governi anche. Ci sarebbe piaciuto seguire il santorale di Jacopo da Varagine, con centinaia di nomi che prendono forma nelle immagini dimenticate, e magari la ostensione di tutti i 1400 codici manoscritti che riecheggiarono nei secoli la Legenda Aurea, straordinario successo librario della storia antica. Con i santi chiamati a raccolta nella città santa per antonomasia, luogo della terra che rispecchia la gloria paradisiaca – questo il sogno degli artisti barocchi – con il racconto dei prodigi compiuti, delle intercessioni dall’alto e delle avventure quaggiù, delle battaglie con i diavoli, delle persecuzioni feroci, degli eroismi sublimi, dei portenti fiabeschi.
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La luce elettronica di film agiografici, su schermi collocati davanti alle tele dei pittori, fa l’effetto di una forchetta che graffia un piatto. Se proprio si volevano inserire questi documenti, per gusto smodato dei mix o per celebrare la transmedialità, c’era spazio in sale limitrofe. Quando mai una accorta padrona di casa collocherebbe sulla stessa tavola dei bicchieri di cristallo e delle posate di plastica sia pure ben disegnate? Però, nell’insieme, una bella idea. Che si formino le file di visitatori profani, che si mettano in processione.
C’è sì una affinità tra santi e artisti, ma non nel senso della vulgata ricorrente, che striscia genuflessa davanti a chiunque traffichi con l’estetico e lo consacra; è l’ascesi piuttosto che accomuna chi è salito alla gloria degli altari e chi pena negli ateliers: una parola greca, àskesis, che non significa ‘rinuncia’ ma ‘esercizio’, ‘pratica’. Gianfranco Ravasi ne ricorda l’etimologia nel catalogo di una mostra romana sui santi, appena inaugurata a Palazzo Venezia.
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Si intitola «Il Potere e la Grazia» e narra di due forze contrapposte. Avevamo accennato alla Croce che tempera la libertà sfrenata del Potere («Almanacco» del 26 novembre 2008): il simbolo della vittima diventa il limite per eccellenza alle possibilità dell’egoismo umano. Anche i santi sono un baluardo con il quale la Chiesa cerca di frenare l’autonomia del politico. Lo Stato, i Regni, i Poteri laici furono cristianizzati, battezzati, attraverso queste figure di mediatori con il Cielo e con i sudditi, i sofferenti, i bisognosi. Talvolta la Grazia restò ferita atrocemente dal Potere, e si ebbero i martiri; talaltra il Potere quasi coincise con la Grazia, e fu l’epoca dei sovrani santi.
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Agiografia europea. Dopo il tentativo di unificazione carolingia, andata presto in frantumi, per secoli cadde l’oblio sull’idea di Europa, salvo tra i poeti e i pittori colti di mitologie che la tennero viva, preda di Zeus. Allora fu il termine ‘cristianità’ a coprire quell’immenso territorio dall’Atlantico agli Urali. «La cultura europea – si interrogava anni fa il cardinal Ratzinger – è la civiltà della tecnica e del commercio diffusa vittoriosamente per il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine delle antiche culture europee?». Le antiche culture si nutrivano tutte della santità, la mostra va dunque al cuore dell’Europa, ci salva da quella comunità del burro e dell’acciaio, delle ‘quote latte’ e della ‘sessualità senza peccato’, che è una pacchianeria burocratica eretta a patria.
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Per fare i santi c’è bisogno della grazia, del dono divino. Sull’Europa, nonostante i costumi barbari e le stragi, si diffuse copiosamente il dono della santità. Anche il talento artistico è un dono del Cielo e sul Vecchio Continente discese come la manna; a dire il vero, soprattutto sul versante occidentale, nel mondo slavo imponendosi il pregiudizio iconoclasta bizantino che lasciò un forte segno negativo nella storia dell’arte, fino a oggi.
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Il curatore della mostra, un sacerdote, spiega con il tono omiletico del buon parroco i suoi intenti: il visitatore può vedere i martiri, gli asceti, i mistici, i santi re e le sante regine… Non a caso abbiamo scritto che questa esposizione «narra», si propone come una epopea. Insomma, vi si chiede di fissare lo sguardo sul ‘contenuto’ dei quadri, di lasciare da parte le schede tecniche. A furia di scartabellare i pedanti cataloghi delle mostre, ci si è disabituati a vedere quello che raffigura la tela o la tavola, distratti dai problemi della forma. Il buio pesto escogitato dagli allestitori, una volta tanto, potrebbe avere una giustificazione: seguiamo un racconto oscuro che si snoda nei millenni, segnato da improvvise apparizioni luminose.
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La mostra raccoglie i santi protettori degli Stati europei, ritratti dai grandi pittori europei. Una breve storia della cultura cattolica, con testimoni prestigiosi, endorsements, quali Caravaggio, van Dyck, van Eyck, El Greco, Guercino, Holbein, Ambrogio Lorenzetti, Mantegna, Memling, Murillo, Tiepolo, Velàzquez (tra gli eccelsi, nessuno menziona negli articoli e nei comunicati Pietro da Cortona, qui con il suo strepitoso San Michele). Soltanto il cattolicesimo può mobilitare una così eletta schiera e vantare la diffusione – attraverso la propria teologia – di una cultura delle immagini che non ha confronti sulla terra.
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Su questo stuolo di aureolati si abbatté la repressione luterana e poi calvinista, cancellazione dell’idea di santità, cancellazione dei santi dal calendario, cancellazione delle reliquie dalle chiese, cancellazioni delle immagini dei santi da ogni dove. Eppure, la storia della santità continua nonostante le censure protestanti. A cinque secoli di distanza dalla rivolta di Lutero, san Pio da Pietrelcina richiama le folle del nostro tempo. Altra questione è perché le stigmate di Francesco furono cantate dai massimi artisti, Dante e Giotto in primis, e quelle del frate del Gargano sono affidate ai pittori naïfs e al folclore.
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Una mega-mostra sui nostri mallevadori per trasformare le fantasie degli eurocrati e nutrire quelle dei popoli avrebbe richiesto maggiore audacia, dimensioni più imponenti, contributi più corali (si sono dati da fare solo gli italiani), in modo da realizzare un evento miracoloso con la collaborazione di tutti i musei, di tutti gli specialisti, di tutti i governi anche. Ci sarebbe piaciuto seguire il santorale di Jacopo da Varagine, con centinaia di nomi che prendono forma nelle immagini dimenticate, e magari la ostensione di tutti i 1400 codici manoscritti che riecheggiarono nei secoli la Legenda Aurea, straordinario successo librario della storia antica. Con i santi chiamati a raccolta nella città santa per antonomasia, luogo della terra che rispecchia la gloria paradisiaca – questo il sogno degli artisti barocchi – con il racconto dei prodigi compiuti, delle intercessioni dall’alto e delle avventure quaggiù, delle battaglie con i diavoli, delle persecuzioni feroci, degli eroismi sublimi, dei portenti fiabeschi.
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La luce elettronica di film agiografici, su schermi collocati davanti alle tele dei pittori, fa l’effetto di una forchetta che graffia un piatto. Se proprio si volevano inserire questi documenti, per gusto smodato dei mix o per celebrare la transmedialità, c’era spazio in sale limitrofe. Quando mai una accorta padrona di casa collocherebbe sulla stessa tavola dei bicchieri di cristallo e delle posate di plastica sia pure ben disegnate? Però, nell’insieme, una bella idea. Che si formino le file di visitatori profani, che si mettano in processione.
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